Libano: stallo politico e attesa del papa

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Foto LaPresse.

Dalla sua abitazione beirutina il mio interlocutore risponde in modo disarmante: “da un anno parliamo del disarmo di Hezbollah in funzione di Israele e della sua richiesta di disarmarli per la sua sicurezza, mentre da parte nostra ricordiamo che anche Israele si era impegnato a ritirarsi dal Libano e non lo ha fatto integralmente, continuando poi incursioni aeree. È un cane che si morde la coda: Israele non si ritira perché Hezbollah non disarma e Hezbollah si tira indietro dal disarmare perché Israele non si è ritirato. Ma immaginiamo che rientrando a casa scopri un uomo armato nel tuo salotto. È un problema prioritariamente tuo o del tuo vicino? Certo, quella presenza armata lo può preoccupare, soprattutto se tra i due c’è grande astio, ma il problema è innanzitutto tuo. Chi è il padrone a casa tua?”

Da quando sono stati eletti, a inizio anno, il Presidente Joseph Aoun e il nuovo esecutivo sanno bene che la presenza di un soggetto armato in Libano che non dipende dal governo ma da altri è innanzitutto un loro problema e hanno avviato operazioni militari di confisca dei depositi di Hezbollah, anche perché il Presidente Aoun, appena nominato, ha detto che lo Stato deve avere il monopolio delle armi.

Ma ora che Hezbollah si rifiuta di procedere adducendo a motivazione della sua virata la persistente presenza di Israele in Libano, il presidente sa dei rischi enormi di un tentativo di procedere unilateralmente. L’inviato americano in Medio Oriente, Tom Barrack, ha detto che un miliziano di Hezbollah percepirebbe 2200 dollari quale retribuzione mensile, un soldato libanese invece percepirebbe 275 dollari al mese.

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Ma il dato nuovo e importante che emerge da alcune fonti di intelligence citate dalla stampa locale è che il riarmo di Hezbollah, che avrebbe trovato il modo di riattivare canali clandestini di approvvigionamento d’armi dall’Iran, riguarderebbe proprio il Libano: sarebbero missili a corto raggio che Hezbollah non porterebbe più nel sud del Libano, cioè vicino a Israele, ma più a nord, quindi più vicino a Beirut. Con un governo che comunque afferma la necessità che Hezbollah disarmi questa dislocazione ha un senso.

Le pressioni di Israele perché ci sia davvero il disarmo di Hezbollah, che il Libano si è impegnato a completare entro l’anno, non sono diplomatiche ma militari, dal cielo e da terra, e tutto dice che si intossicheranno.

In queste condizioni si cerca di avviare un negoziato che coinvolga israeliani e libanesi, ma molti scrivono che per Hezbollah a decidere più che il governo libanese è l’Iran. Hezbollah infatti non è un “partito libanese”, ma la un’agenda iraniana, è stato creato per esportare la rivoluzione khomeinista. E l’Iran, che un suo negoziato con gli americani lo avrebbe tramite l’Oman, non vorrà rinunciare a far pesare la carta Hezbollah per strappare condizioni migliori a Donald Trump.

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Dunque il governo libanese è un governo in difficoltà, anche perché sa benissimo che se forzasse la mano contro Hezbollah si rischierebbe una nuova guerra civile. Ma può un governo accettare di non governare sul suo territorio e non avere il controllo della politica nazionale di difesa, visto che Hezbollah ha autonomamente dichiarato molte guerre?

Beirut chiede agli americani maggiore comprensione: loro avrebbero bisogno di dimostrare che Israele si ritira per dimostrare che ottengono e quindi che sono legittimati a chiedere a Hezbollah di fermarsi e consegnare le sue armi. È quello che, senza dirlo, ha fatto capire il presidente libanese dicendo che il suo Paese non può non negoziare con Israele, i negoziati si fanno per forza con il nemico, non con gli amici, ma la volontà negoziale deve essere reciproca.

Il Libano vive un momento molto difficile, il rischio di escalation militare è dietro l’angolo e la visita del papa -prevista per fine novembre – se può consentire di guadagnare un po’ di tempo non può ridursi a un ombrello usa e getta. L’inviato americano Tom Barrack è stato spietato, definendo il Libano uno Stato fallito. Un colpo duro, al quale serve una risposta vera.

Forse proprio la visita del papa potrebbe essere l’occasione per cercare un nuovo patto nazionale che ponga i libanesi davanti alla domanda: “cosa serve per tornare a essere un Paese sano e padrone del suo destino?” Il dato di fondo di questi anni è che Hezbollah, che ha egemonizzato la comunità sciita creando un sistema assistenziale e informativo confessionale, è diventato un modello per tutti gli altri. Anche le altre forze politiche si chiudono nell’apparenza confessionale, stabilendo un nesso tra partito, leader e comunità di fede, creando loro sistemi assistenziali, radiofonici e televisivi.

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È questo il modo in cui il Libano, che era una potenza economica prima della guerra civile, è diventato debole. Rifondarsi nel consenso interconfessionale, liberarsi dalla casta che ha finito col dividersi le spoglie del vecchio Stato, definire la priorità del bene comune, appare il modo per  arrivare anche al disarmo di Hezbollah in termini politici e culturali: non è un cedimento ad altri, è  una necessità dello Stato che vuole servire tutti, compresi gli sciiti ovviamente.

Il viaggio di Leone può apparire dunque una tappa non solo per scandire le prossime fase politico-militari, guadagnando tempo, ma anche per impostare un discorso politico e culturale dal quale il disarmo di Hezbollah deriverebbe come conseguenza logica. Il calendario è clemente, visto che tra pochi mesi si voterà per il nuovo Parlamento. Servirebbe una politica nuova e quindi anche l’idea di quale messaggio sia il Libano, per tornare alla cruciale espressione che usò durante la sua visita Giovanni Paolo II.

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2 Commenti

  1. Maria Laura Innocenti 14 novembre 2025
  2. Giuseppe Samir Eid 13 novembre 2025

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