
Intervento di mons. Mariano Crociata, presidente della COMECE, alla giornata di apertura del Convegno «La solitudine dell’Europa: le Chiese e l’Unione» (cf. qui su SettimanaNews), organizzata dal nostro portale digitale, dedicata ad alcuni sguardi sull’Europa e dall’Europa.
Parlare delle chiese significa innanzitutto parlare della fede, da cui esse originano e nella quale trovano la loro ragion d’essere. Viene spontaneo, in questa prospettiva, portare all’attenzione una domanda che è messa a tema almeno da due volumi relativamente recenti, uno di Olivier Roy, L’Europa è ancora cristiana? Che cosa resta delle nostre radici religiose, del 2019[1], l’altro di Joseph Weiler, con lo stesso titolo, L’Europa è ancora cristiana? Saggio esplorativo su Cristianesimo, laicità e identità europea, del 2025[2].
Come ben riassume Marta Cartabia nella prefazione a quest’ultimo, in Europa «non esiste un unico modello di rapporto tra Stato e Chiesa a cui occorra uniformarsi: si riscontra al contrario una varietà di soluzioni istituzionali, tuttora vigenti, che vanno dalla religione di Stato, allo schema pattizio, alla più rigida separazione». In tale contesto differenziato, caratterizzato comunque da secolarizzazione e pluralismo religioso, la proposta degli Stati non è quella che pretende di essere, uno spazio vuoto, equidistante da ogni posizione, ovvero l’«idea della laicità-neutralità»[3], poiché «l’asserita “neutralità” dello Stato secolare nei confronti della religione non è affatto neutra, né può esserlo»[4].
In realtà, sostiene Weiler, il secolarismo «abbraccia una delle visioni possibili, quella “senza Dio” appunto, e se ne fa portavoce»[5]. Non dunque «una opzione “neutra”, ma la scelta di uno spazio pubblico senza religione»[6]. La soluzione dovrebbe essere piuttosto quella di uno spazio pubblico aperto a tutti in un regime di reale libertà, che significherebbe non solo libertà di religione ma anche «libertà dalla religione, quella di chi non professa alcun credo»[7], dal momento che «la libertà di ciascuna persona deve essere presa sul serio e profondamente rispettata anzitutto per una ragione teologica: Dio ci ha creati liberi, liberi anche di non riconoscerlo»[8].
La domanda sull’identità cristiana dell’Europa dovrebbe trovare dunque una prima risposta nel riconoscimento del pluralismo religioso che vede tutte le presenze, religiose e non religiose, muoversi liberamente nello spazio pubblico. Secondo Olivier Roy, a spartirsi il campo in tale spazio sono soprattutto l’islam e l’illuminismo, insieme al cristianesimo. La reazione dei vari populismi è quella di combattere per la salvaguardia dell’identità cristiana, riportata però alla sua dimensione culturale secolarizzata, nella quale del cristianesimo restano come residui alcuni frammenti ridotti a marcatori culturali. E, seppure persistano ancora tanti elementi cristiani nel panorama europeo, tuttavia al cristianesimo non basta una vaga connotazione culturale, poiché esso si qualifica propriamente come una fede, e «rivendicare una cultura cristiana non è credere in Dio»[9].
Bisogna dire che con la modernità, e soprattutto con il postmoderno, è intervenuta una rottura in seguito alla quale ciò che conta è fondato «sull’individualismo, sulla libertà e sulla valorizzazione del desiderio»[10], in una sorta di «neoliberalismo libertario»[11], che porta Roy a dire che il popolo cristiano è ormai un «popolo immaginario»[12].
Anche l’ultimo lavoro di Luca Diotallevi[13], che aveva già interpretato la condizione attuale del cristianesimo in Italia con la categoria di «religione a bassa intensità»[14], non esita a parlare di «fine del Cristianesimo, [come] religione degli italiani»[15], intendendola come fine di un mondo, di un modo di essere chiesa, di un regime ecclesiale, di un modo di credere. Finisce «una religione che aveva funzionato da collante di società in forma di Stato». «La religione che tramonta in non piccola misura aveva adattato la verità e la vitalità del Vangelo alle esigenze di un determinato ordine sociale»[16].
Anch’egli considera questo come un tempo non di fine, ma di rigoglio del religioso, al quale molto cristianesimo si adatta vedendo fiorire però soltanto il consumo religioso, in un appiattimento perfino sul commerciale, che viene a sostituire la religione tradizionale e confessionale con «una melassa valoriale che presenta alcune striature lasciate dai residui cristiani»[17], insomma una «religione mercificata»[18].
Mi è sembrato opportuno accennare a questi studi, sia pure in modo rapsodico, per tenere presente sullo sfondo alcune caratteristiche della condizione generale del cristianesimo in Europa, peraltro, a detta di Roy, accentuata dalla sua mondializzazione che ha modificato il suo legame con l’Europa, la quale non è più al centro del cristianesimo, e lascia aperta la questione se il cristianesimo sia più al centro dell’Europa[19]. Si può facilmente osservare che la situazione non è uniformemente caratterizzata nel senso rappresentato, in un modo o in un altro, da questi autori, e tuttavia è difficile sfuggire alla percezione che un ridimensionamento non tanto e non solo quantitativo sia in atto nel nostro continente.
La formazione dell’Unione Europea e la Chiesa cattolica
Dobbiamo dare per conosciuto il significato storico della nascita, nei primi anni ’50, di quella che diventerà nel 1993 l’Unione Europea. Ciò che dobbiamo richiamare è che i suoi inizi non hanno richiesto alcuna connotazione religiosa cristiana esplicita, per la semplice ragione che non ce n’era bisogno, essendo tale connotazione, pur con tutti i distinguo, dimensione implicita e data per assodata nei protagonisti e nella cultura dell’epoca. I principi e i valori religiosi sono di fatto al centro delle motivazioni e delle ispirazioni che hanno condotto alla costituzione della Comunità Europea, precisamente nei termini di una pace cercata innanzitutto attraverso un movimento di riconciliazione tra popoli e nazioni che fino a pochi anni prima erano stati in guerra l’uno contro l’altro.
Il bisogno di pace riceveva una spinta irresistibile dall’esperienza sanguinosa della guerra, la cui memoria era come scritta nella carne viva dei sopravvissuti, e dal desiderio di rimuovere definitivamente le cause che portavano regolarmente al riesplodere di conflitti nel cuore dell’Europa con una ciclicità risalente nei secoli. La Chiesa ha accompagnato il processo con la sua approvazione, espressa fin dall’inizio da papa Pio XII con una dichiarazione impegnativa già l’11 novembre 1948[20]. Il magistero dei Papi poi si è fatto sempre più attento ai temi europei in un crescendo, da Paolo VI a papa Francesco e a papa Leone[21], che dicono l’adesione piena della Chiesa al progetto europeo.
Ne sono un segno rilevante l’apertura della Nunziatura della Santa Sede presso la Comunità Europea nel 1970 e la costituzione della Commissione degli Episcopati della Comunità Europea nel 1980. Su un piano diverso si colloca la costituzione del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee, nel 1971, il quale, diversamente dalla COMECE che è formata da delegati degli episcopati dell’Unione Europea, riunisce i presidenti delle conferenze episcopali di tutti i Paesi europei e precisamente con la finalità di un accompagnamento pastorale del cammino del continente, analogamente alle altre conferenze episcopali continentali.
Se per un verso si tratta di una crescita nell’attenzione al movimento di unificazione europea, per altro verso si può cogliere la preoccupazione di seguire sempre meglio una realtà dal peso sociale e politico crescente e, questo, in un contesto sociale segnato da un movimento inverso di indebolimento e di dispersione della presenza e del senso cristiano della realtà. Diventava necessario presidiare uno spazio da cui la vita dei popoli e quella della Chiesa tendeva ad essere condizionata in misura crescente.
Il senso di questo indebolimento e della sua percezione nel mondo ecclesiale troverà espressione nel dibattito, negli anni a cavallo del passaggio di secolo e di millennio, sull’inserimento della menzione delle radici cristiane nella Costituzione europea, poi non approvata, o nei Trattati. Ci sono senza dubbio motivi che spingono nel senso dell’inserimento di tale riferimento[22], nondimeno non è del tutto impertinente osservare che diventa necessario parlare di radici, che non si vedono, quando la pianta che esse hanno fatto crescere non è più così florida e riconoscibile come un tempo[23].
In aggiunta e oltre tutto questo, a distanza di 75 anni dalla Dichiarazione di Robert Schuman, l’Unione Europea, e con essa l’intera Europa, si trova in una situazione profondamente mutata, e si direbbe perfino capovolta, rispetto ai suoi inizi, come è di tutta evidenza a seguire le cronache, e non solo, di questi anni. Quello che era e che è stato perseguito fino a ieri come un progetto di pace, destinato a rendere impossibile il ritorno della guerra sul territorio europeo, è stato inopinatamente smentito come poco più di un sogno ingenuo seguito da un brutto risveglio di chi era vissuto nella tranquilla e scontata certezza che comunque la guerra era qualcosa che non poteva più ritornare.
Se c’è una cosa che tutti dobbiamo rimproverarci è l’aver perduto il senso della necessità di vigilare sui segnali di allarme e sulla tentazione di adagiarsi su sicurezze in realtà infondate, preoccupati come siamo stati solo di amministrare una condizione di benessere comunque assicurato noncuranti perfino di sapere da parte di chi. Oggi ci troviamo a discutere di riarmo e di difesa come di una cosa ovvia e comunque necessaria, che rimuove senza troppi pensieri e scrupoli il fatto che tutto era nato con l’idea di rendere impossibile proprio il ritorno della guerra.
Le domande che nascono sono tante. Per esempio: dobbiamo dare per superato il senso originario del progetto europeo? Ma, può un progetto di unificazione europea andare avanti dopo un mutamento così radicale? E può il cammino di unificazione europea procedere in avanti se non è più un progetto di pace? D’altra parte, di fronte ad una minaccia quale l’invasione subita dall’Ucraina e rappresentata dalla sua vicenda di questi anni, come si persegue un progetto di pace? È possibile continuare un cammino europeo comune mettendo da parte il patrimonio culturale e morale coltivato e sviluppato in continuità con le origini dell’Unione? E come tale patrimonio può essere valorizzato e mantenuto nel nuovo contesto, se esso viene violentato da potenze che intendono affermarsi attraverso l’uso della forza in spregio a ogni forma di multilateralismo e soprattutto di ogni diritto internazionale?
A queste domande, e alle difficoltà che segnalano, bisogna aggiungere un’altra questione, questa volta di tipo strutturale, legata cioè a come l’Unione è nata e a come si è istituzionalizzata. Va pure ricordato, infatti, che l’Unione Europea è una esperienza unica per la sua forma istituzionale nel panorama internazionale, poiché è caratterizzata dalla condivisione di sovranità da parte di alcuni Stati i quali rimangono autonomi e sovrani mentre gestiscono alcune materie insieme ad altri secondo accordi definiti con Trattati a cui ciascun Paese ha scelto via via di aderire.
Questa forma di sovranità condivisa comporta una articolazione complessa della governance dell’Unione Europea, tra Consiglio Europeo, Commissione Europea e Parlamento Europeo, ma soprattutto pone problemi di legittimità democratica, poiché il processo decisionale rimane sostanzialmente in potere dei governi nazionali, e, d’altra parte, la rappresentanza parlamentare, per non dire anche della selezione delle figure apicali della Commissione Europea, viene mediata dalle logiche elettorali nazionali. Il risultato è quello che viene qualificato come deficit di democrazia dell’Unione, almeno stando agli standard definiti dalle democrazie parlamentari nazionali. Questo nodo sta venendo al pettine creando ulteriori complicazioni nell’affrontare problemi eccezionali quali quelli sopra richiamati e subendo gli effetti di un funzionamento reso faticoso anche dalla necessità di una unanimità che rallenta, se non paralizza del tutto, piccoli e grandi processi decisionali.
Si potrebbe dire, pertanto, che la solitudine dell’Europa è almeno altrettanto determinata da questi fattori e dinamiche interni quanto anche da relazioni internazionali nelle quali, con l’aggravante di questi aspetti funzionali, essa si trova in questa fase ad essere emarginata e tenuta fuori da dinamiche geopolitiche decisive.
Tutti questi fattori sono allo stesso tempo origine e accelerazione di una divisione che attraversa l’Unione Europea tra i Paesi che ne fanno parte e all’interno di ciascuno di essi. Ci sono dialettiche che generano tensioni tra Paesi grandi e piccoli, tra Est e Ovest, tra Nord e Sud. In particolare, a distanza di venti anni dall’ingresso nell’Unione, i Paesi dell’Europa orientale attraversano una fase di delusione e risentono dell’eredità sovietica che li ha comunque profondamente segnati, per quanto le differenze tra tutti i Paesi dell’Unione tendano a dissolversi nella comune condizione di doversi misurare con problemi simili, sia sul piano economico che su quello culturale e politico[24].
Di fronte a tutto questo, che cosa fanno le Chiese?
Mi limiterò a tre ordini di considerazioni, la prima riguardante la loro condizione generale, la seconda quella che è da considerare l’istanza di fondo, la terza sulla COMECE, la sua funzione e la sua attività.
Bisogna diffidare di una immagine delle Chiese – sia cattoliche che protestanti e ortodosse – che le consideri come un corpo compatto che si collochi a fianco o di fronte alla società e alle sue dinamiche culturali e politiche. Le Chiese sono parte in causa, influenzate e influenti, in forme e modalità differenti, ma realmente tali, parte in causa. Soprattutto oggi, in un tempo nel quale meno che mai il popolo dei fedeli è un popolo unito. I fenomeni dell’individualismo e del soggettivismo, per citare solo questi, intaccano il corpo ecclesiale e lo impregnano non meno di quanto non avvenga in tutte le altre componenti della società. E il problema in radice sta proprio qui, nella fragilità del tessuto ecclesiale almeno da due punti di vista, la forza della coscienza dei singoli e la qualità delle relazioni tra i credenti e tra le comunità.
Un problema che abbiamo come Chiesa riguarda la capacità di trasmettere e di far crescere un senso di fede e una capacità di giudizio di fede dei singoli e delle comunità di credenti. Proprio questo compito fondamentale sembra maggiormente in affanno al giorno d’oggi. Un compito reso ancora più difficile dal clima di ansia, di paura, di tensione e di incertezza; dalla perdita di un ethos condiviso; dagli effetti di una tecnologia che, soprattutto in ambito comunicativo, condiziona, se addirittura non altera, le capacità di discernimento e di giudizio, esponendo a influenze prodotte da grandi centri di interesse e a una disinformazione che determina un’immagine alterata della realtà.
È in un tale contesto che va ripresa l’istanza di fondo della missione ecclesiale e dell’esperienza cristiana. Qui si tratta di comprendere, sperimentare e condividere che è possibile credere oggi, in questo tempo, in questo mondo e in questa Europa, così come si danno. Ma per riuscire in questo c’è bisogno di capire e vivere che cosa significhi credere oggi, stare da credenti in questo mondo, in questa società. Fin troppo facile constatare come alla ricerca di un qualche orientamento, la via d’uscita più facile è quella di tipo ideologico, perché rassicurante, almeno immediatamente, o trovando rifugio nel passato, fuggendo appunto dal presente, o al contrario adottando come buoni tutti i motivi alla moda dettati dal politicamente corretto, che non smette mai di agitare la comunicazione pubblica in un clima di rigorosa assenza di pensiero.
Nel merito, al momento non troverei niente di meglio che una indicazione di metodo, alquanto estrinseca se si vuole, e certamente cauta, ma sicura e tale da richiedere coraggio e lucidità: camminare insieme a tutta la Chiesa in questo attraversamento del tempo che viviamo. L’impegno volto a orientare in senso sinodale l’esperienza ecclesiale è già sulla via della risposta. E la ragione è semplice: il cammino sinodale è esso stesso non tanto una tecnica ma una esperienza in cui singoli e comunità procedono insieme in una ricerca che assume le condizioni del vivere e dello stare insieme maturando e lasciando fermentare il senso della fede dentro le situazioni e dentro la storia che è la nostra. Se c’è una difficoltà da superare, tra altre, è la dissociazione tra pratica religiosa e condizione secolare. La vita invece deve entrare ancora e di più nel cuore dell’esperienza credente per venirne trasfigurata e, d’altra parte, la fede vissuta attende di incarnarsi nel quotidiano comune e nelle vicende piccole e grandi dei drammi personali e sociali di oggi. Tutto questo ha bisogno di essere elaborato e condiviso in un adeguato clima ecclesiale, che non separi spiritualità e politica, per dirla con un binomio ardito.
Essere convinti ed avere viva coscienza del valore di ciò che siamo e portiamo, credere in se stessi e nella forza della fede: in questo sta la prima ed elementare condizione per riprendere il cammino, cominciando dal riconoscimento dei fermenti di bene e di grazia che sorprendentemente non cessano di spuntare attorno a noi.
È opportuno aggiungere, infine, una parola sull’attività della COMECE, come esemplificazione dell’esigenza di mantenere attivi quegli strumenti istituzionali, a cominciare da quelli della Santa Sede, che consentono di accompagnare il cammino delle istituzioni sociali, civili e politiche. Anche queste svolgono una funzione necessaria nel servizio e nella testimonianza che la fede rende al mondo attuando la missione della Chiesa. È chiaro infatti che le Chiese non si pongono come parte di una interazione dialettica quasi fossero una tra altre forze politiche. La loro capacità di incidenza, ma perciò anche la loro necessità, dipende dalla convinzione che l’Europa ha bisogno del cristianesimo, ha bisogno dei cristiani, particolarmente in una fase storica come l’attuale. Di fatto le correnti ideali che hanno generato il meglio del patrimonio valoriale e culturale di cui si nutrono le tradizioni da cui nascono i nostri Paesi e la stessa Unione Europea hanno un consistenza cristiana, pur con tutte le varianti e le mutazioni intervenute e senza nulla togliere alla molteplicità di altri apporti operanti nel passato e nel presente.
Pertanto è vitale per l’Europa attingere ancora una volta alla corrente viva del cristianesimo che continua a intrecciarsi con la sua storia. Senza l’apporto del cristianesimo difficilmente l’Unione potrà sopravvivere se non in una forma che è difficile immaginare. Il problema che essa soffre è la mancanza di una ispirazione, di un’anima – come qualcuno ha detto[25] – che la motivi e la spinga a ritrovare fiducia in se stessa e a porsi degli obiettivi condivisi capaci di unire oltre la lotta lacerante per la difesa di interessi di parte. Per quanto si cerchi di rileggere i principi e i valori posti a fondamento dell’Unione in un’ottica esclusivamente razionale e illuministica, la loro stoffa di fondo ha un carattere cristiano che va ri-attinto non per essere utilizzato in senso clericale e nemmeno per rivendicazioni di paternità o semplicemente di parte, ma per spingere a ritrovare realmente l’anima di cui oggi essa sembra proprio mancare.
Mi pare opportuno, a questo punto, citare il Preambolo dello Statuto della COMECE per spiegare il compito che ad essa è affidato:
La COMECE accompagna il processo politico dell’Unione Europea nelle aree di interesse per gli Episcopati dell’Unione Europea; monitora le attività dell’Unione Europea ed informa a riguardo gli Episcopati dell’Unione Europea; comunica alle istituzioni ed autorità europee le opinioni e le visioni degli Episcopati dell’Unione Europea relativi all’integrazione europea.
Nello svolgimento di questo compito c’è un ruolo fondamentale degli esperti che formano lo staff della Segreteria, i quali si occupano di studiare passo passo l’azione e la produzione degli organismi dell’Unione, il cui lavoro confluisce nelle commissioni interne oltre che nell’assemblea dei vescovi; i vescovi delegati, a loro volta, riunendosi due volte l’anno seguono anch’essi le varie questioni confrontandosi con rappresentanti istituzionali, esperti interni e tra di loro. Costante è la comunicazione con la Santa Sede e con il Santo Padre, come mostra anche la presenza del Nunzio presso l’Unione Europea alle attività della Commissione.
Probabilmente andrebbe rafforzata la comunicazione e lo scambio con gli episcopati nazionali e con le loro Chiese; di fatto anche in questa direzione l’Europa rischia di rimanere distante e lontana. Intensa e costante è la collaborazione con il Consiglio Europeo delle Chiese, che raccoglie le confessioni protestante e ortodossa. Il lavoro condotto insieme conferisce maggiore forza e autorevolezza alla presenza e agli interventi delle Chiese cristiane presso l’Unione.
Il titolo di questo intervento fa riferimento in particolare al quadro del dibattito delle e tra le Chiese in termini di consensi e dissensi. È doveroso dire che il lavoro che si svolge nella Commissione porta sempre a convergere su alcune posizioni di fondo in ordine alle varie questioni all’ordine del giorno e senza particolari difficoltà. C’è dibattito franco ma anche volontà di trovare risposte efficaci e concordi nella formulazione di documenti e prese di posizione.
Altra è la questione riguardante le posizioni degli episcopati come tali. Bisogna dire, in generale, che i vescovi anche a noi appaiono in un rapporto di intesa profonda con i fedeli delle rispettive comunità diocesane; non mancano posizioni anche dialettiche con le istituzioni politiche, in una relazione con queste che si differenzia da Paese a Paese, a seconda del modello di accordo tra Stato e Chiesa e a seconda della consistenza di presenza sociale, maggioritaria o minoritaria che sia.
Non è difficile cogliere un duplice condizionamento tra i Paesi e al loro interno. In una condizione di minoranza è facile riscontrare una posizione compatta, delle comunità ecclesiali unitamente ai vescovi, anche nella proiezione pubblica, ciò che si verifica pure in Paesi con una presenza religiosa e confessionale diversificata. L’atteggiamento antieuropeista di alcuni governi o di maggioranze politiche attive conosce, dove più dove meno, una condivisione da parte dei fedeli delle Chiese cristiane. Questo vale nei Paesi dell’Est europeo, ma non è assente anche nei Paesi occidentali, nei quali soprattutto va segnalata una divisione tra i fedeli analoga a quella che divarica l’opinione pubblica e l’elettorato in generale.
Tutto questo richiede uno sforzo di guida e di dialogo, allo stesso tempo, che il cammino sinodale, dove più dove meno avviato, dovrebbe favorire. Il timore è che temi di carattere sociale e latamente politico non vengano considerati idonei a essere ospitati in un confronto e in un dialogo intraecclesiale e che li si ritenga al più riservati e lasciati a quelli che anche istituzionalmente hanno la funzione, o la delega, di occuparsene. La verità è che per il valore e l’efficacia dell’azione delle istituzioni ecclesiali non è di poco conto la forza che viene dal suo essere espressione di una vasta e unita coscienza ecclesiale. Ma su questo c’è molto da operare ancora.
In ogni modo tra gli organismi ecclesiali, la COMECE svolge una attività di interlocuzione costante con le istituzioni europee. Un testo riassuntivo di questa attività è il documento di riflessione sulle relazioni esterne dell’Unione Europea e sul suo ruolo globale, pubblicato nel giugno scorso[26]. Esso insiste sulla necessità di non perdere di vista il senso del progetto europeo come progetto di pace anche in questo tempo di guerra, e quindi di rafforzare i meccanismi di controllo e gli standard etici in tema di difesa e armamento, di prevenire il rischio di instabilità finanziaria, di promuovere un approccio integrale sui temi della sicurezza e della pace, di contribuire a una nuova architettura globale di pace.
Strettamente connesso con il senso del progetto europeo è il completamento dell’Unione con l’allargamento ad altri Paesi, rispetto ai quali l’invito è a fare tesoro dell’esperienza degli ingressi precedenti, a promuovere un processo di allargamento che sia centrato sulla persona, credibile ed equo, a perseguire le riforme interne necessarie in vista di future integrazioni, a impegnarsi in un rapporto costruttivo con i Paesi confinanti attraverso una politica di vicinato. Infine il documento considera l’Unione come attore globale responsabile che fonda sui valori la promozione di uno sviluppo sostenibile, attraverso una strategia relazionale, un commercio libero ed equo, l’attenzione alla sostenibilità, l’aiuto ai Paesi fragili, il coinvolgimento di attori locali.
Come si può cogliere, c’è una visione che sorregge e anima il contributo che la COMECE cerca di portare all’Unione, con una tempestività che si vede anche nel documento con cui essa partecipa alla consultazione promossa dalla Commissione Europea sul cosiddetto EU Democracy Shield[27], tema sulla cui drammatica attualità non c’è bisogno di spendere parole.
Specularità
Si può osservare una sorta di specularità tra situazione dell’Europa e situazione di cristianesimo e Chiese, in un clima trasversale di sfiducia e di rassegnazione, fino allo smarrimento. Non saprei dire in quale misura l’una dipenda dall’altra, certo è che una ripresa dell’una può essere di aiuto a quella dell’altra. Da parte ecclesiale abbiamo bisogno di recuperare il paolino so in chi ho creduto» (2Tim 1,12). L’Europa d’altra parte ha bisogno di scuotersi dall’oscuramento e dall’oblio di ciò da cui è nata e del perché è nata. Qualcuno dovrebbe dire con forza che tutto ciò vale non meno oggi. Ne abbiamo la riprova nel fatto che costruendo insieme quel progetto abbiamo sperimentato decenni di pace e di benessere.
Il germe malato che corrode l’uno e l’altra, cristianesimo ed Europa, è la perdita del senso e del valore di ciò che ci appartiene, di ciò che ci è più proprio, di ciò che siamo. L’insidia più pericolosa è il non senso e il nichilismo, una malattia dello spirito e il segno di un malessere profondo da cui riprendersi riaccendendo la fiamma della vita, meglio ancora la fiamma della fede che fa vivere.
[1] Cf. O. Roy, L’Europe est-elle chrétienne?, Seuil, Paris 2019; trad. it. L’Europa è ancora cristiana? Cosa resta delle nostre radici religiose, Feltrinelli, Milano 2019.
[2] Cf. J.H.H. Weiler, L’Europa è ancora cristiana? Saggio esplorativo su Cristianesimo, laicità e identità europea, Rizzoli, Milano 2025. Il volume ripropone aggiornata una pubblicazione dei primi anni duemila.
[3] J. Weiler, op. cit., 8.
[4] Ivi.
[5] Ivi, 9.
[6] Ivi.
[7] Ivi, 11; anche 80.
[8] Ivi, 11.
[9] O. Roy, Op. cit., 51.
[10] Ivi, 87.
[11] Ivi, 89.
[12] Ivi, 147.
[13] Cf. L. Diotallevi, La chiesa si è rotta. Frammenti e spiragli in un tempo di crisi e opportunità, Rubbettino, Soveria Mannelli 2025.
[14] L. Diotallevi, Fine corsa. La crisi del cristianesimo come religione confessionale, EDB, Bologna 2017, 199-200; anche 230; 237.
[15] L. Diotallevi, La chiesa si è rotta, op. cit., 23.
[16] Ivi, 25.
[17] Ivi, 26.
[18] Ivi, 27.
[19] Cf. O. Roy, Op. cit., 35-36.
[20] «Non c’è più tempo da perdere… È ora che si faccia una unione europea. Si chiedono alcuni se non sia già troppo tardi. Ci attendiamo dalle grandi nazioni del Continente che sappiano fare astrazione dalla loro grandeur del passato, per attestarsi su una superiore unità politica ed economica».
[21] Di cui possiamo citare la seguente dichiarazione: «Le istituzioni europee hanno bisogno di persone che sappiano vivere una sana laicità, cioè uno stile di pensiero e di azione che affermi la valenza della religione preservando la distinzione – non separazione né confusione – rispetto all’ambito politico. Anche su questo, più delle parole, vale l’esempio di Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi» (Udienza ai membri del “Working Group on Intercultural and Interreligious Dialogue”, 29 settembre 2025).
[22] In questa direzione milita la posizione di Joseph Weiler: cf. op. cit., 21-53.
[23] Cf. O. Roy, cit., 6.
[24] Cf. A. Máté Tóth, Pellegrini di speranza. Considerazioni socio-teologiche in un tempo incerto, in «Il Regno attualità» 18 (2025) 498-503.
[25] Cf. J. Delors, Discorso al Parlamento Europeo, 17 gennaio 1989; ma cf. già Giovanni Battista Montini in un discorso dal arcivescovo di Milano del 12 settembre 1958.
[26] Cf. https://www.comece.eu/wp-content/uploads/sites/2/2025/06/20250623-Reflection-paper-EUs-role-in-a-changing-world.pdf
[27] Cf. https://www.comece.eu/wp-content/uploads/sites/2/2025/06/Contribution-25052025-COMECE-EU-Democracy-Shield-questionnaire-EN.pdf






Scusatemi se mi intrometto su questo delicato argomento. Ma per il vostro beneficio, vi consiglio di considerare la cosa, dal punto di vista del più grande maestro che sia mai esistito, cioè Gesù Cristo il quale ha dato la sua vita come riscatto, per salvare i meritevoli, da questo mondo malvagio. ( vangelo di Giovanni, cap. 3 v. 16 ) I un’altra occasione disse che ogni albero che non porta buoni frutti, sarà tagliato e gettato nel fuoco. Se come si legge in tutti commenti di di questo articolo, tutte le religioni di questo mondo, fanno capire che di tutto ciò che ha comandato il capo fondatore Gesù Cristo, non c’è nemmeno l’ombra del Vangelo. Ho trovato molto interessante, un articolo basato sul le profezie Bibliche, che senza ombra di dubbio, stiamo vivendo nel tempo della fine di questo mondo, turbolento governato dal nostro malvagio nemico Satana il Diavolo. Per questo la parola Vangelo, significa: Buona Notizia. Questa buona notizia del Regno, sarà predicata in Tutto il mondo, in Testimonianza a tutte le Nazioni, e allora verrà la Fine… ( Matteo cap. 24,v.14 ) Se vi interessa sapere dalle Profezie della Bibbia, quale sorte spetta a tutte le religioni del mondo, potete trovare la risposta a questa domanda, e a molti altri interrogativi, visitate il sito ufficiale JW.ORG. Da notare le parole di Gesù Cristo nel Vangelo di Giovanni, capitolo 17, v. 3 , solo la conoscenza della Verità, ci fa ottenere la Vita per sempre sulla terra Paradisiaca…
Cordiali saluti
Tre considerazioni. 1) Il valore fondamentale del progetto Europeo che ha giustificato la citata “approvazione” da parte della Chiesa del processo di integrazione europea è la pace. Se la CEE –poi UE– fosse stato mero accordo doganale, dubito che i diversi papi citati si sarebbero scomodati. Il XX secolo dovrebbe aver ampiamente dimostrato che il peggior nemico della pace sono i nazionalismi. Mons Crociata tuttavia si astiene scrupolosamente dal citare la parola nazionalismo. Eppure è il sentimento che cavalcano le destre al potere in Europa oggi.
L’UE è in profonda crisi di impotenza, ed è sbagliato evocare ancora l’allargamento, che di questa crisi è stata la principale causa (o meglio, l’allargamento con il sostanziale mantenimento delle vecchie regole già inadeguate con l’Europa a 12). Quindi sul piano dell’analisi politica della situazione, l’intervento è un po’ deludente.
2) Sul piano del rapporto tra Europa e chiese, mi sembra molto pertinente, e liberante per il futuro, la citazione «La religione che tramonta in non piccola misura aveva adattato la verità e la vitalità del Vangelo alle esigenze di un determinato ordine sociale». Quindi va bene la COMECE e la nunziatura presso l’UE (anche se sarebbe meglio se il nunzio si facesse testimone di uno stile più sobrio e “francescano”, almeno rispetto a quello di una decina di anni fa…), perché ci sono effettivamente tantissimi ambiti di intervento dell’UE che richiedono attenzione, ma la Chiesa del XXI secolo deve collocarsi lontano dal potere.
3) Infine, sul piano dell’analisi della società mi è sembrata pertinente la citazione di neoliberismo e libertarismo: sono due forze che hanno entrambe contribuito a demolire il vecchio assetto ideologico del continente, che vedeva la Chiesa come uno dei pilastri fondanti. Ma il liberismo è stato imposto dall’alto, come fase estrema dello sviluppo economico capitalista, mentre il libertarismo si è diffuso dal basso, egemonizzando progressivamente la cultura popolare in Europa, sia pur necessitando dell’economia di mercato, come una pianta tropicale che cresce sopra a un albero fino a quando dell’albero sottostante non si vede quasi più nulla.
Ma non sono più legati di quanto sembri liberismo e libertarismo? lo vediamo nelle esperienze politiche di Trump o Milei, ampiamenti rientranti nell’anarco capitalismo.
Forse l’unica a teorizzare questa sintesi è stata Ayn Rand. Destra e sinistra hanno cercato di governare l’ambito della libertà (destra in materia economica, sinistra in materia biopolitica) ma sono state fagocitate dalle stesse premesse che avevano posto..
Sicuramente legate. La società del consumo è posta in essere dall’economia di mercato e al tempo stesso è il terreno di coltura del libertarismo. Però quando dicevo che il NEOliberismo è imposto dall’alto, è perché è una forma ideologica di liberismo che dagli anni ’80 ha demolito progressivamente l’economia sociale di mercato che, grosso modo, nell’Europa occidentale (di più nel nord Europa, di meno da noi) aveva cercato di riconciliare l’efficienza economica del mercato con la protezione sociale in un modo, mi pare, abbastanza allineato alla dottrina sociale della Chiesa.
Economia sociale di mercato contro il “non esiste la società esistono solo gli individui”. E’ vero è stato imposto dall’alto, ma anche teorizzato dal basso. ad esempio Nozick contro Rawls.