
Per Aristotele, l’educazione è un modo per fare della virtù un’abitudine. E l’abitudine viene concepita come possibilità di cambiamento, più che di conservazione: se davvero voglio innovare, devo provare a trasformare il nuovo comportamento in prassi abituale. Tale concetto può tornare utile, ad esempio, in psicoterapia.
Si pensi alle tante forme di discontrollo degli impulsi, in senso lato: dagli agiti (gli acting out) autolesivi allo shopping compulsivo, reso assai più agevole da internet. Sempre più di frequente, infatti, ci troviamo al cospetto di persone – e di pazienti – che, invece di dar voce ai propri stati d’animo, li traducono immediatamente (senza mediazione verbale) in gesti, in atti. È un fenomeno di comune riscontro fra gli adolescenti, pur riguardando tutte le fasce di età.
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Come porci dinanzi a esso, da terapeuti? Una possibile strada consiste nel provare a creare le condizioni affinché il soggetto riesca pian piano a esprimersi: con le parole, certo, con i sogni, col gioco, con la creazione artistica e così via (in ciò si può scorgere l’eco dell’idea romantica e post-romantica dell’autoespressione, dell’espressione di sé).
Senza dimenticare che, come insegnano i tradizionali manuali di psicologia e di psichiatria, vi sono tre grandi sfere della nostra vita: quella affettiva, quella cognitiva, quella volitiva. Quest’ultima, in effetti, la dimensione della volontà, viene non di rado quasi ignorata. È possibile una sorta di educazione della volontà? Possiamo interpretare tale espressione, nello stesso tempo, come un “genitivo soggettivo” – la volontà può educare, orientare – e come un “genitivo oggettivo” – la volontà, la direzione delle nostre scelte e dei nostri comportamenti possono venir educate, orientate.
Dove, naturalmente, per “educazione” non si intende una sorta di “addestramento”, bensì una crescita consapevole del soggetto, attivamente coinvolto nella relazione terapeutica (e, ovviamente, nelle altre relazioni che caratterizzano la sua esistenza). Un’occasione, per lui, di muoversi verso ciò che davvero desidera, verso il proprio benessere (la “traduzione” in termini contemporanei, se vogliamo, dell’aristotelica “virtù”). Potremmo quasi dire che, in tal modo, gradualmente, il benessere psicologico può divenire un’abitudine.
Se, come abbiamo detto, all’essere umano possono essere attribuite tre dimensioni, che sono quella intellettiva, sensibile e volitiva, occorre sottolineare che tali facoltà dovrebbero operare in sinergia e in collaborazione.
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Per quanto riguarda la sfera affettiva o sensibile, essa riguarda il processo del sentire e dunque ha a che fare con le nostre emozioni, istinti, desideri e pulsioni. Una mancanza di regolazione in quest’area implica un disordine a livello emotivo e comportamentale, traducendosi in comportamenti impulsivi e dirompenti, determinati più dall’istinto e dell’emotività che dalla razionalità e dalla conoscenza vera.
Possono tali comportamenti essere considerati una libera espressione di sé? Sembrerebbero espressione immediata di qualcosa. Immediata e dunque libera? Dobbiamo rispondere di no. Infatti, gli agiti impulsivi, i comportamenti esplosivi e ogni azione istintiva rappresentano l’espressione della sfera sensibile dell’individuo e non possono certamente considerarsi espressione dell’essere umano nella sua interezza.
Ed ecco che torniamo a elogiare il prezioso contributo della volontà, che rappresenta, se vogliamo, l’ultimo e fondamentale tassello di questo processo, regolando gli impulsi emotivi e sensibili e orientando dunque le nostre azioni verso ciò che realmente è il nostro bene. Per poter fare ciò in maniera efficiente, la volontà necessiterà di un allenamento e dunque di essere educata. Giocano un ruolo determinante le virtù, delle quali già parlava Aristotele, o anche la più attuale regolazione emotiva.
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Anche all’interno del contesto della psicoterapia, nella relazione terapeutica, è possibile allenare la volontà. Come dicevamo prima, ad esempio, creando le condizioni affinché la persona possa esprimersi, ovvero garantendo un contesto di accoglienza e non di giudizio, favorendo la verbalizzazione dei vissuti anziché gli agiti comportamentali, promuovendo uno spazio di riflessione su di sé e sui propri comportamenti; spazio che da esterno diventa sempre più spazio interno, sviluppando autoconsapevolezza e metacognizione.
In questo processo (che potremmo definire non solo “terapeutico”, inteso come guarigione e cura di un sintomo o di un disturbo psicopatologico, ma anche processo “di crescita”, che porta allo sviluppo sano ed armonioso della persona) la figura del terapeuta rappresenta un elemento cardine. Egli, nella squisitezza della sua umanità, si pone dinanzi al paziente come modello di funzionamento ordinato, sapendo dunque orientare verso il bene e verso la crescita continua.
A conclusione di queste riflessioni terapeutiche, dopo avere sottolineato la preziosità della dimensione relazionale, vogliamo concludere sottolineando che ogni individuo, indipendentemente dalla sua storia, rimane padrone della sua vita e il cambiamento gli sarà sempre possibile, dipendendo quest’ultimo solo e unicamente dalla sua volontà.





