In difesa del passato

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Tra le grandi figure mitologiche che la Grecia ha trasmesso alla civiltà occidentale, è Menemosýne: Memoria: madre delle Muse che infondono la parola e il canto. Il canto (la poesia, il racconto, l’arte) è, quindi, figlio della memoria; nasce dalla a-lēthèia: da ciò che non è dimenticato; da ciò che il poeta, il narratore o l’artista custodiscono nella memoria: gli eventi della storia o della vita quotidiana, le gesta degli eroi o le immagini dei sogni, e ogni altra cosa degna di essere ricordata. Oggi, queste onniscienti divinità sono disprezzate da storici e istituzioni culturali, che dichiarano guerra al passato.

Una profonda, minuziosa analisi di tale guerra ci viene data ora dal sociologo Frank Furedi nel saggio La guerra contro il passato. Cancel culture e memoria storica [Fazi, Roma, 2025]. Un libro che denuncia le posizioni – assurde, arroganti, perentorie, a volte ridicole – degli ideologi del presente: di quanti, cioè, vorrebbero cancellare il passato perché responsabile – dicono – dei mali attuali, soprattutto riguardo alla politica identitaria, in nome della quale tutto mettono in discussione.

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La lotta per l’identità diviene così lotta politica – dice Furedi – e come tale usa ogni mezzo per affermarsi e trovare nella storia una convalida di comportamenti attuali. Spesso, però, questa convalida manca di una sensibilità culturale dei fatti storici; per cui, le tradizioni perdono di significato, venendo a mancare la fiducia nei loro confronti; il passato è un pericolo perché contagia le menti; la presenza di monumenti ad esso riferentisi causa danni psicologici, emotivi, violenza, dolore, ferite profonde. Perciò, è necessario cancellarlo e rincominciare da un anno zero.

Attribuire al passato le cause dei mali di oggi vuol dire non tener conto delle loro reali cause storiche; così che l’ideologia presentista appare più un rifiuto di esaminare la storia qual essa è stata, che una condanna del passato: demolisce ma non suggerisce una rinascita – dice Furedi; si accanisce contro il passato, ma rimane passiva verso il futuro. Non possiamo cancellare il passato abbattendo statue o bruciando libri. Volenti o nolenti, bello o brutto sia stato, esso è nella nostra memoria, anche in quella di chi gli si accanisce contro.

Per non dimenticarlo – scrivevo introducendo Conversazioni sulla Storia: con P. Bevilacqua, L. Villari e F. Ferrarotti [Armando, Roma 2023] – l’umanità conserva monumenti a ricordo di eventi storici: una colonna, un muro, una croce, una lapide, le macerie stesse; intitola ad essi vie e piazze; allestisce musei; li ricorda con date, cerimonie, convegni, libri, mostre e ogni altra organizzazione; la poesia e l’arte li rendono vivi nel tempo; ed essi ci parlano, ammonendoci a non ripetere errori ed atrocità, o almeno a non restare indifferenti quando si ripetono.

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La Storia ha partorito anche orribili barbarie, indubbiamente; ma sta a noi superarle senza dimenticarle. Uno studio serio, profondo, maturo di essa; una cultura ampia della realtà passata e presente, non causa nessun danno psicologico o emotivo. D’altronde, ogni giorno assistiamo – in totale indifferenza (che è la cosa peggiore) senza commuoverci né sdegnarci – a disumane tragedie. Possiamo anche demolire monumenti che ricordano dittatori, razzismi o altro – come hanno fatto in varie parti i presentisti; ma se non lottiamo culturalmente e praticamente contro ogni forma di dittatura o di razzismo attuale, a cosa serve? Dittature, razzismi, disprezzo per il diverso sono ancora intorno a noi.

La damnatio memoriae c’è sempre stata, è vero; ma colpiva individualmente – dice Furedi; mentre l’accanimento contro cose pubbliche denuncia piuttosto volontà vendicativa verso il passato. Un esempio «inquietante e irrazionale» di ciò è indicato da Furedi nel rogo di libri dai «contenuti datati», anch’essi monumenti contro cui si scaglia la «barbara violenza» distruttiva. «Quando il significato delle nostre vite viene messo in discussione le persone prendono coscienza – con dolore – di non avere le risorse morali e intellettuali per imprimere una direzione alla propria esistenza» (p. 73). Lo sfregio dei monumenti non impedisce una conoscenza scientifica dei fatti storici, né cancella la loro memoria.

Alla base deve esserci, allora, una memoria morale collettiva: difficile, ma non impossibile, e comunque necessaria. La voce che si alza dai segni di memoria – scrivevo in quelle Conversazioni (p. 11) – è voce sdegnosa e pietosa, più forte della voce umana. Il visitatore che attraversa i luoghi della barbarie, dovrebbe attraversarli con rispetto, e con la fede e la speranza in un capovolgimento di valori, che riconduca l’uomo nella sfera del sacro e dell’inviolabile.

Oggetto della memoria (collettiva e individuale) è il passato. Non dobbiamo aver paura di ricordarlo e raccontarlo. Ma oggi non abbiamo più il tempo di farlo. La società attuale è caratterizzata dalla velocità, dalla fretta, dalla simultaneità. È invasa da informazioni rapide e d’immediata utilità, che scambiamo per idee. Internet ha mutato il nostro modo di pensare e di apprendere, perché ci permette di conoscere tutto, ma di non sapere niente. L’uomo di oggi è l’uomo delle notizie, che «ha abolito in sé la forza visionaria dello spirito, l’immaginazione, la pura tensione speculativa, l’amore del gioco, la tenerezza delle parole» [P. Citati, L’armonia del mondo. Miti d’oggi; Rizzoli, Milano 1998, p.78].

L’emotività predomina sul ragionamento. L’abuso del computer porta a una progressiva cancellazione della memoria: un problema non solo individuale, ma anche di dimensione storica. Siamo talmente convinti che il cambiamento veloce della Storia renda irrilevante il passato, da essere quasi un dogma: qualcosa, cioè, da accettare e basta.

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Il presentismo è ormai una visione culturale: tutto è presente, solo esso conta e la sua utilità pratica e immediata. È una mentalità che, mentre dice di difendere le identità e le culture, le rifiuta perché teme il confronto, formando così, man mano, una «coscienza del distacco». Che pretesa è quella di giudicare avvenimenti, fatti, azioni, credenze, o di condannare persone vissute secoli e secoli fa con la cultura di oggi? Di fronte al passato dobbiamo porci criticamente come studiosi imparziali, non «inquisitori» tendenziosi. Quanto più efficace e moralmente giustificato sarebbe, invece, «impegnarsi ad affrontare i problemi che ci attendono» (p. 156).

Se tutto è schiacciato sul presente, l’antefatto è cancellato [F. Ferrarotti, Il pensiero involontario nella società irretita; Armando, Roma 2019, p. 36]. Immersi nel presente, lo viviamo ma non lo capiamo, perché ci manca la distanza storica, il confronto, le differenze, senza le quali non possiamo comprendere le trasformazioni economiche, sociali, politiche, culturali, religiose. Bisogna trovare, allora, il tempo per pensare e raccontare il passato: è necessario; urgente, anzi, se vogliamo davvero capire noi stessi e il nostro tempo [Conversazioni con la storia, p. 12].

Il passato – dice Furedi – non è solo un concetto «temporale»; «non si riduce semplicemente al dominio della temporalità». È «una dimensione permanente della coscienza umana» (Hobsbawm, citato a p. 32): coscienza che è una «conquista culturale» (p. 31). Da qui l’indispensabilità di stabilire il rapporto con esso. Il danno che si fa cancellandolo è storico e morale, perché volutamente si inculcano idee culturalmente infondate.

Ma – dicono i presentisti – il passato è diverso dal nostro tempo, ed è concluso; non serve più; e lo giudicano come se eventi e personaggi d’allora vivessero oggi, ritenendo che esso sia inferiore al presente. Errore grave di anacronismo e soprattutto di indifferenza storica, perché toglie ai fatti il contesto storico in cui si sono svolti, e perché sposta il contrasto presente-passato sul piano morale, sul discredito morale di persone e fatti – dice Furedi. L’ossessione anacronistica arriva a sostenere davvero delle assurdità in tutti i campi, come quella di decontestualizzare dalla storia l’olocausto per usarlo a proprio uso e consumo dovunque si voglia.

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Un aspetto importante della guerra al passato è quello del linguaggio, al quale Furedi dedica un intero capitolo. C’è una censura di parole, discredito del loro significato, politicizzazione del loro uso: quelle che disturbano o che sono datate vanno sostituite con altre nuove (e in questa sostituzione spesso si arriva al ridicolo), e si preme sul pubblico perché se ne faccia uso (p. 208).

Se una parola non viene più usata, ne dimentichiamo man mano il significato che aveva in società. È sempre avvenuto che il tempo cancelli parole significative d’una realtà che non c’è più (si pensi a tutto un vocabolario scomparso della civiltà contadina). Ma quella di adesso è una cancellazione ideologica, forzata, quasi imposta istituzionalmente. E poiché le parole sono segni d’una cultura, cancellarle o svuotarne il significato significa cancellare quella cultura o svuotare la storia non solo in senso sociale, ma anche spirituale, sentimentale, intimo delle persone; così che una parola comprensiva di realtà diverse, diviene generica, togliendo quella parte di valore privato nei rapporti interpersonali, che sono più importanti d’ogni difesa di inclusione.

La lingua «è uno sei segni più importanti di identità collettiva» [Peter Burke, L’arte della conversazione (1993); il Mulino, Bologna 1997; p. 65], fondamento della vita civile e collettiva, che non può esserci senza il rapporto con gli altri; rapporto che si ha quando c’è comunicazione tra persone, presenti o passate. La parola stabilisce un patto tra gli individui e ha un suo significato preciso, anche morale, che ha acquistato negli anni attraverso l’esperienza umana e sociale che esprime. Non si può cancellare questo processo. A mutare il linguaggio è il tempo che passa, non le persone arbitrariamente. Se le parole della civiltà contadina sono scomparse, lo sono naturalmente, perché quella realtà non c’è più; nessuno le ha cancellate.

Editori, biblioteche pubbliche e scolastiche, televisione sono diventati guardiani che modificano o censurano, ormai abitualmente, il linguaggio (perfino quello di opere classiche), lo studio e la ricerca; cioè, il pensiero. Il danno che fanno è proprio in ciò che vorrebbero salvare: la sensibilità. Difendendo, infatti, una sensibilità di genere, inclusiva, cancellano quella degli affetti – dice Furedi. Davvero i bambini rimangono sconvolti nel leggere certi fatti? I bambini, forse, nemmeno fanno caso a immagini o parole che si vogliono eliminare o modificare. Invece, «limitare [ad essi] l’accesso ai libri datati ha l’effetto di allontanare i giovani dalla cultura dei loro genitori e, di fatto, di sottrarli all’influenza emotiva e morale delle generazioni che li hanno preceduti» (p. 228). Si rimane sconcertati, leggendo questo libro, di fronte a casi veramente sbalorditivi, direi quasi impensabili, causati dall’ossessione presentista verso il passato.

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Nel passato sono le nostre radici: tagliandole rimaniamo sradicati. «Il passato è fondamentale per l’affermazione dell’identità. Il senso di continuità storica svolge un ruolo importante nella costituzione di sé. Capire da dove veniamo influenza e rafforza il senso di chi siamo» (p. 172).

Mettere in discussione il passato indebolisce la nostra identità. La storia è quella che gli uomini fanno. Solo dandole un senso possiamo avere con essa continuità culturale e trasmetterne i valori alle future generazioni. Educhiamo i giovani a conoscere non a cancellare il passato. «L’educazione è più efficace quando crea un ponte tra presente e passato» (p. 247). La scuola ne è l’ambiente privilegiato; lì i giovani si arricchiscono dell’eredità culturale loro propria; privandola loro, li priviamo della memoria storica della società. Non possiamo ricordare tutto il passato, certo; per cui occorre fare una scelta di fatti, la quale pone delle domande: chi deve farla? come farla? in base a quali criteri?  Ma questo non vuol dire ignorarlo.

Il passato dà senso alla vita – ricordavo in quelle Conversazioni – la riempie, diversamente da chi si affanna a riempire le ore del giorno. È quel senso di lunghezza che è completezza. Il passato non è morto: finché agisce in noi è vivo. Ma se viene a mancare il sentimento che ci lega ad esso, in qualunque modo tale sentimento si manifesta e ci coinvolge, allora vengono meno anche gli scopi del nostro futuro; e la vita si restringe a un presente senza respiro; e muore sul nascere.

Più conosciamo gli uomini del passato – le loro gesta e la loro vita quotidiana – meglio conosceremo gli uomini di oggi. La Storia non è solo evenementielle; è una realtà che coinvolge l’uomo nella sua totalità individuale e collettiva; essa non è mai nuova, non inizia mai da un anno zero, né procede linearmente nel senso del progresso. La storia procede «ciclicamente» – dice Polibio. Ma già Tucidide, esponendo i canoni della moderna storiografia, aveva scritto che presumibilmente, data la natura umana, in futuro le cose accadranno «uguali o simili». Gli fa eco E.H. Carr [Sei lezioni sulla storia; Einaudi, Torino 1966, p. 74]: passato e presente sono reciprocamente comprensibili: «Imparare dalla storia non è mai un processo unilaterale. Imparare a intendere il presente alla luce del passato significa anche imparare a intendere il passato alla luce del presente» [Conversazioni sulla storia, p. 12 ss].

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Non dobbiamo cancellare il passato; dobbiamo comprenderlo, studiarlo con serietà culturale e rigorosa ricerca storica, perché da esso impariamo ad avere una visione lungimirante della storia. E dobbiamo averne anche una visione equilibrata. Nell’attribuirgli tutto il male attuale, trascuriamo di considerarne le conquiste. Con gli errori della storia ci dobbiamo confrontare, capirli (che non vuol dire giustificarli) e assumercene la responsabilità nel significato proprio di respondere: rispondere a noi stessi e agli altri. La responsabilità ci fa capire dove e perché abbiamo sbagliato. Gli errori, in fondo, sono sempre positivi, perché ci insegnano a non ripeterli. Insieme alle conquiste sono l’esperienza dell’umanità.

Avviene così, d’altronde, anche nella vita individuale: le esperienze negative ci fanno capire chi siamo. Tutto concorre a formare l’esperienza di persone agenti. L’esperienza del passato ci mostra ciò che l’umanità ha realizzato. Senza di essa, non avremo nessuna idea del futuro. «Noi siamo ciò che siamo stati; o meglio, ciò che ricordiamo di essere stati» (Ferrarotti), nel bene e nel male. L’oblio della storia ci disunisce, perché cancella l’idea di societas. «Una società destoricizzata e sradicata dal passato si smarrisce in un deserto senza tempo […]. La perdita della memoria storica non è un problema da poco e affligge solo un numero ristretto di persone interessate al passato. La memoria storica ricorda alla società conoscenze ed esperienze inestimabili che non si possono creare dal nulla» (p. 286).

Come non si può cancellare l’infanzia o le età successive nella formazione dell’individuo, così non si può cancellare il passato nei processi storici. Questa è la storia: la capacità di riflettere criticamente sulle azioni compiute dall’uomo, grazie alla memoria che ha di esse. Questa memoria diviene coscienza del presente e conoscenza; su di essa l’uomo opera per il futuro: per costruirlo, non per prevenirlo. Conoscere deve indurci a non ripetere gli errori, a cancellare l’odio (ricordare non deve mai sfociare nell’odio), a inculcarci un reciproco comportamento morale, perché solo quando l’orrore di certi eventi accaduti riesce a scuotere le coscienze non li ripeteremo.

Dobbiamo sentire orrore, più incisivo del sentimento di compassione, o comunque l’accompagna, perché anche la compassione è un visceribus moveri, una com-mozione, una con-versione, un movimento del cuore di fronte agli orrori della storia. Conoscere deve indurci soprattutto a diventare saggi, a conoscerci come uomini, nei nostri limiti e nei nostri dubbi. Solo se possediamo una conoscenza della storia e una coscienza storica possiamo comprendere il presente, e avere una sensibilità verso le persone e i fatti, altrimenti valuteremo sempre superficialmente o erroneamente le une e gli altri [Conversazioni sulla storia, p. 14].

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Un commento

  1. Adelmo Li Cauzi 30 novembre 2025

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