Il Sudan in una crisi senza precedenti

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Dopo che, lo scorso 26 ottobre, le Rapid Support Forces (Rsf) hanno conquistato El Fasher dopo un assedio di 18 mesi e scatenando massacri e sfollamenti di massa, il Sudan è precipitato in una crisi senza precedenti. Il conflitto si estende ora al Kordofan, mentre il Paese è di fatto diviso in quattro aree di influenza militare. La popolazione civile, stremata e affamata, sopravvive a fatica anche grazie al lavoro di gruppi di auto-aiuto come il Central Darfur Health Media (CDHM). Pubblicato sul sito della rivista Confronti, 20 novembre 2025

Il Sudan viaggia verso una sorta di “libizzazione” a colpi di assedi e conquiste militari, corredati da stragi, massacri e sfollamenti biblici. L’ultimo grave episodio bellico, è la presa di El Fasher, capitale del Darfur settentrionale, ad opera delle Rsf (Rapid Support Forces) del generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti, avvenuta nell’ultima settimana di ottobre. Nel giro di pochi giorni, i ribelli che si contrappongono alle Forze armate sudanesi (Saf) guidate dal generale e capo di stato Abdel Fattah al Burhan, entrati nell’importante centro darfuriano dopo 18 mesi di durissimo assedio, hanno compiuto stragi e messo a ferro e fuoco una vasta area. Le fonti parlano di almeno 2000 morti uccisi tra il 26 ottobre e i primi giorni di novembre, di un ospedale preso d’assalto e devastato, compresi medici e pazienti e di terrore sparso in ogni angolo del territorio.

Le testimonianze dell’orrore

I primi a documentare la spaventosa entità della violenza, sono gli stessi uomini delle Rsf che hanno ripreso eccidi, stupri e brutalità di ogni tipo e fatto circolare i video in rete con relativi commenti a vanto delle “imprese”. Il resto della documentazione che evidenzia le stragi, violenze e fosse comuni, lo hanno fornito le immagini satellitari raccolte dal Laboratorio di ricerca umanitaria della Yale School of Public Health.

Il Sudan Doctors Network, organizzazione medico-infermieristica attiva nel soccorso della popolazione e nella produzione di informazioni dal campo, ha accusato le Rsf di aver “buttato” in discariche centinaia di cadaveri nel penoso tentativo di nascondere le prove delle uccisioni di massa dopo che anche lo stesso Dagalo aveva ammesso un “uso esagerato della forza” da parte dei suoi effettivi e annunciato commissioni di inchiesta sui massacri.

Nell’area attorno a El Fasher la popolazione è atterrita. Alcuni testimoni sopravvissuti ai primi massacri riferiscono che circa 50mila individui sono bloccati e restano isolati poiché le Rsf hanno sequestrato i dispositivi Starlink e molti telefoni cellulari. Chi riesce a forzare il blocco e scappare, parla di raid su vasta scala che proseguono fin dalla fine di ottobre. La piaga dei rapimenti a scopo estorsivo, con richieste di riscatto che arrivano fino a 1500 euro, una cifra impossibile per chiunque in Sudan, aggiunge sofferenza a sofferenza.

In poco più di due settimane circa 100mila individui hanno lasciato le proprie abitazioni riversandosi in massa verso luoghi appena più sicuri. Uno di questi è Tawila dove operano alcune organizzazioni di auto-aiuto «Tawila era uno dei centri più sicuri fino a qualche settimana fa – dice Taqwa Taha, uno dei responsabili di Ghaima, un’organizzazione sudanese avviata un anno fa per offrire soccorso alla popolazione civile. Ora, però, si è trasformata in una zona ad alto rischio, perché le Rsf sono alle porte e tutta l’area, sotto il controllo di Abdel Wahid Mohamed Nour, leader del Sudan Liberation Movement/Army [Slm/A, fazione al-Nour, opposta a entrambe le parti in guerra], è divenuta zona di conflitto. Inoltre, è molto vicina a El Fasher dove continuano bombardamenti aerei e scontri terrestri».

I livelli di malnutrizione nella zona hanno raggiunto i picchi più alti dall’inizio del conflitto: al 3 novembre, come denuncia Medici Senza Frontiere, il 70% delle persone giunte a Tawila risultava gravemente malnutrito.

L’avanzata verso il Kordofan

Vaste aree del Darfur sono ormai feudo delle Rsf che infatti ora dedicano le loro attenzioni al vicino Kordofan.

Il Sudan Tribune riporta di bombardamenti e attacchi con droni sulle posizioni delle Saf a Babanusa, nel Kordofan occidentale, da parte delle Rapid Support Forces, mentre varie fonti riferiscono di spostamenti verso sud di truppe di ribelli che, grazie anche al sostegno degli alleati del Sudan People’s Liberation Movement-North (Splm-N), provano a conquistare la città di Dilling, nel Kordofan meridionale. In questa città decine di persone sono rimaste uccise o ferite a seguito di bombardamenti ripetuti a opera di Rsf e Splm-N.

Ai civili non resta che fuggire. La meta preferita al momento è El Obeid, la capitale del Kordofan settentrionale: la direttrice della Commissione per gli Aiuti umanitari del Sudan ha dichiarato che solo nel periodo tra metà ottobre e metà novembre circa 175mila persone sarebbero scappate da tutta la Regione del Kordofan verso El Obeid.

Secondo fonti delle Nazioni Unite, inoltre, ci sarebbero evidenti segnali di un aumento delle ostilità nella Regione. «La situazione in Kordofan è molto preoccupante – riferisce a Confronti Omar Ahmed (nome di fantasia per motivi di sicurezza) del Central Darfur Health Media (Cdhm), un collettivo di giornalisti e attivisti – da una parte si registra l’avanzata delle Rsf in città come Babanusa e la conquista di varie località in alcune zone della Regione, dall’altra sappiamo di presidi assicurati al proprio controllo dalle Saf.

Questo significa che gli scontri si moltiplicheranno e che assisteremo a nuovi esodi.

Nel Kordofan, le Rsf controllano le città di An-Nuhud, Bara, Jebra Sheikh e Al-Mujlad, mentre El Obeid, Kadugli e Dilling sono ancora sotto il controllo delle Saf, ma vivono da tempo sotto assedio. Una serie di altri centri, inoltre, sono teatro di scontri che fanno passare il controllo di continuo da una fazione all’altra».

Il Sudan si fa in quattro

Sebbene siano al momento impensabili processi di separazione formali e pacifici di parti di territorio come è avvenuto nel 2011 quando la Regione meridionale del Sudan si è resa indipendente divenendo un nuovo Stato, il Sud Sudan, si può affermare con certezza che il Sudan sia de facto diviso in almeno quattro aree di influenza.

«Al momento – spiega Ali Salah (nome di fantasia) un dirigente di Cdhm –  si può dire che il Sudan sia suddiviso in quattro Regioni sotto diversi presidi militari. Le Forze armate sudanesi controllano tutto il Sudan orientale, settentrionale e centrale, nonché parti degli Stati del Nilo Azzurro, del Nilo Bianco e di Sennar. Le Rapid Support Forces gestiscono la maggior parte del Darfur e del Kordofan occidentale. Il Sudan People’s Liberation Movement-North (Splm-n), guidato da Abdelaziz al-Hilu (alleato di Rsf), controlla vaste aree del Kordofan meridionale e del Nilo Azzurro. Infine, il Sudan Liberation Movement/Army (Slm/A) di Abdel Wahid Mohamed Nour, ha sotto il suo potere la Regione di Jebel Marra e Tawila nel Darfur centrale. Sono Regioni vastissime, per farle un esempio, solo la zona controllata dall’Slm/A è grande quanto il Belgio».

Le frammentazioni del grande Paese africano, ovviamente, aumentano il livello di instabilità e allontanano la possibilità di raggiungere un accordo tra le parti in conflitto. Agli inizi di novembre, è stata avanzata la proposta di tregua umanitaria di tre mesi dal quartetto di Paesi denominato Quad (Stati Uniti, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto) a cui, dalla nuova posizione di forza susseguente alla presa di El Fasher, hanno subito risposto positivamente le Rsf. 

Dal canto loro, invece, le Saf hanno sdegnosamente rifiutato ogni accordo: «La proposta non è stata sostenuta da una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite né da alcuna organizzazione internazionale – ha tuonato il ministro degli Esteri sudanese Mohieddin Salem – pertanto, il governo non la prenderà in considerazione formalmente».

Alla ricusazione di qualsivoglia trattativa ha contribuito in modo particolare la presenza tra i proponenti degli Emirati Arabi Uniti (Eau) notoriamente dietro ai successi delle Rsf e fornitori di armi sofisticatissime alle truppe che combattono contro le Saf. Gli Emirati sono molto interessati alle miniere d’oro in Darfur sotto il controllo delle Rsf e di Dagalo da decenni e non lesinano risorse al fine di garantirsi i proventi.

«Esistono molti report che dicono esplicitamente che dietro alle Rsf ci siano gli Emirati – dice un giornalista contattato da Confronti che per motivi di sicurezza preferisce rimanere anonimo –  noi non abbiamo la certezza assoluta perché è difficilissimo ottenere informazioni a riguardo e indagare in alcune aree è diventato estremamente pericoloso. Di sicuro sappiamo che le forniture di armi arrivano da zone che sono alleate degli Emirati. Sappiamo ad esempio che all’aeroporto di Nyala atterrano fino a sette aerei al giorno provenienti da Ciad e Somaliland. Inoltre possiamo dire senza ombra di dubbio che le armi che utilizzano le Rsf sono molto costose e sofisticate decisamente fuori delle loro capacità».

Il coinvolgimento degli Emirati, una delle potenze maggiori di una vasta area che dall’Africa centrale arriva fino al Golfo, è determinante negli assetti del conflitto. Ma è complicato trovare forme di dialogo con Abu Dhabi visto che nega ogni forma di collaborazione con le Rsf e reclama per sé il solo ruolo di mediatore. 

Resistere sotto le bombe

Attori interni ed esterni giocano le loro tragiche partite da ormai oltre 30 mesi e a farne le spese maggiori, neanche a dirlo, è la popolazione civile. Il bilancio è drammatico: centinaia di migliaia di vittime, circa 15 milioni di profughi, 4 milioni dei quali, esondati nei Paesi limitrofi gravati a loro volta da problematiche enormi [tra tutti spiccano il Sud Sudan e il Ciad che ne accolgono 1,2 milioni a testa]. Tantissimi individui di ogni età, sopravvissuti ai bombardamenti o alla fame, restano traumatizzati e nel complesso un’intera popolazione, in ogni angolo del Paese, è ormai allo stremo. Se resiste è anche grazie all’incredibile lavoro svolto volontariamente da tanti gruppi di auto-aiuto.

Nel Darfur centrale uno dei più attivi è il CDHM. «Il Central Darfur Health Media è una piattaforma giornalistica di servizio pubblico dedicata alla salute, creata in risposta al collasso dei media tradizionali e alla grave carenza di informazioni sanitarie accessibili e affidabili durante l’attuale conflitto in Sudan.

I nostri principali obiettivi sono fornire contenuti sanitari in lingua fur e araba per raggiungere le comunità emarginate e remote, utilizzare il giornalismo delle soluzioni, il giornalismo mobile e il giornalismo di pace per fornire reportage sanitari verificati e contestualizzati e contrastare le informazioni sanitarie false e fuorvianti, che si diffondono sui social media a causa del collasso delle reti di telecomunicazione. Facciamo l’impossibile per aggiungere le comunità attraverso canali digitali come TikTokFacebookYouTube, e creiamo gruppi WhatsApp per fornire messaggi sanitari continui».

Si occupano inoltre direttamente di bambini sopravvissuti alle violenze causate dalla guerra e traumatizzati. Organizzano, in collaborazione con i centri educativi locali, piccoli eventi della durata di alcuni giorni per offrire loro spazi sicuri dove giocare, disegnare e ascoltare racconti popolari.

«Uno dei nostri progetti principali, inoltre, è fornire contenuti di supporto psicologico nella lingua locale e redigere rapporti periodici sulla situazione sanitaria che poi cerchiamo di inviare alle organizzazioni e agli attori del settore sanitario tramite e-mail e la piattaforma Substack».

Per sostenere il lavoro fondamentale del Central Darfur Health Media nella tutela delle comunità più vulnerabili, è possibile scrivere all’indirizzo cdhealthmedia@gmail.com.

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