
La visita di Papa Leone XIV in Turchia, oltre a essere il primo viaggio del nuovo pontefice all’estero, sarà ricordata per la preghiera ecumenica tenuta nell’antica città di Nicea (l’odierna Iznik), in occasione del 1700º anniversario del Primo Concilio Ecumenico, e per gli incontri di carattere formale e liturgico con il Patriarca Ecumenico Bartolomeo a Fanar, culminati con la firma di una «Dichiarazione congiunta» (cf. qui su SettimanaNews).
Qualcuno ha già parlato di questi eventi come «storici». Lo stesso Papa ha detto di aver avvertito la profondità della preghiera a Nicea e di essere stato toccato dall’esperienza della divina liturgia celebrata nella Chiesa di San Giorgio, cattedrale della Chiesa di Costantinopoli. Senza dubbio gli eventi di questi giorni saranno raccontati nei libri di storia. Anche se sarà solo il futuro a svelarne l’effettivo impatto, non vi sono dubbi sul grande valore simbolico dei gesti di amicizia che, ormai da decenni, caratterizzano i rapporti tra Roma e Costantinopoli.
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La visita di Papa Leone si inserisce nella cornice di quel «dialogo della carità» avviato negli anni Sessanta da Papa Paolo VI e dal Patriarca Atenagora e continuato dai loro successori. Un rapporto dialogico che non si attua più sul registro della polemica e della denuncia degli errori altrui, bensì su quello della riconciliazione, del perdono e del riscoprirsi chiese sorelle. In fondo, l’amore è un’autentica opera teologale, poiché Dio stesso è amore.
Lo spirito di amore ha creato un contesto psicologico che ha permesso anche ai dibattiti teologici di articolarsi in modo positivo. Allo stesso modo, ha aiutato a tradurre la carità in un vivere insieme e in una testimonianza congiunta del vangelo. Carità, teologia e vita sono stati i pilastri dell’ecumenismo ortodosso-cattolico.
In questa cornice il dialogo teologico internazionale, avviato negli anni Ottanta, ha potuto produrre documenti di ampio respiro in cui sono emerse molte convergenze su temi ecclesiologici delicati, alcuni dei quali – come la successione apostolica, l’Uniatismo, la sinodalità e il primato – parevano addirittura impossibili da affrontare. Oggi la teologia incentrata sulla polemica, quella che Atenagora voleva mandare in esilio su un’isola, di fatto non esiste più e le Chiese interpretano molte delle loro differenze non più come aspetti inconciliabili, dando priorità a ciò che le unisce e non a ciò che le divide.
Attualmente, il dialogo teologico internazionale è impegnato ad approfondire i temi dell’infallibilità e del filioque, ovvero la dottrina della processione dello Spirito Santo. A Iznik, il Credo recitato è stato quello niceno senza il filioque e a molti, nel Cattolicesimo e nell’Ortodossia, la scelta è parsa la fine definitiva della storica controversia.
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Va però detto che la lettera papale In Unitate Fidei, pubblicata subito prima del viaggio di Papa Leone (cf. qui su SettimanaNews), aveva preso le distanze sia da «un ecumenismo di ritorno allo stato precedente le divisioni» sia dal «riconoscimento reciproco dell’attuale status quo della diversità delle Chiese e delle Comunità ecclesiali». Leone scriveva, mantenendosi forse volutamente un po’ vago, di «un ecumenismo rivolto al futuro… di scambio dei nostri doni e patrimoni spirituali».
Sappiamo che, per quanto importante, non sarà la teologia da sola a realizzare l’unità. È necessario che il popolo della Chiesa riceva i risultati positivi dei dialoghi teologici e li integri nel proprio vivere. La teologia è certamente capace di risolvere nodi teorici e di rileggere e superare vecchie diatribe, ma non ha il potere di imporre l’unità, poiché tale compito spetta alle autorità ecclesiali. Si ritorna quindi al valore dei gesti simbolici, che hanno un impatto più diretto sull’animo dei popoli e possono determinare nuovi atteggiamenti e stabilire percorsi comuni.
In questo senso, alcuni aspetti degli ultimi giorni meritano menzione. Anzitutto, all’incontro di preghiera a Iznik, oltre alla delegazione papale, hanno partecipato i primati o i rappresentanti degli antichi Patriarcati Ortodossi, delle Chiese Orientali, della Chiesa Assira, di tutte le Chiese occidentali e di alcune organizzazioni ecumeniche.
Si potrebbe dire, senza esagerazione, che il Credo niceno si è servito di un’anticipazione profetica dell’unione di tutto il mondo cristiano nella medesima fede. Si spera dunque che la fede nicena, rievocata in un contesto liturgico e di preghiera, renda ancora più evidente la necessità dello stare insieme e lo scandalo del rimanere divisi.
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Non si possono però non notare le assenze di alcuni primati e di alcune Chiese Ortodosse, come i Patriarchi di Antiochia e di Gerusalemme (che hanno declinato l’invito del Patriarca Ecumenico, mandando dei rappresentanti) e delle altre Chiese Ortodosse patriarcali e autocefale (non convocate).
E mentre si può rimproverare l’assenza dei due Patriarchi (qualunque fossero le loro ragioni), si fatica a comprendere i criteri della scelta di limitare l’invito alla preghiera di Nicea ai soli Patriarcati dell’antica pentarchia, escludendo tutte le altre chiese ortodosse erette nel secondo millennio. Scelta che, oltre a essere anacronistica, rivela come le lacerazioni interne all’Ortodossia tendono a consolidarsi e a compromettere il dialogo teologico con la Chiesa cattolica.
Consapevole di ciò, nel suo discorso al termine della divina liturgia a Fanar, Papa Leone ha chiesto al Patriarca Ecumenico di «compiere ogni sforzo affinché tutte le Chiese ortodosse autocefale tornino a partecipare attivamente a tale impegno». La speranza è che tutte le Chiese Ortodosse possano tornare al dialogo teologico internazionale, anche se nel frattempo, in buona parte dell’Ortodossia, sono maturate posizioni ecclesiologiche che contraddicono la convergenza con il Cattolicesimo raggiunta a fatica negli ultimi sessant’anni.
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La «Dichiarazione congiunta» (cf. qui su SettimanaNews) è consapevole del progresso teologico compiuto e sembra tener conto dell’esigenza di trasmetterlo alla base ecclesiale. Il Papa e il Patriarca esortano «quanti sono ancora titubanti verso qualsiasi forma di dialogo, ad ascoltare ciò che lo Spirito dice alle Chiese, spingendoci, nelle attuali circostanze della storia, a presentare al mondo una rinnovata testimonianza di pace, riconciliazione e unità» ed esortano «vivamente tutti i fedeli delle nostre Chiese, e in particolare il clero e i teologi, ad accogliere con gioia i frutti finora conseguiti e a impegnarsi per il loro continuo incremento».
Colpisce, anzitutto, l’uso del verbo «esortare». Non sembra trattarsi solo di una scelta stilistica né ha lo scopo di fornire suggerimenti e consigli. Si tratta di una richiesta ai fedeli di attivarsi e oltrepassare resistenze mentali, sconfiggere sentimenti di paura e di sospetto, sostenere il dialogo già esistente e ascoltare la voce dello Spirito Santo che chiama tutti all’unità e non alla dispersione.
La Dichiarazione inserisce così i rapporti tra le due Chiese in un quadro di azione più ampio. «Oltre al ruolo insostituibile che il dialogo teologico svolge nel processo di riavvicinamento tra le nostre Chiese, raccomandiamo anche gli altri elementi necessari a questo processo, tra cui i contatti fraterni, la preghiera e il lavoro congiunto in tutti quei settori in cui la cooperazione è già possibile».
Il Papa e il Patriarca si sono detti «consapevoli che l’unità dei cristiani non è semplicemente risultato di sforzi umani, ma un dono che viene dall’alto». Pregare insieme è al cuore dell’ecumenismo e implica il riconoscimento dei doni spirituali propri di ogni Chiesa.
Si tratta, in altre parole, di recepire la trasversalità dei doni della fede presenti nelle altre chiese (come la santità e il martirio) e di chiedere il sostegno di Dio riconoscendo i limiti di ogni tradizione cristiana nell’attuare i precetti evangelici. Una Chiesa, infatti, che rinuncia alla preghiera è una Chiesa che non ha bisogno che Dio agisca in essa. La preghiera comune aiuta a cogliere come le tradizioni confessionali non siano fortezze da difendere, ma tesori spirituali da condividere.
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Al termine della celebrazione eucaristica, dal balcone del palazzo patriarcale, il Papa e il Patriarca hanno impartito la loro benedizione all’assemblea e, virtualmente, ai loro fedeli in tutto il mondo.
Dal punto di vista teologico, si tratta del riconoscimento de facto della apostolicità della Chiesa di Roma e della fratellanza episcopale tra i due Capi. Se per l’agire del Patriarcato Ecumenico tale riconoscimento non è mai stato un problema, continua invece a esserlo in alcune frange anti-ecumeniche che, per quanto minoritarie, sono molto presenti nell’episcopato, nel clero e nel mondo monastico ortodosso. Anche in questo caso la sfida è comunicare ai fedeli la fratellanza esistente tra le due Chiese in modo convincente, forse stimolando maggiormente l’ecumenismo locale, tuttora poco praticato nell’Ortodossia.
La Dichiarazione non manca ad accennare le guerre in corso, ricordando che «l’obiettivo dell’unità dei cristiani include il fine di contribuire in modo fondamentale e vivificante alla pace tra tutti i popoli», facendo un appello «a coloro che hanno responsabilità civili e politiche affinché facciano tutto il possibile per garantire che la tragedia della guerra cessi immediatamente, e chiediamo a tutte le persone di buona volontà di sostenere la nostra supplica».
Legare l’unità cristiana alla pace significa appellarsi anche a quelle Chiese che, negli ultimi anni, si sono coinvolte in retoriche bellicose mediante le quali hanno danneggiato l’immagine del cristianesimo e ferito l’unità della Chiesa Ortodossa. Si spera che le strategie per ricondurre queste Chiese alla logica della pace siano diverse da quelle adottate finora, che si sono rivelate poco efficaci (si veda il tentativo di mediazione umanitaria della Santa Sede tra Russia e Ucraina) e poco inclusive (come l’assenza, da parte del Patriarcato Ecumenico, di un piano d’azione per porre fine alle molte lacerazioni nel mondo ortodosso).
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Ultima nota: dopo la firma della Dichiarazione, il Patriarca ha donato al Papa una raffinata stola recante, in greco e in latino, il passo di Efesini 4,15: «agendo secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a lui, che è il capo, Cristo». Il Papa ha indossato la stola durante la liturgia bizantina.
È stato un ulteriore segno dell’apostolato comune di Roma e Costantinopoli e indice dell’essenza del ministero esercitato, in diversi modi, dal Papa e dal Patriarca. Il passo paolino ci dice che il «primo» è colui che si mette a servizio di tutti, agisce nella carità non per affermare la «verità» di privilegi giuridici, ma, perché Cristo, la vera pietra della fede, esige il martirio come via per partecipare alla Sua risurrezione.
La morte (il «far morire» antichi privilegi, equilibri diplomatici, compromessi con i poteri secolari), per quanto dolorosa, è il prezzo indispensabile da pagare per sollecitare la convergenza al vangelo della vita e dell’unità. Sono le nostre chiese disposte a farlo?





