
La sintesi dei lavori della Commissione di studio sul Diaconato femminile è stata pubblicata in data odierna (4 dicembre 2025) sul Bollettino della sala stampa della Santa Sede, anche se porta la data del 18 settembre scorso. A parte l’incomprensibile ritardo, viene spontanea la domanda: perché pubblicare una lettera a firma del Cardinal Petrocchi e di Mons. Dupont-Fauville indirizzata al vescovo di Roma se non per suscitare un dibattito? In caso contrario non sarebbe stato meglio attendere la ricezione da parte di Leone XIV del contenuto della missiva con le annesse considerazioni orientative circa il diniego del diaconato a persone di sesso femminile?
In ogni caso, poiché abbiamo a disposizione un documento, che mi sembra importante, se non decisivo per la questione, sarà lecito prenderne atto e approfondirlo, discutendolo. E ciò perché, come dicono gli stessi estensori, non siamo di fronte a un testo definitivo. E ciò, come ammoniva Benedetto XVI, nell’orizzonte teologico-speculativo (lui diceva «dottrinale»), piuttosto che storico-positivo. Ed è a questo livello che vorrei si innescasse il dibattito di approfondimento. Lo status quaestionis qui descritto risulterà particolarmente utile come base di discussione nella contrapposizione fra le due scuole teologiche di cui la lettera opportunamente espone le opzioni e le motivazioni.
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La prima generale osservazione teologica, che mi viene in mente, non solo alla luce del senno di poi e delle risultanze qui esposte, riguarda il senso della domanda, che mi è sembrata fin dall’inizio mal posta (e il documento lo conferma). Non si tratta infatti della possibilità o meno delle donne di accedere al diaconato, bensì dell’apertura del sacramento dell’ordine a persone che non siano di sesso maschile. Risulterebbe, infatti, dato lo stato attuale della dottrina sacramentale, molto difficile la distinzione fra il diaconato come sacramento oppure inteso come uno dei possibili ministeri, di cui la lettera auspica l’ampliamento. Non credo che il popolo di Dio sarebbe in grado di comprendere una distinzione così sottile ed accademica. Di tutto abbiamo bisogno tranne che di confusione in materia di fede.
Ed eccoci al punto cruciale: si tratta della «sacramentalità» e del suo esprimersi nei sette segni, fra cui quello dell’ordine. I sacramenti, infatti, si innestano nella sacramentalità di Cristo e della Chiesa, fondata sull’alterità sponsale dei due partner. Questo è l’orizzonte di senso sia del sacramento dell’ordine che di quello del matrimonio. La reiterazione dell’espressione «mascolinità di Gesù Cristo» e «mascolinità» delle persone ordinate (a supporto della tesi contraria al diaconato femminile) fa inorridire ed è del tutto fuori luogo. Non si tratta di questo, bensì del rapporto sponsale di Cristo con la Chiesa, che trova espressione nei due sacramenti citati.
È in gioco l’alterità maschile/femminile che si innesta, anche se non riduttivamente, sulla sfera biologica, in quanto ha a che fare con la fisicità e la corporeità, necessariamente. A meno che – e su questo bisogna discutere a fondo – non si intenda ritenere tale alterità riferita semplicemente alle persone, ma in questo caso si escluderebbe la fisicità, propria dei sacramenti e del nostro stesso essere persone (soggetti incarnati).
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Ci si chiede allora: la Chiesa cattolico-romana sarebbe disponibile e pronta a rivedere radicalmente il proprio orizzonte sacramentale, ritenendolo, allo stato attuale, mero prodotto storico e culturale e non, come a me sembra, contenuto nella Rivelazione stessa? Né dobbiamo lasciarci fuorviare dal fatto che la cultura diffusa in Occidente oggi tenda a rifiutare l’alterità, in qualsiasi forma si proponga e penso non solo al maschile e al femminile, bensì anche ad esempio alle alterità migranti e neppure dal fatto che la scelta che la Commissione propone avvicini la Chiesa Cattolico-romana più a quelle Orientali-ortodosse che a quelle Evangeliche-riformate e all’Anglicanesimo (vedi polemiche sulla nomina dell’attuale arcivescova di Canterbury).
Per tornare alla domanda iniziale, essa trova il suo habitat più nel contesto sociologico che non in quello propriamente teologico. Nel secondo caso hanno ragione quanti ritengono che la questione sia più radicale: il sacramento dell’ordine (nei suoi tre gradi) va amministrato alle donne? E non mi pare vi sia alcuna discriminazione nella risposta negativa a tale quesito, perché, senza scomodare il principio petrino e mariano, il dato riflesso e tramandato non toglie nulla al femminile, ma sottrae la Chiesa alla dialettica contrappositiva, che tanti danni provoca alla società in cui siamo chiamati a vivere.
Piuttosto sarebbe da discutere e rivedere, come il processo avviato da papa Francesco sta facendo, il nesso fra sacramento dell’ordine e potestà ecclesiale ai diversi livelli dalla curia romana alle strutture di parrocchie, movimenti e associazioni, passando per le diocesi. La direzione imboccata penso non possa ammettere ripensamenti, bensì costituisca un necessario punto di non ritorno.






Ma San Giovanni Paolo II non si era gia’ espresso definitivamente contro le donne diacono ? Ma allora il Magistero dei papi e persino dei papi santi , non e’ veritiero ? La Chiesa cattolica puo’ andare avanti cosi’ senza un Magistero che non sia contraddetto e ribaltato in pochi anni ,? Questo vorrebbe dire che e’ una realta’ solo umana che dice e si contraddice .Ma chi ci crederebbe piu’ ?
L’intervento cui si riferisce si chiama Ordinatio sacerdotalis, e riguarda perciò solo preti e vescovi, non i diaconi. Certo, si tratta di magistero infallibile (come per due volte ha chiarito la Congregazione per la Dottrina della Fede), ma non concerne direttamente il tema attuale
No, non si tratta affatto di magistero infallibile, ma di un “nuovo” tipo di magistero che ha cominciato ad avanzare a partire dagli inizi degli anni Settanta (pontificato di Paolo VI) e che infine è stato canonizzato dal motu proprio “Ad tuendam fidem” di Giovanni Paolo II (1998). Questo magistero, pietra d’inciampo per il dibattito teologico (cf il dibattito di storici e teologi sul numero monografico di “Cristianesimo nella storia” 21/2000), non ha un titolo specifico ma, come sostiene il canone 750 §2 (ovviamente questo comma non esisteva nel Codice del 1983) si occupa del cosiddetto “oggetto secondario del magistero”, vale a dire di tutte quelle dottrine attinenti al campo dogmatico o morale, ritenute necessarie per custodire ed esporre fedelmente il deposito della fede, sebbene, a differenza del magistero infallibile (cf 750 §1), non siano state proposte dal magistero della Chiesa come “formalmente rivelate”.
Ecco il link. Grazie per l’attenzione: https://www.cittadellaeditrice.com/munera/a-volte-ritornano-a-proposito-della-lettera-del-presidente-della-ii-commissione-sul-diaconato-e-le-donne-di-linda-pocher/
Ho letto l’articolo e mi viene da fare questa scarna riflessione.
Peccato che Foucault non abbia potuto seguire il nostro dibattito, avrebbe scoperto che l’obiettivo di ottenere una ripetizione mascherata (di un testo, di un uso, di una credenza) non è assolta solo dal “commento”. Certo, il commento è una procedura diretta che adempie per l’appunto al compito di dire qualcosa di diverso a condizione di ripetere il medesimo ESITO.
Caro Foucault, in realtà esiste un’altra pratica discorsiva a cui la teologia cattolica è molto legata e che è in grado di raggiungere il medesimo obiettivo della monotonia del commento: la “distonia” del commento (mascolinità, sponsalità, metafora battesimale, sacramentalità etc.).
Totalmente d’accordo con la Prof.ssa Linda Pocher. Inoltre mi piacerebbe sapere: quante donne hanno fatto parte delle varie Commissioni che hanno portato al documento di cui sopra? E quanti uomini?
Metà e metà, come voluto da Francesco
Non mi sembra che il tema sia riducibile solo a una questione di potere maschile come mi sembra fare don Pino. Copio qui sotto un passaggio di quanto scrive suor Linda Pocher e Andrea Grillo pubblica. Premetto che queste frasi di suor Linda sono illuminanti e tutti noi maschi (preti, non preti, laici, uomini di qualsiasi ordine e grado) dobbiamo scolpirle e meditarci su. Ecco qui sul testo sul diaconato femminile: “(…) Ciò che più di tutto stupisce, e ferisce, è l’incapacità d’ascolto. Da anni molte donne – teologhe, consacrate, laiche impegnate, formatrici – dicono con chiarezza: «Questo modo di parlare di noi non ci rispecchia. Ci ferisce. Non descrive la nostra esperienza di fede né la nostra soggettività ecclesiale» In una relazione sana, equilibrata, non tossica, quando uno dei partner dice all’altro: «Questo tuo modo di parlare mi fa male», l’altro ascolta. Non perché abbia torto o debba rinnegare tutto, ma perché ama abbastanza da cercare altri modi, altri linguaggi, altre vie per incontrare davvero l’altro. Nelle relazioni tossiche, invece, il messaggio viene ignorato. Si risponde che l’altro non capisce, che è ipersensibile, che le categorie sono quelle e non se ne può fare a meno. Si usa la posizione di forza per mantenere invariato ciò che non si vuole mettere in discussione. Quando accade anche nella Chiesa, è un segnale preoccupante: significa che l’asimmetria di potere viene mantenuta e giustificata teologicamente, anziché essere convertita in uno spazio di comunione reale”.
Fabrizio,
le chiedo cortesemente la fonte della citazione di sr Linda Pocher. Esplicito che non è per diffidenza ma per interesse, ritengo molto interessante quanto riportato e vorrei approfondire.
grazie
https://www.cittadellaeditrice.com/munera/a-volte-ritornano-a-proposito-della-lettera-del-presidente-della-ii-commissione-sul-diaconato-e-le-donne-di-linda-pocher/