Linguaggio, violenza, Chiesa

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rob-linguaggio

Qualche giorno fa, insieme a un numeroso gruppo di altri teologi e teologhe (ormai più di cinquecento), ho firmato un appello a favore di una collega (qui), bersaglio di un attacco su un sito online che tutti abbiamo trovato ingiustificato, offensivo e personale, ben oltre i toni del confronto accademico.

Non conosco personalmente questa collega, ma ne ho apprezzato spesso il lavoro perché è lucido e dà a pensare, esattamente come dovrebbe una teologia; se anche non l’avessi apprezzato, tuttavia, avrei firmato ugualmente, perché pensare bene è un diritto.

Come siamo arrivati fin qui

Mobilitarsi non è mai, per me, un’operazione priva di sofferenza, perché contiene – in ogni caso – una certa dose di violenza, sebbene difensiva. Al testo che abbiamo sottoscritto è seguita una reazione di una brutalità inusuale contro uno dei primi firmatari, con tanto di character assassination e con l’esplicita proposta di farlo fuori accademicamente.

Prima di qualunque ulteriore risposta, la domanda di fondo è questa: come siamo arrivati fin qui? Come è accaduto che un ambiente accademico, di studio e di riflessione sia arrivato alla militarizzazione del discorso?

Tra l’altro, di un discorso di nicchia, le cui oscillazioni interessano tutto sommato pochi, per di più articolato in un ambiente fatto di studiosi e studiose che, almeno in Italia, vengono pagati meno di un operatore di call-center (la pubblicazione del compenso lordo del suddetto teologo, oltremodo scorretta, più che fare gridare allo scandalo, fa cadere le braccia).

La teologia è una disciplina la cui vicenda millenaria ci impedisce di fantasticare di tempi in cui i teologi furono d’accordo, in armonia dottrinale e ideale: essa – come ogni altra disciplina – non è mai stata un tranquillo laghetto di montagna, ma sempre un mare in burrasca.

Da quando il dissenso del pensiero è diventato un’onta? Se la teologia cristiana ha attraversato la storia, non è perché ne aveva la chiave, ma perché ha sempre saputo interrogarla: da quando persino le domande sono un affronto alla verità di Dio?

La mia domanda è sincera perché, in questa vicenda, la vera questione non è il tema di cui si parla – l’accesso delle donne al diaconato – che ha tutt’altra importanza. Non c’entra nulla neppure l’atavica tensione tra il magistero e la libertà di pensiero. A questa tensione, che nella storia ha assunto forme differenti, il teologo è abituato: egli sa bene che il riferimento all’insegnamento della Chiesa e alla sua tradizione non è un incidente di percorso, ma parte integrante dell’epistemologia della teologia cattolica.

In questa tensione si generano da secoli pensieri nuovi: grazie alla resistenza e ai limiti che vengono posti alla sua ricerca, la teologia impara ad avere a che fare con la storia, con i suoi drammi, con la vita reale. Il teologo sa anche che, al netto di ricorrenti (e odiosi) incidenti di percorso, l’istituzione ha anche una capacità di ascolto del suo lavoro e delle sue istanze, tanto più efficace quanto più egli sa esibire la propria appartenenza alla comunità di coloro che si sono messi alla scuola del Vangelo.

Il dogma irrilevante

L’incidente in questione, invece, configura uno scenario nuovo – a cui temo che dovremo abituarci – nel quale i dogmi e le questioni teologiche sono del tutto secondari. Uno scenario nel quale la stessa istituzione ecclesiastica – criticata aspramente quando conviene – è forzata a secondi fini, viene convocata in una diatriba che essa probabilmente fatica riconoscere come sua e riguardo la quale, in ogni caso, non ha avuto alcuna intenzione di usare l’artiglieria pesante.

Chiunque è seriamente interessato alla storia del magistero cattolico non può non riconoscere in questo un orientamento, non una svista. Allora, che mondo è (perché di un mondo ormai si tratta, non di singoli autori o siti web) quello che produce attacchi violenti, avanza richieste di censura e vuole trasformare la teologia in un campo di battaglia?

Se appena guardassimo fuori dal nostro cortile rassicurante – diventato improvvisamente inospitale – ci accorgeremmo che questo scenario è comune a tanti altri vicini di casa. Molte discipline sono oggi preda di meccanismi simili: posizioni anti-scientifiche, complottismi, accuse personali che hanno generato scomuniche incrociate, dispiegamento di armi e arruolamento di masse.

«We need you» hanno risposto climatologi e virologi, economisti e medici, ingegneri e informatici. «We need you», ha gridato ancora più forte il mondo dei complotti. Quale realtà può spingere alla conflittualità luoghi che un tempo sapevano gestire l’alterco, generando un esercito di uomini e donne in una lotta senza quartiere nei confronti di questioni e temi così diversi da essere, talvolta, persino opposti, mettendo in crisi pensatori abituati, di professione, al confronto serrato?

Ernesto Laclau ha descritto così il fenomeno: l’aggregazione improbabile di insoddisfazioni e di domande che «non condividono nessun contenuto positivo, se non quello di restare tutte insoddisfatte»[1]. Lo ha chiamato ragione populista. Se non ci aspettavamo di vederlo tra i corridoi austeri delle facoltà di teologia è solo perché, come ha giustamente sottolineato Marcello Neri (qui), ci illudiamo di abitare luoghi chiusi e autoreferenziali. Ma la verità è che dall’epoca non si sfugge mai, nemmeno a volerlo.

La domanda successiva, ossia come possiamo uscirne, non ha ancora una risposta; ma ne usciremo: l’intelligenza e l’ingiunzione nei confronti della verità degli umani hanno affrontato ben altri nemici. Possiamo però almeno abbozzare qualche suggerimento pratico.

roberto-linguaggio

La ragione populista

Il primo è che reclutare eserciti non è la migliore strategia: questo genere di lotta semplifica le ragioni e si rischia di immolare a essa qualunque tema. Ho firmato volentieri la lettera scritta in difesa di Linda e sono felice che lo abbiano fatto così tanti altri colleghi e colleghe, ma si tratta di operazioni di emergenza eccezionali, non di un metodo.

Il secondo è che, purtroppo, il confronto teorico sui temi è del tutto irrilevante: cercare gli argomenti più forti non serve a nulla. I luoghi per pensare al diaconato di donne e uomini, o a qualsiasi altra cosa, non sono questi. Laclau ha intuito bene che le ragioni della ragione populista non cedono mai al pensiero: siccome «non esiste situazione umana in cui non ci sia qualcosa di ingiusto» essa, per creare consenso, pronuncia il termine giustizia in modo non tanto «astratto», ma precisamente «vuoto»[2]. Risolta una questione (se mai riuscissimo a farlo) ce ne sarebbe immediatamente un’altra.

Il terzo è lo schieramento fa solamente il gioco della ragione populista. Il populismo non è un’idea, non corrisponde con un partito, con un gruppo, con un esercito: diventa la tentazione comune di aggregare a partire dal risentimento. Per questo finisce per diffondersi rapidamente in tutti gli schieramenti. Il senso dell’ingiustizia subita è un sentimento universale, ciascuno di noi ha motivi per recriminare. Ma ciò che si deve negare è precisamente che questo risentimento sia una buona ragione per costruire un popolo o una comunità.

La pazienza della comunione

L’unica risposta all’altezza di questo spiacevole incidente (che, temo, non sarà l’ultimo e che forse è più serio di quel che sembra) è una paziente costruzione della comunione, ossia di alleanze fondate non sul vuoto, ma su un pieno di pensieri, incontri, dialoghi e alterchi generativi.

L’unica risposta all’altezza della sfida, insomma, è la Chiesa: quel luogo in cui la comunione si custodisce a tutti i costi nell’intreccio complesso di idee diverse e di carismi differenti (la profezia e l’istituzione, per esempio); forse è il momento di riscoprirne che autorità differenti (come la teologia e il magistero) si fondano l’una sull’altra.

Forse è il momento di ripetere quanto necessari siano, per custodire l’istituzione, teologi e teologhe capaci di un pensiero coraggioso e quanto prezioso sia, per loro, un magistero che sappia domandare al pensiero la responsabilità per la storia comune. Non basta il rispetto reciproco, occorre la pretesa che di agape e, con esso, quella tenerezza che, senza cedere di un centimetro nell’interpretazione fedele del Vangelo e dell’epoca, sappia perdonare le precauzioni eccessive e le intuizioni visionarie, riconoscendo il bene, quel bene che muove entrambe.

Qualche tempo fa, un caro amico moscovita, ormai esule da anni, rileggeva il dramma del suo Paese a partire dalla saga di Harry Potter. Mi faceva notare che i “buoni” (l’Ordine della Fenice) non sembrano una falange armata: sono lenti, apparentemente inconcludenti, disorganizzati; ma resistono fino in fondo e non lasciano mai indietro un compagno. I seguaci di Voldemort invece sono sempre d’accordo, rispondono compatti e non si fermano neppure davanti ai loro caduti.

La retorica populista sembra efficace, non c’è che dire, ma solo finché distrugge: le si può contrapporre sempre e solo un’opera di comunione.


[1] E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Bari 2008, p. 91.

[2] Ivi.

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9 Commenti

  1. Giuseppe 15 dicembre 2025
  2. Adelmo Li Cauzi 14 dicembre 2025
    • anima errante 14 dicembre 2025
      • Adelmo li Cauzi 15 dicembre 2025
  3. Angela 14 dicembre 2025
    • Angela 14 dicembre 2025
  4. Franca Feliziani 14 dicembre 2025
  5. Fabrizio Mastrofini 14 dicembre 2025
    • Anima errante 14 dicembre 2025

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