Giordano Frosini, “aspettando l’aurora”

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Lo scorso 16 dicembre, nell’Aula Magna del Seminario vescovile di Pistoia si è tenuta la cerimonia di assegnazione della Terza edizione del Premio nazionale di Teologia «Mons. Giordano Frosini» (cf. qui su SettimanaNews). Nell’occasione è intervenuto il vescovo di Firenze, mons. Gherardo Gambelli, portando il suo saluto che riprendiamo di seguito

Sono contento di poter rivolgere il mio saluto in occasione del ricordo di Giordano Frosini, sacerdote di Pistoia e docente di teologia dogmatica presso lo Studio teologico fiorentino, adesso Facoltà Teologica dell’Italia Centrale.

Tante volte, facendo memoria di alcune grandi figure che abbiamo incontrato e che non sono più presenti tra noi, emerge interiormente, quasi spontaneo, un pensiero che si esprime a mo’ di domanda: come interpreterebbero loro quanto sta avvenendo davanti ai nostri occhi? In che modo ci aiuterebbero nel saper stare davanti alla realtà? In altre parole, un uomo come Frosini, con quello sguardo capace di guardare lontano e in profondità, cosa ci direbbe rispetto a quanto accade nel quotidiano? Quale chiave di lettura ci offrirebbe per comprendere lo scenario internazionale di crisi a cui assistiamo?

Mi piacerebbe qui provare a rispondere a queste domande alla luce del contributo che mons. Frosini ha offerto, facendo in particolare riferimento alla sua opera escatologica intitolata Aspettando l’aurora. Saggio di escatologia cristiana [1]. Seguirò di questo libro anche il metodo offerto: il nostro teologo, infatti, nel presentare il significato dell’escatologia non parte da alcune nozioni teologiche e neanche immediatamente dalla Scrittura, ma il suo punto di partenza è «uno sguardo al presente», e dunque la realtà, così come essa si presenta oggi.

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«La condizione dei poveri rappresenta un grido che, nella storia dell’umanità, interpella costantemente la nostra vita, la nostra società, i sistemi politici ed economici e, non da ultimo, anche la Chiesa» (n. 9). Sono parole di papa Leone XIV, contenute nella sua prima esortazione apostolica Dilexi te sull’amore verso i poveri.

Non è un caso che Papa Leone abbia scelto di iniziare il suo Magistero con un testo in cui i poveri sono al centro della riflessione; certamente, la scelta di questo tema si lega a una riflessione che Papa Francesco aveva già avviato, con l’Enciclica Dilexit nos, e con un testo che aveva iniziato a scrivere negli ultimi mesi della sua vita. Per questa ragione, Leone XIV afferma: «Avendo ricevuto in eredità questo progetto, sono felice di farlo mio – aggiungendo alcune riflessioni – e di proporlo ancora all’inizio del mio pontificato» (n. 3).

Oltre a questo legame con il suo Predecessore, il Papa ha voluto presentare questa esortazione apostolica sui poveri proprio per l’urgenza di una questione che continua a interpellare la Chiesa. Di fronte al grido di coloro che sperimentano ogni giorno ingiustizie, la comunità cristiana non può volgere il proprio sguardo altrove, facendo finta di nulla, come se questo dramma fuoriuscisse dalle sue competenze immediatamente spirituali, ma è chiamata a prestare il massimo ascolto, fino a soccorrere e anche ad «assumere» la disperazione dell’umanità.

E questa attenzione verso i piccoli e i fragili non ci pone soltanto nell’ambito del volontariato, ma soprattutto in relazione a quanto Dio continua a dire di Se stesso all’umanità; come ha ribadito il Papa, non stiamo «nell’orizzonte della beneficenza, ma della Rivelazione: il contatto con chi non ha potere e grandezza è un modo fondamentale di incontro con il Signore della storia. Nei poveri Egli ha qualcosa da dirci» (n. 5).

La Chiesa, dunque, di fronte al grido dell’altro è chiamata non semplicemente a «fare» qualcosa, ma soprattutto a «dare» tutta se stessa, proprio perché attraverso questo «altro» Dio continua a introdurre ogni uomo e donna nel Suo mistero di amore, rivelando loro, in modo sempre nuovo, chi Egli sia. Il grido di Colui che fu inchiodato sulla croce continua ininterrottamente da duemila anni a farsi sentire proprio nel grido dei tanti poveri: questa consapevolezza deve continuare incessantemente a provocarci e a scuoterci.

Il cristiano è chiamato ogni giorno a interpretare tutto quello che accade nella realtà in relazione a quanto Gesù ha insegnato. Non si tratta, tuttavia, di leggere il presente guardando all’indietro, come se il Vangelo riguardasse esclusivamente quanto avveniva duemila anni or sono, in quanto il Risorto è presente nell’oggi.

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È interessante ricordare come, soprattutto nella Chiesa delle origini, l’attenzione dei discepoli del Maestro non era rivolta soltanto su quanto accaduto (tutto quello che Gesù aveva detto e aveva compiuto), ma soprattutto verso ciò che stava per accadere. La comunità cristiana, infatti, era in continua attesa di rivedere il Signore, il quale aveva annunciato: «In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga» (Mt 24,34).

Questa venuta era aspettata da un momento all’altro; perciò tutto quello che accadeva sotto i loro occhi non poteva che essere interpretato alla luce di ciò; anzi: era proprio l’attesa del nuovo incontro ad aiutare gli uomini e le donne dei primi secoli a interpretare anche il negativo che stavano vivendo (ad esempio, le persecuzioni) come «occasione» di testimonianza.

Ancora oggi, come allora, la Chiesa è chiamata a interpretare ogni situazione, anche la più negativa e nefasta, alla luce di questo incontro con Colui che sta per raggiungerci. Proprio a questo ci prepara il tempo dell’Avvento: non stiamo aspettando la prima venuta (in quanto è già avvenuta), ma quella ultima, definitiva. Per questo motivo il Natale, facendo memoria della prima venuta, alimenta costantemente il desiderio della nuova venuta, in cui verrà donata la salvezza.

Qualcuno potrebbe obiettare: in quel giorno, insieme alla salvezza per alcuni, arriverà anche la dannazione per altri. Si tratta di un’obiezione che rivela un certo sentire comune, per cui a chi ha condotto una vita buona e nella verità verrà donata la salvezza, e a chi, invece, si è lasciato determinare da qualcosa d’altro, la condanna. Questo modo di vedere la fine della storia ha aperto le strade a diverse interpretazioni, fino talvolta a rasentare anche una fantasia religiosa che con la Scrittura ha davvero poco da spartire.

Frosini ha ben illustrato come questa fine non abbia a che fare con le cose ultime (al plurale), ma con la cosa ultima (al singolare): in altre parole, alla fine non ci sarà salvezza e dannazione, in quanto l’unica cosa che verrà offerta è il Paradiso. Ecco le parole di Frosini:

«L’eschaton non potrà essere che quello positivo. Salvezza e dannazione (paradiso e inferno) non rappresentano due situazioni escatologiche simmetriche, due realtà di uguale valore. Dio si è messo in movimento per la salvezza di tutti gli uomini e non può volere direttamente l’insuccesso della sua impresa»[2].

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Interessanti queste parole del nostro teologo, in quanto mostrano con estrema chiarezza che esiste per ogni uomo e donna un’unica predestinazione: si è predestinati unicamente alla salvezza, a stare con Dio. Questa affermazione non vuole assolutamente negare l’esistenza dell’inferno, ma mostra come Paradiso e Inferno non siano due luoghi paralleli creati da Dio: l’uno per i buoni e i santi, l’altro per i cattivi e i lontani. Dio ci ha fatti per stare con Lui: ci ha creati per salvarci. Scrive ancora Frosini: «L’offerta è unica e aperta a tutti, anche se esiste la possibilità del rifiuto […]»[3].

Dunque, siamo stati fatti per la salvezza, per questo l’offerta è unica; tuttavia, la possibilità di dire di «no» a tutto questo continua a permanere. Il «rifiuto» della salvezza ha a che fare con l’inferno, o meglio, l’inferno sembra essere proprio la condizione definitiva di chi ha liberamente scelto di non aderire all’offerta della salvezza. Spiega Frosini: «L’inferno, più che una realtà creata, è una reale possibilità nelle mani dell’uomo»[4].

Esso, dunque, esiste, ma non ha la stessa condizione ontologica del Paradiso, in quanto è una realtà che non è stata creata da Dio, al contrario del Paradiso. E quest’ultimo, spiega ancora Frosini, non è il luogo destinato a ospitare coloro che hanno meritato di abitarlo per le buone azioni compiute; ma al contrario: il Paradiso è e rimarrà sempre e soltanto dono di Dio[5].

In altre parole: non siamo noi a guadagnarci la vita eterna attraverso uno sforzo personale, ma è Gesù stesso a donarla raggiungendo la sua creatura in qualunque situazione di peccato si trovi (questo movimento di Dio è chiamato adventus: è evidente il richiamo al tempo liturgico che stiamo vivendo).

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Tutto ciò ci aiuta a riflettere su due aspetti: in primo luogo, che Dio è amore, e non può volere (e tanto meno creare) qualcosa che abbia un destino «altro» dal Suo amore; in secondo luogo, che Dio, essendo amore, ha creato la sua creatura libera, rendendola capace di rifiutare l’amore del suo creatore. L’inferno esiste, dunque, non perché creato da Dio, ma in quanto portato all’esistenza da chi si chiude a Dio e al prossimo.

In quest’opera Frosini ci mostra come il quotidiano che stiamo vivendo, determinato da guerra, da violenza e da morte, nasconda il grido del povero che così viene sempre meno ascoltato. Come per i primi cristiani, tuttavia, anche il nostro modo di interpretare quanto stiamo vivendo deve essere visto sempre alla luce del nuovo incontro con Cristo, riconoscendo il fatto che questo negativo che sta distruggendo l’umanità non sia da amputare a Dio, ma unicamente alle creature; non solo: questo negativo, toccando la carne del creato (dimensione ecologica) e la carne delle creature (dimensione antropologica), sta ferendo il corpo stesso di Cristo.

L’attesa della Sua nuova venuta con il suo stesso corpo, senza nulla togliere alla tragicità della situazione attuale, genera nel cristiano la capacità di saper riconoscere – proprio in questa negatività – l’amore di un Dio capace di amare la sua creatura fino a crearla libera di interrompere la relazione con Lui.

Da questo sguardo non scaturisce alcuno spiritualismo della realtà, ma al contrario il cristiano può porsi in modo sempre più critico nei confronti di logiche che non appartengono a quanto Dio ha rivelato di Sé e dell’umano attraverso la creazione e l’evento dell’incarnazione.

Questa criticità verso il presente, che caratterizza ogni credente, scaturisce dall’attesa di qualcosa di grande che gli sta venendo incontro; e in questa attesa, ogni uomo e donna non devono rimanere passivi spettatori della realtà, ma devono mettersi in cammino, proprio come hanno fatto i Magi. Scrive ancora Frosini:

«Aspettando l’aurora, il cristiano e la Chiesa, in cammino verso l’eternità, fanno proprio lo spirito dei Magi, i santi viaggiatori che vennero dall’oriente per incontrare il Signore. […] Anche la vita è un viaggio, che va da oriente a occidente. Si comincia coi bagliori dell’aurora; poi il lungo percorso della giornata, la fatica che cresce, le illusioni e le delusioni della vita, la dura lotta per l’esistenza; poi ancora il lento rasserenarsi del crepuscolo, le prime ombre del tramonto, l’addio della sera»[6].

In tutto il negativo che gli sta davanti agli occhi, il cristiano deve sempre e comunque lasciarsi determinare non da un inutile ottimismo, ma dalla speranza che nasce dalla certezza di fede nell’avvento di Cristo, attraverso la quale tutto, anche il cosmo, sarà trasformato e cristificato. Concludo il mio saluto con questa bella citazione di Frosini:

«È così che la nostalgia diventa il sentimento di chi scruta il cielo per vedere quando spunterà l’aurora. Una nostalgia alla rovescia. Non il rimpianto di un bene lasciato, ma il desiderio vibrante di un bene futuro»[7].


[1] G. Frosini, Aspettando l’aurora. Saggio di escatologia cristiana, EDB, Bologna 1994.

[2] G. Frosini, Aspettando l’aurora, 10.

[3] G. Frosini, Aspettando l’aurora, 10.

[4] G. Frosini, Aspettando l’aurora, 10.

[5] Cf. G. Frosini, Aspettando l’aurora, 154.

[6] G. Frosini, Aspettando l’aurora, 225.

[7] G. Frosini, Aspettando l’aurora, 227.

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