
Il meeting annuale dell’American Academy of Religion (AAR), congiunto con quello della Society of Biblical Literature, si è svolto quest’anno a San Diego (California) dal 23 al 26 novembre scorso. In passato, questo appuntamento dell’AAR funzionava da volano per il mercato del lavoro accademico, oltre che da occasione di incontro e confronto con centinaia di panel a cui si poteva partecipare.
La crisi del reclutamento accademico negli Stati Uniti, a cui si è congiunta l’oramai assodata tendenza a posizioni a tempo determinato, ha affievolito questo suo ruolo – lasciando intatta però la possibilità di presentarsi come una ghiotta occasione di networking e di proposizione sia di idee sia di tendenze della ricerca in ambito delle scienze religiose e teologiche. Punto fermo di sicuro interesse rimane il Salone del libro, che permette di percepire le tendenze editoriali del mercato anglofono – e, se si guarda bene, qualche perla preziosa da riportare con sé oltre Atlantico la si scova sempre.
La mole enorme di seminari, workshops e panel costringe ogni volta a una scelta dolorosa – qualcosa di veramente buono e di sicuro interesse rimane sempre fuori dalle possibilità del singolo partecipante.
Quest’anno ho scelto di seguire un doppio registro di scelta: da un lato, il filone della cosiddetta «decolonizzazione» del pensiero e delle pratiche, che ha permesso di intercettare anche il sentire delle minoranze/emarginazioni di vario genere; dall’altro, quello che consentiva di tastare un po’ l’atmosfera complessiva dopo le elezioni presidenziali USA vinte da Trump – privilegiando un’attenzione al ruolo della religione nel contesto politico e giuridico statunitense.
A questo doppio focus, ho aggiunto una scappata in ambito teologico cattolico, per valutare le impressioni lasciate qui dal Sinodo recentemente conclusosi sulla sinodalità della Chiesa; aggiungendo anche una partecipazione a uno dei panel organizzato dal gruppo della teologia pratica (che già l’anno scorso avevo trovato di grande interesse).
Teologie
Iniziamo da questi due ambiti più tipicamente teologici e. quindi, familiari per i lettori e lettrici italiane. Con le dovute puntualizzazioni critiche, mi è parso di cogliere una valutazione sostanzialmente positiva in merito al Sinodo – sia per ciò che concerne i suoi esiti, sia per quanto riguarda il modo di procedere dei lavori sinodali. L’accostamento di due foto della sala dei lavori del Sinodo, una di un’assise precedente e una di quella appena terminata, diceva di un cambiamento di paradigma in maniera molto più eloquente di quanto non possano fare tante delle parole spese a riguardo dell’ultimo Sinodo.
Da registrare anche un profondo cambiamento generazionale tra le teologhe e i teologi cattolici che hanno proposto delle relazioni e di quelli presenti nelle sale del meeting. Una generazione giovane, più lontana temporalmente dal Vaticano II ma non ignara di esso e del suo significato; con una formazione meno «tradizionale» di quella della mia generazione e, quindi, più addestrata a congiungere, nella ricerca teologica, metodologie diverse – forse un passo verso quella trans-disciplinarietà auspicata per la teologia cattolica da papa Francesco.
E questo incrocio e permeabilità fra i metodi è ciò che caratterizza da qualche anno le presentazioni e le scelte dei temi in ambito di teologia pratica. L’attenzione al dato empirico e alla lettura storica delle prassi delle comunità religiose, consente non solo di ragionare su «cose effettive», che esistono davvero, ma anche di accostare tra loro vissuti comunitari e prassi spirituali di religioni diverse. Una moschea, una sinagoga, una parrocchia cattolica, una comunità del mainstream protestante, una mega-church, quando vengono viste e lette attraverso le loro pratiche, gli usi che le caratterizzano, i modi della celebrazione, cessano di essere fenomeni dogmaticamente eterogenei tra loro e acquistano di prossimità intriganti su cui riflettere e di cui avere contezza.
Corpi
Se Paolo Prodi poneva la fine della modernità come europeizzazione del mondo agli inizi del XX secolo, con lo scoppio della I Guerra mondiale, rimane da registrare l’onda lunga della colonizzazione occidentale del pensiero, dei corpi e delle forme politiche – che dura tuttora, se si dà ascolto a chi si sente ancora occupato da un corpo estraneo al suo essere se stesso. Su questa linea si sono posti i lavori di gruppi come quello della black theology, del femminismo islamico e dei native Americans. I loro percorsi di emancipazione, di riappropriazione culturale e di forme religioso-cultuali, sono posti ancora sotto l’impero dell’Occidente – come forma mentis e impianto giuridico.
Da qui la riaffermazione dello spazio domestico, come luogo in cui si decidono i rapporti di potere fra generi, o la necessità di plasmare un’effettiva uguaglianza di genere non al di fuori della giurisprudenza islamica ma all’interno di essa, proposti a forza dalle donne islamiche. Ambiti, questi, in cui esse sentono ancora il dominio di standard occidentali, surrettiziamente imposti come gli unici praticabili (anche) da loro, che si impongono come i migliori e più desiderabili (da tutte, necessariamente).
Mettere in campo una teologia della liberazione islamica, inserendola nelle trame della teoria giuridica dell’Islam mirando a una sua reinterpretazione a partire dalle prassi delle donne (non solo negli spazi pubblici, ma anche in quelli domestici) rappresenta un’urgenza a cui dare corpo e forma – di donne, islamiche, credenti. Si tratta di immaginare, meglio praticare, vissuti di donne islamiche la cui possibilità di affermazione egualitaria non coincida necessariamente con una loro occidentalizzazione. Di qui il pendolo fra percorsi di decolonizzazione e riappropriazione creativa della tradizione islamica stessa.
Nella black theology una liberazione epistemologica dalla supremazia bianca va di pari passo con una pratica militante dei corpi. Corpi che sono avviliti, deformati dalla povertà, percossi dalle autorità, mercificati dall’indigenza economica, sfruttati dalle performaces sportive, denigrati dal benessere razziale. Corpi che devono essere impegnati nella lotta, soprattutto ora quando il sogno e l’immaginario del movimento per i diritti civili mostra un esito sentito come fallimentare.
Fallimento che depriva soprattutto le generazioni più giovani delle comunità afro-americane di ogni orizzonte e speranza di futuro, con un incremento drammatico dei suicidi tra gli adolescenti di colore. Un’atmosfera pestilenziale che è stata chiamata col nome di black nihilism: autodistruttivo, che satura ogni esperienza e distrugge anche la più flebile speranza di una vita degnamente umana.
Si profila così la necessità di una ripresa della militanza, liberata da un sogno che non si è avverato, consapevole di sé. Militanza che deve impregnare anche la lettura del Vangelo, del vissuto di Gesù, della sua intenzione radicale. È in questo contesto che si pone la questione se non sia giunto il momento di una ripresa della «violenza» sovversiva racchiusa in quella intenzione – antidoto necessario a una passività corrosiva, che ora si autoalimenta nella disperazione di vissuti senza senso e senza prospettive.
Nei margini dei corpi, nei ghetti delle città, nelle molte contraddizioni di una liberazione dalla supremazia occidentale (sovente bianca e cristiana), è possibile che si annidino germi di una resistenza al sistema americano, alla scomparsa di un benessere almeno in minima parte partecipato all’interno della sua società (oramai completamente schizofrenica: fatta di ricchi insaziabili, che non possono non esserlo se vogliono rimanere tali, e di poveri deprivati di ogni chance di qualsivoglia miglioramento delle condizioni di vita).
Le strade di San Diego
Arrivato nella notte di venerdì, sabato mi sveglio presto – saranno poco dopo le 6. Circa tre ore prima dell’inizio del panel che avevo deciso di frequentare come primo assaggio. La temperatura è fresca, ma piacevole – così mi allungo per le strade di San Diego. Abitate da ombre di corpi umani, che escono dai cartoni con cui si sono protetti dall’umidità della notte o da piccole tende di fortuna fatte con sacchi.
Uno strano ecumenismo razziale come sottoprodotto della povertà: bianchi, ispanici, afro-americani, asiatici… composti nella loro indigenza, nel loro abbandono. Si scambiano quello che hanno raccimolato, non tendono neanche più la mano, non ti chiedono nulla.

La durezza dell’essere homeless si è incisa nei loro corpi, il sole che picchia anche nei mesi invernali ha segnato i loro volti. Non importunano la gente, ma disturbano per il solo fatto di essere lì. Qualche operaio li apostrofa duramente. Un giovane ferma la macchina, scende, e dà loro quello che era rimasto della sua colazione. Una goccia in un abisso di abbandono, ma è pur sempre qualcosa da mangiare, un boccone che scende nello stomaco dopo essere stato voracemente inghiottito da una bocca affamata.
Una mattina, qualche giorno dopo, sono in attesa del mio Uber che mi porterà in aeroporto – loro sono ancora lì, memoriale quasi invisibile del volto rapace del sogno americano: traformatosi in fantasma e incubo.





