Nel 1963 il filosofo Karl Jaspers scriveva una lettera ad Hanna Arendt: «Verrà un tempo, che non vivrai abbastanza da vedere, in cui gli ebrei ti erigeranno un monumento in Israele e ti rivendicheranno con orgoglio come loro». Oggi, quel tempo non è ancora arrivato, tanto che, fino a pochi anni fa, i libri della Arendt erano rifiutati in Israele, tanto che Eichmann a Gerusalemme, ad esempio, è stato pubblicato in lingua ebraica solo nel 2000.
Questo ostracismo risale alla prima edizione del volume nel quale la Arendt, dopo aver seguito come cronista il processo al gerarca nazista, elaborò l’idea di «banalità del male». Penso che, ancora oggi, molte persone fraintendano l’espressione. O forse si può dire che molti tendono a respingerne il contenuto, perché troppo sconvolgente. Hannah Arendt, a differenza di quanto sostenuto dai suoi detrattori, non volle sminuire o rendere banali i crimini del nazismo. Il suo intento era quello di introdurre una visione nuova, a mio parere ancor più inquietante, dell’idea di male.
Sull’idea di «banalità del male»
Michal Aharony, ricercatore di filosofia politica e studioso di Shoah, in un articolo del 2019 su Haaretz scriveva:
«La nozione di “banalità del male” si riferisce al paradosso creato dalla società totalitaria, in cui un crimine senza precedenti viene eseguito in modo ottimale da un apparato burocratico ordinario; suggerisce la disparità tra le vaste dimensioni del crimine e la persona non eccezionale del criminale».
Quello stesso articolo poneva l’attenzione anche sul concetto di «sconsideratezza» ovvero «un tratto che Arendt definiva come «l’incapacità quasi totale di guardare qualsiasi cosa dal punto di vista dell’altro». Ciò non esonera dalla responsabilità delle azioni. La lezione da imparare dal processo Eichmann, ad avviso di Arendt, è che questa sorta di «sconsideratezza», che «non è affatto identica alla stupidità», può «causare più caos di tutti gli istinti malvagi presi insieme e che, forse, sono inerenti all’uomo».
La sua argomentazione principale era che, nell’atmosfera prevalente nella Germania nazista, Eichmann non avrebbe potuto distinguere tra il bene e il male: Arendt lo definì un «nuovo tipo di criminale», che commette i suoi crimini «in circostanze che rendono quasi impossibile sapere o sentire che sta facendo qualcosa di sbagliato».
Hannah Arendt sapeva benissimo che Adolf Eichmann non era l’ultima ruota del carro. Egli aveva un ruolo importante nella logistica dell’Olocausto: era colui che organizzava i treni per i campi di sterminio. Eppure, il gerarca nazista si presentava come un grigio burocrate, una persona comune. Poteva essere il «buon padre di famiglia» tedesco che magari, dopo aver pianificato le deportazioni, alla sera tornava a casa e rimboccava amorevolmente le coperte ai suoi figli.
La banalità del male per Arendt, in definitiva, rappresenta l’assenza del pensiero che, in quest’ottica, non va inteso come incapacità di ragionamento bensì come incapacità di costruzione di un dialogo interiore, col proprio sé.
Quando guardiamo dentro di noi assumiamo il ruolo di giudici della nostra coscienza. La «sconsideratezza» di cui parla Arendt è proprio il rifiuto di dialogare con la nostra coscienza, per effetto del quale, abdicando al ruolo di giudici di noi stessi, possiamo ottenere una facile auto-assoluzione, del tipo: «ho solamente eseguito gli ordini», «ho agito nel rispetto delle leggi del tempo».
La Arendt stessa, in una lettera di risposta al teologo Gershom Scholem che l’aveva criticata, scrisse:
«Ho cambiato parere e non parlo più di “male radicale”. Oggi, il mio parere è che il male non sia mai “radicale”, ma che sia solo estremo, e che non possieda né profondità né dimensione demoniaca. Esso può invadere tutto e devastare il mondo intero precisamente perché si propaga come un fungo. Esso sfida il pensiero, perché il pensiero cerca di attingere alla profondità, di pervenire alle radici, e dal momento in cui si occupa del male, viene frustrato perché non trova niente. È qui la sua banalità».
Attualità del suo pensiero
Oggi, a quasi cinquanta anni dalla scomparsa della Arendt, potremmo pensare che i suoi scritti ci parlino solo del passato: roba buona per storici e filosofi, potremmo concludere. In realtà il suo lavoro, a mio parere, è oggi più che mai attuale. A pensarla così è anche Robert Zaretsky, docente dell’Università di Houston e editorialista del Jewish Daily Forward, che, in un articolo su Haaretz di alcuni mesi fa, si era posto la seguente domanda «Come reagirebbe Hannah Arendt all’accusa di crimini contro l’umanità da parte di Israele?».
Zaretsky ci ricorda che, secondo la Arendt, il regime nazista, col suo desiderio di «far scomparire l’intero popolo ebraico dalla faccia della terra», introduce il concetto di «crimine contro l’umanità» che bisogna intendere come un crimine «contro lo status umano, ovvero contro la natura stessa del genere umano». «Questo crimine» – sottolinea Zaretsky – «è diverso da altri crimini perché è un attacco alla diversità umana in quanto tale, senza il quale le parole stesse genere umano o umanità sarebbero prive di significato».
L’autore dell’articolo prosegue sostenendo che per Arendt «la pluralità umana implica che siamo tutti pienamente uguali e pienamente unici. Questo spiega perché ci si può aspettare la famosa conclusione che “nessuno, cioè nessun membro della razza umana” condivida la terra con coloro che cercano di sradicare la nostra umanità condivisa e plurale».
Alla luce di questa considerazione il professore sostiene che «la risposta iniziale di Israele al massacro di Hamas non era solo comprensibile, ma anche assolutamente giustificabile. Nessun popolo sulla terra, per fare eco ad Arendt, ha più diritto di temere per la sua esistenza rispetto al popolo ebraico».
Ma l’interpretazione di Zaretsky non si ferma qui e, in risposta a coloro che contestano l’equivalenza della violenza di Israele e quella dei terroristi, conclude:
«la Arendt risponderebbe che il più vitale dei terreni comuni risiede invece nella “paradossale pluralità di esseri unici”. Proprio come Hamas ha posto fine alla vita di 1.200 esseri unici il 7 ottobre, Israele ha posto fine alla vita di decine di migliaia di esseri unici, molti dei quali civili, nei mesi successivi. L’assoluta equivalenza di tutte queste vite uniche, insisterebbe Arendt, è l’unica equivalenza che conta».
Parlare di «genocidio»
Anch’io, qualche tempo fa, mi ero trovato a riflettere sul nesso tra il pensiero di Hannah Arendt e la drammatica situazione a Gaza. Il mio ragionamento era partito dalla annosa questione: possiamo parlare di genocidio?
Come ben sappiamo, il caso è nato quando il Sud Africa ha accusato Israele, davanti alla Corte Penale Internazionale, per la sua condotta a Gaza dopo il 7 ottobre. Immediatamente si sono levati scudi in tutto il mondo: non è possibile parlare di genocidio! Mentre Papa Francesco, alcune settimane fa, è tornato sulla questione chiedendo che si indaghi per capire se sia in atto un genocidio.
Inizialmente pensavo che la questione terminologica fosse insignificante. Non è necessario chiamarlo genocidio per rendersi conto che è in atto un crimine senza fine. Possiamo parlare di massacro, mattanza o strage ma la sostanza non cambia. Questo pensavo tra me. Riflettendo sulla questione, sono giunto alla considerazione che l’argomento ha attinenza con le idee di Hannah Arendt.
Ciò che contraddistingue un genocidio è l’intenzione di compierlo, ovvero l’esistenza di una strategia pensata e pianificata per ottenere l’eliminazione di una popolazione. In parole povere, chi mette in pratica un genocidio ha chiaro l’obiettivo che vuole raggiungere e mette in atto le azioni per arrivarci.
Nel caso di Gaza l’intervento militare ci è stato presentato, fin dal primo giorno, come una risposta legittima al massacro del 7 ottobre. Israele ha il diritto di difendersi, così ci viene ripetuto in modo quasi ossessivo. Tale giustificazione vale, secondo i suoi sostenitori, anche se, per esercitare la legittima difesa, devono morire migliaia di innocenti. Un esempio concreto: siamo autorizzati a colpire i terroristi nostri nemici; questi però si nascondono in un ospedale, dunque è inevitabile, e tollerabile, che ci siano vittime innocenti.
Anestesia della coscienza
Io non so – e in fondo non mi interessa granché saperlo – se, nel caso di Gaza, si possa parlare di genocidio in senso tecnico-giuridico. Quello che mi interessa capire è il meccanismo di rimozione che sottende al ragionamento. Qualcuno compie un’azione che considera legittima e quindi, in conseguenza di tale legittimità, può esimersi dal considerare le tremende conseguenze della sua azione?
È una sorta di auto-assoluzione che permette di evitare il confronto con la coscienza. Ed è quello che fanno, in tutto il mondo, coloro che giustificano, avallano e difendono la guerra di Israele a Gaza. In questo atteggiamento io riconosco quella «sconsideratezza» che Arendt identificava con «l’incapacità di pensare dal punto di vista dell’altro» e di confrontarsi con la propria coscienza; ossia dire, come facevano i gerarchi nazisti, «ho solamente eseguito gli ordini» sorpassando la propria coscienza. Sostenere «ho il diritto di difendermi», senza preoccuparsi delle conseguenze umane di questo mio diritto, equivale ad auto-assolversi, mettendo a tacere la coscienza.
In effetti – se ci pensiamo – è un meccanismo piuttosto diffuso, non solo in Israele, ma anche nelle nostre democrazie. Pensiamo a tutte le volte che, nel corso degli ultimi decenni, ci hanno raccontato la storia della «guerra umanitaria» o proposto un intervento militare per «esportare la democrazia»: dalle bombe della NATO su Belgrado, alla guerra al terrorismo in Afghanistan, fino all’invasione dell’Iraq, giustificata mentendo all’ONU circa le armi chimiche di Saddam. In ognuno di questi casi le vittime innocenti sono divenute «danni collaterali».
Che differenza c’è tra l’espressione «ho solamente eseguito gli ordini», usata dai nazisti per giustificarsi e le nostre parole dopo le bombe con i loro «danni collaterali»? Secondo me, sono esempi di quella «sconsideratezza» che, secondo Arendt, palesa la mancanza di dialogo con la propria coscienza, personale e quindi collettiva.
Anche se noi non viviamo, ancora, in un sistema totalitario, la «banalità del male» tende a diffondersi nei nostri pensieri quale gas anestetizzante. Mentre ciò che possiamo – e dobbiamo – fare è continuare a dialogare con la nostra coscienza.







Articolo ben fatto e che spiega bene il nesso tra sconsideratezza e mancanza di dialogo con la nostra coscienza. Pongo solo una domanda: come fare a non tramutare il giusto sdegno (anche ammesso dal Papa) per le azioni bellicose sconsiderate di Israele in un rigurgito di anti-sionismo spinto? Inteso non come volontà di contrastare l’espansione illegittima di Israele (tale é) ma in quella visione per cui é Israele stesso uno stato che non dovrebbe esistere? (Cosa che tenderebbe assai ardua la sopravvivenza degli ebrei nel mondo odierno). Insomma, come rimanere nella giusta dimensione di condanna?
Apprezzo molto questo articolo e trovo che la banalità del male come anestesia della coscienza chiarisce molto bene come la vittima di un tempo diventa carnefice senza la minima sensazione di essere sconsiderata come lo è la politica guerresca di Israele di questo mesi. Anzi il carnefice anestetizzato bolla di antisemitismo chiunque gli dica: sei uno sconsiderato!