
Poniamoci in ascolto, per un istante, del teologo Fulvio Ferrario: Eberhard Jüngel «distingue mistero da enigma. L’enigma presenta un’incognita, un non sapere che dev’essere eliminato. Il mistero parte da una rivelazione, da un sapere: esso però rinvia oltre sé, verso una nuova apertura di realtà». Ciò è in linea, del resto, con l’etimologia dei due vocaboli. E subito dopo il mistero viene accostato all’amore: «Come nell’amore: esso vive di una conoscenza, ma rinvia a un approfondimento di relazione, in una costante dinamica, che potrebbe essere descritta (ma Jüngel non usa questi termini) nelle categorie cullmanniane del già e del non ancora»[1].
Del resto, anche nel linguaggio comune, credenti e non usano espressioni quali, appunto, “il mistero dell’amore”, “della vita”, “della morte” e così continuando.
L’enigma, però, non è solo un non dire, un coprire, un nascondere, un’incognita. Anche qui ci aiuta il linguaggio corrente, dove enigma sta pure per “indovinello”, “rebus”. Detto ancor meglio, esso pone una domanda, un’interrogazione, non di rado radicale. Per seguire gli esempi precedenti, dire l’enigma dell’amore corrisponde a chiedersi che cos’è l’amore? Analogamente, che cos’è la morte?, che cos’è la vita?, che cos’è la felicità?
Celeberrimo è a tal proposito lo sguardo enigmatico della Gioconda. Esso può alludere, poniamo, a qualcosa di trattenuto: il tempo, un’emozione, naturalmente un sorriso. E può venir percepito in maniera dissimile da ciascuno/a. Come scrive il filosofo della scienza Paco Calvo, «l’ambiguità non riguarda soltanto l’immagine in sé. Non importa se la consideriamo serafica, felice, assorta, pensierosa o in altri modi ancora, l’ambiguità della Gioconda dipende molto da ciò che lo spettatore si porta dietro nella sua interazione con il dipinto». Un po’ come nel caso dei “disegni da completare” o delle “macchie” del test di Rorschach. Per non dire del mare magnum delle illusioni ottiche. Ancora: «Ai visitatori del Louvre, la Gioconda pone una domanda, un interrogativo che li riguarda personalmente. Il sottile virtuosismo di Leonardo ha saggiamente lasciato la domanda senza risposta in modo che il volto dipinto possa disorientare tutti, come farebbe una sfinge. Le emozioni che sembra esprimere sono tanto varie quanto quelle di chi la guarda»[2].
Io, tuttavia, non consegnerei completamente l’enigma al regno del soggettivismo. L’ambiguità, d’altronde, rimanda etimologicamente all’incertezza. E l’incertezza è il terreno di coltura dell’incontro con l’altro/a e della relazione. L’enigma della Gioconda, dunque, come l’enigma dell’altra/o, espressione dell’incertezza profonda su di lei/lui (e su noi stessi). E così l’enigma in generale. Quell’interrogazione che ci disorienta, quel perturbante che risuona con gli angoli più reconditi della nostra intimità.
Mistero ed enigma, in definitiva, rappresentano due grandi metafore dell’amore, inteso come l’incontro per antonomasia con l’alterità. I suoi due aspetti: il mistero di ciò che in parte già si conosce, la domanda radicale che ci viene rivolta, con la conseguente ricerca personale della risposta.
[1] Fulvio Ferrario, La teologia del Novecento, Carocci, Roma 2011, p. 226.
[2] Paco Calvo con Natalie Lawrence, Planta Sapiens. Perché il mondo vegetale ci assomiglia più di quanto crediamo, traduzione di Allegra Panini, il Saggiatore, Milano 2022, pp. 149-150, corsivi miei.





