Simone Weil in dialogo con san Francesco

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Sabina Moser è autrice del volume Una santità geniale. Simone Weil in dialogo con san Francesco. Le domande dell’intervista sono poste da Giordano Cavallari.

  • Gentilissima, nel primo capitolo scrivi che la Weil prende le distanze dall’amato san Francesco su un punto: quale? Due modi di intendere e vivere in Cristo?

Scrivo che Simone Weil riconosce senz’altro nella forma di vita scelta da Francesco l’incarnazione dell’ideale di vita cristiana, ovvero il riuscito tentativo di imitare il modo di vivere di Cristo, e afferma di aver provato anche lei il desiderio di conformarvisi. Scrive infatti: «Ho sempre creduto e sperato che la sorte un giorno mi avrebbe spinta a forza in quella condizione di vagabondaggio e mendicità che egli accettò liberamente».

È d’altronde anche convinta che non spetti alla libera scelta dell’uomo intraprendere una vita del genere; a suo avviso, infatti, si deve esservi costretti dalla sorte: «Sin dall’adolescenza ambivo al matrimonio di san Francesco con la povertà, ma sentivo che non dovevo essere io a darmi la pena di sposarla, perché un giorno lei stessa sarebbe venuta a prendermi a viva forza, ed è meglio così».

Questa sua convinzione ha, del resto, una ragione: poiché dietro a ogni scelta c’è la volontà dell’io e «dire io è mentire», per la Weil l’atto di scegliere porta lontano dal compiere la volontà di Dio. Perché quest’ultima “sia fatta” occorre infatti che la scelta non venga vissuta come occasione per esprimere la propria volontà, ma come un “dovere”, dettato dalle circostanze reali (nelle quali la Weil vede espressa la volontà di Dio), che l’uomo può solo accettare o rifiutare di compiere.

Quello di Simone è dunque un modo senz’altro diverso da quello di Francesco di intendere e vivere lo stesso cammino kenotico generato dalla comune tensione cristica, un modo che, a mio avviso, possiamo definire complementare.

  • La differenziazione, nel comune sentire, ha a che fare con ciò che è “personale” e ciò che è “impersonale”: vuoi spiegare?

Alla risposta precedente, aggiungo che, mentre Francesco interpreta la volontà di Dio come l’appello di un Dio personale, che lo chiama a fare una scelta che metta in gioco la sua libertà, Simone interpreta il volere di Dio come qualcosa che “impersonalmente” le si rivela nella realtà fenomenica attraverso la necessità, la quale diviene, dunque, per lei «il velo di Dio».

Rifacendosi ad un’ottica stoica che coglie l’aspetto impersonale della Provvidenza divina, per lei disporsi a fare la volontà di Dio significa attendere con fiducia e vigilante pazienza – l’atteggiamento che Gesù, nel vangelo, raccomanda di avere al servo fedele – che le circostanze le indichino chiaramente cosa fare, fino a farla sentire, in un certo senso, obbligata a comportarsi in un certo modo. La vera obbedienza alla volontà di Dio si traduce quindi in una sorta di attività passiva – attività del farsi patiens anziché agens che si realizza quando si è giunti a «ricevere ordini da Dio», ad essere agiti da Lui, a differenza di quando si decide autonomamente con la propria volontà come e quando agire.

Il Dio assente
  • Cos’è, dunque, l’obbedienza a Dio per Weil?

Per la Weil l’obbedienza alla volontà di Dio non può essere pensata separatamente dall’obbedienza alla necessità; per lei, infatti, «Dio ha inscritto la sua firma nella necessità». Questa è considerata e sofferta come una nemica solo per chi pensa in prima persona e continua a dire «io» mettendolo «io» al centro di tutto, da parte di chi non ha ancora  rinunciato alla propria volontà; per chi, invece, ha fatto la rinuncia obbedendo alla conditio sine qua non che Gesù richiede per seguirlo – come in Mc 8, 34: «se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» – essa diventa non solo l’espressione di un ordine divino che non può essere altrimenti evaso e, soprattutto, una maestra di vita che porta per mano chi vi acconsente a compiere il volere di Dio.

Finché l’io, con la sua volontà e i suoi desideri, non scompare, infatti, permane una visione dualistica della realtà che fa avvertire l’io umano contrapposto al Tu di Dio e, contrapponendo, di conseguenza, la volontà umana a quella di Dio. Senza la rinuncia all’io e alla propria volontà, non si può dunque parlare di vera obbedienza a Dio.

  • Vuoi chiarire la concezione di “decreazione” in Weil? Come il massimo dell’assenza di Dio nel mondo coincide col massimo dell’umano nel mondo?

Il concetto di decreazione, a mio avviso, è centrale nel pensiero della Weil, almeno per quanto riguarda l’ambito religioso/spirituale, e si ricollega proprio a quanto sopra. Il termine, che Simone prende in prestito da Charles Peguy – usandolo però con altro significato – indica quella serie di operazioni volte a «disfare» in noi la creatura, intesa quale concentrato di particolarità che fa da schermo tra Dio e noi, illudendoci di essere qualcuno: qualcuno separato e diverso da Dio.

Si tratta, perciò, di fare, in senso inverso, il percorso di differenziazione della creazione che ci ha fatto divenire creature in un certo spazio e in un certo tempo  – nascendo cioè in una certa epoca, in una certa situazione sociale, familiare, con un certo carattere e con certe caratteristiche individuali – per riscoprire l’origine eterna da cui tutti proveniamo ma che abbiamo dimenticato perché troppo concentrati sul nostro particolare, del quale abbiamo fatto un valore, anzi il valore assoluto: centrale, infatti, per noi è l’io, poi tutto il resto.

Possiamo dunque interpretare la de-creazione come il doloroso ritirarsi dell’io – che avrebbe la tendenza a propagarsi ovunque – in quel punto infinitamente piccolo dell’anima, dove Dio risiede. Esso è il centro della nostra anima, il solo punto ad essere libero da qualsivoglia condizionamento psicologico, sociale, culturale, ecc.

Ritirarsi in questo punto, azzerando il nostro io, rende possibile il «passaggio all’eterno». La de-creazione diventa l’imitazione o la risposta umana all’abdicazione di Dio nell’atto della creazione. Per la Weil quest’ultima, infatti, non va vista quale espansione della grandezza e della potenza divine bensì, al contrario, come un ritiro di Dio, un suo farsi piccolo, sempre più piccolo, fino a ridursi a quel punto infinitamente piccolo, ma centrale, della nostra anima.

In questo senso si può dire che Dio è tanto più assente dal mondo quanto più è presente l’umano, per far posto al quale Egli si è ritirato rinunciando all’onnipotenza e alla forza. Perciò la Weil scrive: «Il contatto con le creature ci è dato mediante il senso della presenza. Il contatto con Dio ci è dato mediante il senso dell’assenza».

  • Colpisce, in entrambe le figure – Francesco e Simone – l’annullamento in Dio ma senza “fuga dal mondo”, anzi pienamente dentro le vicende del mondo. Come è possibile? 

Si, è così e ciò non deve stupire più di tanto. Pensiamo all’episodio evangelico della trasfigurazione (Mt 17, 1-8): i discepoli che hanno fatto l’esperienza di vedere Gesù trasfigurato nella luce, provando la beatitudine di quella visione/condizione nella quale vorrebbero rimanere per sempre, devono però – su esortazione dello stesso Gesù – tornare alla vita di prima, per dare agli altri concreta testimonianza dell’esperienza vissuta.

La stessa esperienza si rinviene nel mito della caverna di Platone, in cui il filosofo, che ha visto la luce, deve poi rientrare nella caverna a liberare coloro che ancora ne sono prigionieri. Su questo riflette Simone, che ne trae la seguente conclusione: «In definitiva, dopo aver strappato l’anima al corpo, dopo aver attraversato la morte per giungere a Dio, il santo deve in certo modo incarnarsi nel proprio corpo, al fine di diffondere su questo mondo, sulla vita terrestre, il riflesso della luce soprannaturale. Al fine di fare della vita terrestre e di questo mondo una realtà, giacché sino allora non sono stati altro che sogni. Al santo incombe quindi il compimento della creazione. […]. Il perfetto imitatore di Dio dapprima si disincarna, poi si incarna».

Lo stesso messaggio si trova in quel testo enigmatico che è il Prologo, in cui la Weil lascia trasparire molto della sua esperienza mistica. Anche qui, sempre per lo stesso motivo, dopo l’esperienza di intima comunione che lei ha fatto con il misterioso personaggio-protagonista (Cristo), questo le comanda di andarsene, gettandola fuori dal luogo in cui è avvenuto il loro incontro mistico, nonostante i tentativi di resistenza di Simone.

Infine, va detto che tale è la testimonianza di tutti i più grandi mistici: oltre a san Francesco, per citare solo alcuni tra i più noti, santa Teresa d’Avila, san Giovanni della Croce, sino a Madre Teresa di Calcutta e tanti altri magari sconosciuti.

Gli sventurati
  • Perché queste grandi figure sono arrivate a condividere la sorte degli sventurati?

Rispondo: sia Francesco che Simone hanno avuto un contatto diretto con l’Assoluto, con Dio. Nel loro incontro con l’eterno il pathos divino è stato comunicato alla loro anima, facendo nascere in loro la com-passione, ovvero la forma perfetta dell’amore, quella che ha come fonte non più l’io, con tutti i suoi limiti, ma il bene incondizionato.

Quando dunque, dopo aver messo a morte l’io attraverso l’imitazione del processo kenotico di Cristo, la grazia è discesa in loro ad occupare il vuoto lasciato da quello, la pietà umana per gli sventurati si è trasformata in autentica com-passione, ovvero nella capacità di partecipare alla sorte altrui come propria.

Per chiunque segnato da questa grazia, ciò diviene una necessità, in quanto l’altro non è più percepito come altro, ma come estensione di sé. Partecipare alla sorte dell’altro nella disdetta diventa allora qualcosa di spontaneo, che si compie senza sforzo. A quel punto, infatti, non è più l’io dell’uomo ad agire, ma Dio che agisce in lui; come insegnava Eschilo, «ciò che è divino è senza sforzo».

Il tuo titolo è “Una santità geniale”: santità, genialità, follia in Dio, perché insieme?

Sia la santità che la genialità richiedono l’uscire fuori dagli schemi del modo di pensare e di essere “mondano”, ovvero legato alle cose terrene del mondo. Richiedono una visione-altra da quella legata alla prospettiva miope e fallace dell’io, una prospettiva universale, che vede le cose dall’alto, come se le vedesse Dio, fuori dal condizionamento spazio-temporale.

Come scrive Simone: «Vi è una realtà fuori del mondo, vale a dire fuori dello spazio e del tempo, fuori dell’universo mentale dell’uomo e di tutto ciò che le facoltà umane possono cogliere. A questa realtà corrisponde, al centro del cuore umano, l’esigenza di un bene assoluto che sempre vi abita e non trova mai alcun oggetto in questo mondo».

Il genio e il santo sono infatti animati da una logica che è soprannaturale, nella quale i contraddittori sono possibili, il che si sviluppa grazie all’intuizione – quale forma dell’ispirazione – anziché grazie alle categorie appartenenti alla logica della ragione naturale: per quest’ultima, quella appare assurda, “folle”, incomprensibile perché contraddittoria.

A tal questo proposito vale la pena ricordare che, etimologicamente, la parola santo significa separato e che sia il santo che il genio sono considerati tali, appunto, agli occhi della gente comune: il primo perché, non tenendo conto delle ragioni del proprio io, non vive in modo ego-centrato ma è al contrario mosso dalla divina follia dell’amore; il secondo perché non può comunicare agli altri quanto a lui è caro e chiaro, perché non sarebbe compreso. Dal mondo il santo e il genio è considerato folle e spesso condannato alla solitudine.

  • Tu scrivi della gioia e bellezza di queste vite. Ma la loro vita è stata davvero felice?

Alla domanda rispondo sì e no, in questo senso: la costante ricerca di armonia e la capacità di provare reale com-passione nei confronti di ogni essere umano – dunque la capacità di condividere le gioie e i dolori degli altri come fossero i propri – rende i santi dotati di una straordinaria sensibilità ed espone le loro vite a fare esperienza sia di grandi gioie- nel saper gioire “di nulla” – come di profonde sofferenze.

Pensiamo a san Francesco: egli, che insegnò la “perfetta letizia” ed è rappresentato, nell’immaginario comune, come colui che è sempre lieto e gioioso, era anche colui che ha pianto perché l’amore non è amato, nonché colui che ha ricevuto le stimmate quale testimonianza della sua reale partecipazione alla Passione di Cristo.

Altrettanto Simone, che ha fatto della sventura uno dei punti nodali della sua riflessione e che – per poterne parlare con effettiva cognizione di causa ed essere solidale con tutti coloro che ne sono stati, in qualsiasi modo, colpiti – ha voluto patirne, sulla propria pelle, i dolorosi effetti, ad esempio diventando operaia in fabbrica, partecipando alla guerra civile spagnola, ecc. Ebbene, è la stessa Simone capace di gioire profondamente della sola contemplazione del cielo stellato: «Per me non c’è gioia più grande che guardare il cielo in una notte limpida, con un’attenzione così concentrata che tutti gli altri pensieri scompaiono; si ha allora l’impressione che le stelle entrino nell’anima»; oppure la stessa Simone capace di condividere profondamente piccole e grandi gioie con familiari e amici. Sappiamo, anzi, che ella mantenne questa sua capacità fino a poco prima della morte, quando scriveva ai genitori, ignari delle sue gravi condizioni di salute: «Non siate ingrati verso le cose belle. Godete di esse, sentendo che durante ogni secondo in cui godete di loro, io sono con voi. Dovunque c’è una cosa bella, ditevi che ci sono anch’io».

  • Personale e collettivo, storico o politico: quale passaggio tra i due piani in queste figure?

Non c’è dubbio che i personali cammini/esperienze spirituali fatte da san Francesco e da Simone Weil non siano stati solo un fatto privato, ma abbiano avuto anche una eco ed un ruolo storico-politico assai rilevante.

Francesco, secondo la tradizione, fu invitato dal crocifisso della chiesetta di San Damiano, di fronte a cui pregava, a riparare la sua chiesa che stava andando in rovina. L’assisiate presto comprese che non di quella chiesa si trattava, ma della Chiesa-istituzione.  In effetti, il movimento francescano, nato sull’esempio di vita di Francesco, ebbe una rapidissima e quasi prodigiosa espansione e fu, innegabilmente, un potente elemento di rinnovamento religioso, di grande e duratura efficacia sociale.

Anche Simone, che nella sua breve vita si era sempre impegnata, fin da giovanissima, in ambito sociale e politico, dopo aver avuto il suo contatto diretto con Cristo, si convinse che «una politica giusta non può essere separata dalla religione o meglio dalla mistica». Fu così che, mentre a Londra, nell’ufficio di France libre – movimento di resistenza francese legato a De Gaulle – esaminava i progetti di riforma riguardanti la nuova società che doveva nascere al termine della seconda guerra mondiale, ella – a danno della propria salute già assai compromessa – trovò anche il tempo per comporre numerosi saggi  – gli Scritti di Londra, e l’incompiuto L’enracinement – nei quali formulò la sua  proposta di un progetto di civiltà in cui, al centro della vita sociale come al centro dell’anima, ci fosse quell’infinitamente piccolo, che è l’infinitamente più di tutto: Dio. Ella era infatti persuasa che proprio nel cristianesimo autenticamente vissuto ci fosse l’ispirazione fondamentale per trasformare il volto della società contemporanea, per rinnovarlo alla radice.

Guerra e pace
  • Il tema della guerra e della pace, come riguarda le due figure?

Sia Francesco che Simone hanno conosciuto la guerra da vicino: Francesco, nel 1202, partecipò alla guerra tra Assisi e Perugia, durante la quale fu fatto prigioniero e, dopo essere stato a lungo nelle carceri perugine ed essere stato riscattato dal padre, iniziò quel periodo di lenta conversione che lo portò ad essere, per noi, oggi, san Francesco.

Simone, nel 1936, partecipò alla guerra civile spagnola combattendo a fianco dei repubblicani ma, dopo un tempo assai breve, fu costretta a tornare in patria, a causa di un incidente nel quale era rimasta ustionata ad una gamba. Tanto, però, le era bastato per rendersi conto che, in guerra, la violenza accieca chiunque la usi, portando tutte le parti – la buona come la cattiva – ad eguale insensibilità nei confronti dell’altro, del «nemico».  Riflettendo su ciò scriverà lo splendido saggio L’Iliade, poema della forza.

Entrambi, dunque, avevano fatto l’esperienza della guerra quando erano molto giovani. L’esperienza di Simone la portò a divenire radicalmente pacifista, convinzione che abbandonò solo nel 1939, quando Hitler invase la Cecoslovacchia e si rese conto che, per fermarne l’espansione, non bastava scommettere sul logoramento interno del regime nazional-socialista, ma si doveva combatterlo.  Ciò non avvenne, tuttavia, senza affrontare un penoso conflitto interiore.  Fu, comunque, proprio in seguito a tale conflitto che concepì un’idea di forte ispirazione religiosa, che coniugava la necessità della lotta con il valore della pace: una sorta di “combattimento pacifico”, volto a vincere l’eroismo brutale nazista – sorretto dagli stessi fattori morali delle SS (coraggio, dedizione, spirito di sacrificio) – con uno di qualità più difficile e rara, in grado di opporre gli stessi valori, attinti però da tutt’altra fonte.

Questa idea “geniale” venne formulata dalla Weil nel Progetto per una formazione di infermiere di prima linea, che proponeva la formazione di un gruppo di volontarie del quale voleva far parte, per assistere fisicamente e moralmente i soldati feriti, direttamente sul campo di battaglia, esponendosi al loro stesso pericolo di morte. Tale progetto, che porta la firma della genialità di Simone, può essere considerato la testimonianza finale del suo percorso di vita: una sintesi, cioè, tra il suo carattere combattivo e la sua profonda ricerca di pace – frutto dell’abbandono dell’ego – che sempre la animò.

  • Anche Simone, come Francesco, icona dell’amore del creato e dell’ambientalismo contemporaneo?  

Francamente non so se si possa definire Simone “ambientalista”, ma è certo che era amante della natura. Ne abbiamo molti riscontri, testimoniati sia dalla sua miglior biografa e amica Simone Pétrement che riferisce: «Sembra che Simone abbia amato nella natura, più di ogni altra cosa, la purezza dei minerali, il vuoto del silenzio, dello spazio immenso e luminoso e lo splendore lontano, misterioso degli astri del cielo».

Lei stessa, ad esempio in una sua lettera, mentre era operaia agricola nelle terre del suo amico Thibon, nella regione dell’Ardèche, ebbe a scrivere: «Vado a prendere l’acqua a una sorgente, la legna in un bosco di pini, mangio verdura appena colta e cotta su un fuoco di legna; e vedo di continuo la luce del sole illuminare variamente la vallata e le colline; poi la notte, immense distese di cielo stellato. Non si può essere più vicini alla natura […] essa mi avvolge con la sua bellezza, la luce e la gioia».

Bisogna aggiungere, inoltre, che Simone ha visto nella passività della materia, quale la si osserva nella natura, quella forma di obbedienza a Dio che l’umanità può imparare e che costituisce, da sé, modello di comportamento.

Vorrei sottolineare il fatto che già nel saggio Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, scritto a soli venticinque anni, la Weil mette in guardia dal pericolo del dominio delle macchine sulla natura e sull’uomo in quanto parte di quella, perché esso è capace di snaturare sia la prima che il secondo. Non so se tutto ciò faccia della Weil una “ambientalista”, ma credo che, se fosse vissuta oggi, non avrebbe mancato di far sentire la sua voce in difesa dell’ambiente in cui viviamo.

Il Vangelo
  • Qual è, secondo te, il brano del vangelo che Francesco e Simone hanno letto sine glossa?

Il brano del vangelo che mi viene subito in mente è Lc 12, 22-32, il cui argomento è l’abbandono totale alla Provvidenza. In questo brano – scrive la Weil – si vede bene che «Cristo ci ha proposto a modello la docilità della materia quando ci ha consigliato di osservare i gigli dei campi che non lavorano e non filano; essi, cioè non si sono proposti di rivestire questo o quel colore, non hanno messo in moto la loro volontà, né disposto mezzi a questo scopo: hanno semplicemente accolto tutto ciò che la necessità naturale ha dato loro. A noi paiono più belli che i tessuti pregiati, non già perché siano più sfarzosi ma perché sono docili.

Anche una stoffa è docile, ma docile di fronte all’uomo, non di fronte a Dio. La materia è bella soltanto quando obbedisce a Dio, non quando obbedisce all’uomo. Se talora in un’opera d’arte essa appare altrettanto bella che nel mare, nelle montagne o nei fiori, lo si deve alla luce di Dio che ha illuminato l’artista. Per giudicare belli gli oggetti fabbricati da uomini non ispirati da Dio bisogna aver sentito con tutta l’anima che questi stessi uomini sono soltanto materia che obbedisce senza rendersene conto.

Chi è arrivato a capire ciò, trova tutto perfettamente bello quaggiù. Egli riconosce in tutto ciò che già esiste, o che si verifica, il meccanismo della necessità e vi gusta la dolcezza infinita dell’obbedienza. Questa obbedienza della materia è per noi, rispetto a Dio, ciò che è la trasparenza del vetro rispetto alla luce. Non appena sentiamo questa obbedienza con tutto il nostro essere, abbiamo la visione di Dio».

Più semplicemente Francesco ha cercato, riuscendoci, di essere in tutto e per tutto docile e obbediente alla Provvidenza, al pari dei gigli dei campi e gli uccelli del cielo, che non si affannano a seminare, mietere, accumulare cibo, né si preoccupano troppo di soddisfare le quotidiane necessità terrene perché a questo provvede, di volta in volta, Dio, che ha cura di tutte le sue creature. Fu proprio per imitare fedelmente questo modello di abbandono alla Provvidenza, secondo il quale Gesù consigliò di vivere, che Francesco si fece povero e mendìco.

  • Perché leggere il tuo libro o, meglio, perché conoscere queste figure?

San Francesco, Simone Weil, Gandhi, Etty Hillesum, sono grandi figure sulle quali ho avuto, sinora, occasione di riflettere, ben consapevole del fatto, naturalmente, che ve ne sono molte altre che meritano di essere conosciute e approfondite.

Sono questi modelli umani di riferimento per tutti, perché incarnano i valori alti e grandi per i quali vale la pena di spendere l’esistenza, valori che il mondo contemporaneo sembra avere smarrito. Per questo ritengo sia particolarmente importante – per il nostro tempo – riscoprirle e tenerle ben presenti come guida dei nostri passi. Ci mostrano, infatti, quanto sia importante, nella nostra vita “profana”, custodire il senso del sacro, col loro concreto esempio: quando l’essere umano vive in esso, somiglia davvero a Dio.

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2 Commenti

  1. Marco 10 gennaio 2025
  2. Pietro 10 gennaio 2025

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