Sandra Manzella – autrice di due libri sulla Città Santa (Gerusalemme, viaggio al centro del mondo, Unicopli e Gerusalemme ancora, Oligo) – ha raccolto alcune testimonianze da Israele in questo momento delicato. Lior Genah è italo-israeliano di Tel Aviv. Jessica Jasmine Barhom è imprenditrice britannica, musulmana, e con la sua famiglia promuove attività di incontro tra arabi ed ebrei. Suor Maria segue un progetto di ricamo per le donne beduine. Don Luigi Milani è presbitero mantovano a Gerusalemme per un periodo di servizio e di studio.
Lior Genah
Stiamo per riportarli a casa, ma a che prezzo? Aspettiamo la restituzione di 33 ostaggi tra cui anziani, donne e bambini (due di età inferiore ai 5 anni) di cui siamo tuttora impossibilitati a conoscere la sorte, se vivi o morti. In cambio liberiamo criminali che hanno decapitato, violentato, smembrato le loro vittime. Sono ergastolani macchiati del sangue di centinaia di civili, donne e bambini, alcuni per mano propria e altri come mandanti di attentati. Si tratta di oltre millenovecento persone accusate di terrorismo a vari livelli, come ad esempio gli assassini che, nel 2011, massacrarono la famiglia Fogel a Itamar, in Cisgiordania: il bambino più piccolo aveva solo tre mesi di vita.
Tanti di noi pensano, e forse nemmeno a torto, che Israele sia stata forzata a scendere ad ampi ed assurdi compromessi al fine di trattare con Hamas. Altri sono assolutamente contrari a questo accordo e lo ritengono una capitolazione che in futuro ci riporterà alla stessa situazione del 7 ottobre 2023, perché Hamas non è domato.
È una questione che sta spaccando il nostro Paese. Io sono del parere che al momento non abbiamo certezze. Sicuramente tutti gli ostaggi devono tornare a casa il prima possibile. Se questo è il prezzo da pagare, allora così sia. Voglio solo credere che il nostro governo sappia gestire le conseguenze; voglio essere fiducioso.
Dall’annuncio della tregua, i media trasmettono continuamente i video dei festeggiamenti a Gaza per la “vittoria” contro Israele: sono sconcertato nel vedere bambini che brandiscono armi quasi più grandi di loro. Cosa hanno imparato, allora, nell’ultimo anno? Leggo articoli e interviste e constato diverse contraddizioni: chi si definisce vittima di un genocidio è pronto a nuovi massacri; chi esalta il martirio, nello stesso tempo, piange i propri morti.
Aggiungo che sono allibito dal ruolo della Croce Rossa Internazionale. Come possono esserci bandiere della Palestina sui loro veicoli, quando dovrebbe essere garantita l’imparzialità? E com’è possibile che accettino, in piedi sul tettuccio delle loro ambulanze, combattenti di Hamas esultanti e con mitra in mano?
Fa male rilevare che nel cosiddetto mondo occidentale si parli del conflitto senza veramente conoscere la situazione: opinionisti improvvisati definiscono addirittura i terroristi come guerrieri della libertà e parlano di “resistenza”. Sono una minoranza rispetto alla gente comune, ma fanno rumore e la conseguenza è il crescente antisemitismo.
Jessica Jasmine
Cercherò di chiarire quello che penso, perché non è facile e siamo ancora tutti con il fiato sospeso. Cosa accadrà veramente, superato questo momento di shock?
Vivo in un villaggio poco lontano da Gerusalemme; la nostra comunità è formata prevalentemente da famiglie musulmane, ma ci sono anche alcuni cristiani. I miei figli hanno frequentato la scuola di Neve Shalom, dove ebrei, musulmani e cristiani vivono insieme, e le mie figlie hanno studiato dalle Rosary Sisters, quindi in ambiente cattolico. Per quanto posso percepire negli ambienti a me vicini, i sentimenti generali più diffusi sono di sollievo e di timore, strettamente intrecciati tra loro. C’è un incredibile senso di apprensione in attesa di capire se veramente le ostilità si interromperanno e se la tregua verrà rispettata, così come le varie tappe dell’accordo.
So che nella società israeliana ci sono molte ipotesi su come fornire adeguato supporto psicologico e fisico agli ostaggi imprigionati per così tanto tempo nei tunnel di Hamas, e mi chiedo come questo sarà portato avanti a lungo termine. In Israele, i media sono decisamente polarizzati e le discussioni si focalizzano, in sintesi, su posizioni diametralmente opposte: chi vorrebbe proseguire la guerra e chi vuole trovare altre soluzioni. In questo clima di incertezza, la componente politica non aiuta, perché sembra cercare solo il consenso popolare.
Sui media ho visto le celebrazioni per la fine del conflitto a Gaza: anche là le persone necessitano di sollievo dopo mesi di pesanti bombardamenti e dopo una prolungata insicurezza. I problemi sono molteplici: riunire le famiglie, i cui membri sono stati evacuati dal nord della Striscia, capire dove sono i dispersi e chi è ancora vivo, cosa è accaduto a chi non c’è più; e, ancora, ritrovare la via di casa, identificare i resti di una vita lontana tra le macerie e, soprattutto, cosa fare d’ora in avanti.
Vedo che, da parte israeliana, ci sono persone che pensano anche ai palestinesi: Maoz Inon, per esempio, i cui genitori sono stati uccisi ad inizio conflitto. Le sue parole, riportate dalla stampa e in interviste, mi confortano e mi danno speranza.
Suor Maria
Alcune donne hanno sei figli, eppure sembrano ancora giovani. Ricamano. Fanno borsette, biglietti, scialli, tovaglie, borse, portachiavi, runner da tavola, cuscini. Intanto allattano i loro bambini, bambini che piangono e che sorridono, sempre presenti mentre conversiamo e durante le lezioni di cucito, sempre al loro fianco: i più piccoli sdraiati per terra, perché qui non hanno né passeggini né carrozzine, i più grandicelli a correre veloci nei vicoli del villaggio.
Eccole, sono le donne beduine nel deserto di Giuda che custodiscono la ricca tradizione del ricamo palestinese, patrimonio immateriale dell’umanità.
In queste vallate pietrose, la situazione economica è sempre più difficile e il conflitto è un pensiero costante. Nell’ultimo anno molte famiglie sono state costrette a vendere il loro gregge, anche se qualcuno ha ancora pecore e capre; dunque, il denaro ottenuto dalla vendita di oggetti ricamati è divenuto una fonte importante di sostentamento.
Il pensiero corre all’accordo di pace. Per le strade polverose intorno ai villaggi silenziosi non c’è nessuno, quando invece il traffico è sempre stato caotico. Dove sono tutti? Forse in attesa di notizie di una tregua che si teme precaria come la vita tra le colline inospitali.
Le madri ricamatrici nel deserto partecipano al dolore della guerra. E digiunano, ma attribuiscono al digiuno un valore diverso dal nostro: è una sorta di compartecipazione volontaria alla sofferenza, per riparare al male. Aspettano che la pace si intrecci con il terreno arido e fiorisca in questa Terra Santa.
Don Luigi Milani
Partirei dal senso dalla parola «perdono», parola che il Vangelo ci regala. Se andiamo alle fonti – e la nostra fonte, come cristiani, è innanzi tutto il Vangelo – vi leggiamo che al male non si risponde con altro male, ma con il bene.
I cristiani in Terra Santa si collocano in questa prospettiva. Nella tragedia della guerra, musulmani ed ebrei ci vedono come il classico «ago della bilancia» e ci chiedono di non parteggiare né per una parte né per l’altra. Proprio perché minoranza – circa l’1 per cento della popolazione israeliana complessiva – ci è chiesto di essere mediatori di dialogo: possiamo fare la differenza e anche essere un valore aggiunto, perché stiamo dando dimostrazione efficace di unità, e abbiamo saputo superare le lotte che in passato hanno caratterizzato le nostre confessioni. Ne sono esempio le numerose iniziative di preghiera per la pace e i gesti di amicizia personale soprattutto tra i vertici del Patriarcato greco-ortodosso, copto e la Custodia cattolica, ben oltre i protocolli istituzionali.
Ulteriori riflessioni ci vengono offerte dalle parole del Custode Francesco Patton quasi al termine del suo servizio – «siamo come tessere di un unico mosaico, uniti da tanti gesti di solidarietà e carità fraterna» – e da quelle di Bartolomeo I, Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, primus inter pares della comunità mondiale greco-ortodossa, circa l’auspicio di una celebrazione comune della Pasqua, circostanza che si verifica proprio in quest’anno drammatico: 2025.
È un paradosso: dalla guerra scaturisce qualcosa di buono se continueremo a dare segnali di solidarietà, carità e preghiera comune, a partire da qui, da Gerusalemme, madre di tutti i popoli – a cui tutti popoli, un giorno, ritorneranno con gioia – come leggiamo nei Salmi e nei Profeti.






