Italia: l’intesa Stato-Chiesa ortodossa romena

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ortodossi rumeni

Il 27 gennaio è stata siglata l’intesa fra governo italiano e diocesi ortodossa romena. L’hanno firmata per il governo il sottosegretario A. Mantovano e per la diocesi il vescovo Siluan. Toccherà ora al parlamento l’approvazione definitiva. È la quattordicesima intesa stato-confessioni e religioni.

Le altre sono: Tavola valdese (1984); Assemblee di Dio (1986); Unione delle Chiese cristiane avventiste del 7° giorno (1996); Unione delle comunità ebraiche in Italia (1996); Unione cristiana evangelica battista d’Italia (1993); Chiesa evangelica luterana in Italia (1993); Sacra arcidiocesi ortodossa d’Italia ed esarcato per l’Europa meridionale (obbedienza costantinopolitana) (2007); Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni (2007); Chiesa apostolica in Italia (2007); Unione buddista italiana (2007); Unione induista italiana (2007); Istituto buddista italiano Soka Gakkai (2015); Associazione Chiesa d’Inghilterra (2019).

300 preti e 285 parrocchie

Alla Chiesa ortodossa romena si addebitano il milione di persone di origine romena che vivono in Italia. È la presenza romena più consistente in Europa occidentale. L’insieme della popolazione in Romania è di circa 20 milioni. I contenuti dell’intesa sono simili alle precedenti. Si parla di «intese fotocopia».

Nel contesto della libertà religiosa voluta dalla Costituzione si garantisce alla diocesi romena: autonomia e non ingerenza nelle nomine dei ministri di culto; libertà di azione dei ministri e salvaguardia del segreto professionale; possibilità di insegnamento scolastico fuori degli orari e senza oneri per lo stato; effetti civili del matrimonio religioso; riconoscimento di personalità giuridica agli enti che fanno capo alla diocesi (la diocesi lo ha già ricevuto nel 2011); concorso della diocesi alla ripartizione dell’otto per mille.

La diocesi conta 285 parrocchie organizzate in 24 decanati. Ad essa fanno riferimento quattro monasteri e tre eremi. Il clero diocesano conta circa 300 preti (attivi anche a Malta e a San Marino). I sacerdoti sono pagati dal governo romeno e dalle comunità. Secondo la tradizione ortodossa, sono sposati. Accanto all’attività pastorale, missionaria e catechetica la diocesi svolge attività sociali e di carità coordinate in cinque dipartimenti (malati, poveri, migranti, famiglie e carcerati).

Le chiese per il culto sono in minima parte di proprietà. In generale sono concesse a titolo gratuito dalle diocesi cattoliche, dai comuni e da altri proprietari. Piuttosto intensa l’attività di formazione (clero e laici), di comunicazione e di editoria.

La fede dei migranti

Mons. Siluan ha la responsabilità pastorale dal 2004, prima come vicario per l’Italia della metropolia ortodossa romena dell’Europa occidentale e poi come vescovo della diocesi dal 2008. Ha agito con efficacia sia nell’organizzazione della vita religiosa per i migranti sia nel rapporto con la Chiesa cattolica e le istituzioni.

Mentre in Romania gli spazi dell’ecumenismo si chiudono e la Chiesa ortodossa celebra con sfarzo il centenario del patriarcato rendendosi estranea dalla crisi della democrazia (cf. qui su SettimanaNews) a Roma emerge un riconoscimento di libertà, di status e di rilevanza pubblica.

Gerarchia e clero della diocesi romena dipendono dal sinodo di Bucarest e difficilmente possono diventare, come ha scritto Marco Ventura su «La lettura» del Corriere della sera del 9 febbraio, «il laboratorio di un nuovo cristianesimo ortodosso alternativo a quello del patriarcato di Mosca».

Non è riuscito alla straordinaria concentrazione di testimoni di fede e intelligenze teologiche della Chiesa ortodossa di tradizione russa operante in Europa dall’inizio del Novecento, ora rientrata nell’obbedienza moscovita. Diventa azzardato investire di questo compito la Chiesa romena che non ha ancora fatto i conti con la storia del secolo scorso, e una diocesi che ha una vita così breve, potendo contare solo su una filiale romana della facoltà di teologia di Bucarest e di un centro studi per la formazione dei preti.

Senza con questo negare l’originalità e la possibile creatività di una Chiesa in diaspora in un contesto relativamente accogliente come quello italiano.

Legge sulla libertà religiosa

L’intesa è un passo importante per una comunità religiosa, ma è anche uno strumento giuridico non privo di ambiguità in assenza di una legge sulla libertà religiosa, pur garantita nei suoi elementi essenziali dal dettato costituzionale. Lo hanno ricordato i relatori di un convegno organizzato a Como nell’ottobre scorso dal prof. Alessandro Ferrari (cf. qui su SettimanaNews).

In occasione di quarant’anni dalla prima e fondamentale intesa con i valdo-metodisti (1984) i protagonisti di allora e i ricercatori di oggi hanno ricordato l’importanza dell’intesa come momento di affermazione della libertà religiosa e di riconoscimento delle confessioni non cattoliche, ma anche l’avvio di un impianto che usa due pesi e due misure (chi è dentro le intese e chi è fuori) e che non è in grado di esaudire e definire tutti i rapporti fra stato e religioni. Lo testimonia la storia di una intesa mai arrivata a destinazione come quella riguardante i Testimoni di Geova e la difficile e irrisolta relazione giuridica con le comunità islamiche nel nostro paese.

Problemi su cui torneranno a confrontarsi gli esperti in un prossimo convegno a Roma alla Camera dei Deputati il 19 febbraio. Sempre partendo dai 40 anni della prima intesa e grazie alla promozione della commissione delle Chiese evangeliche per i rapporti con lo Stato si tornerà a riflettere sulla situazione della libertà religiosa in Italia.

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