Inverno liquido

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Michele Nardelli, formatore e saggista, è stato presidente del Forum trentino per la Pace e i Dirittiumani e co-fondatore dell’Osservatorio Balcani-Caucaso. È stato consigliere della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol. È autore di vari libri sui temi della pace, della cooperazione, della cura dell’ambiente. Il 28 marzo scorso ha dialogato a Mantova col locale gruppo Laudato si’ sui contenuti del libro Inverno liquido. La crisi climatica, le terre alte e la fine della stagione dello sci di massa (qui). L’autore ha risposto alle seguenti domande.

  • La Marcialonga 2025 sarà ricordata per le temperature particolarmente elevate che hanno reso un’impresa arrivare con gli sci al traguardo di Cavalese. È una delle evidenze del cambiamento climatico indotto dalla logica del consumo di massa e della crescita senza limiti, delle colate di cemento e dei fiumi di denaro pubblico, spesso inquinati dal malaffare. Qual è il filo che unisce questi fatti, descritti nel suo libro?

Il libro è nato da una proposta di Maurizio Dematteis: il direttore di Dislivelli stava lavorando ad un’inchiesta sull’impatto del cambiamento climatico sull’industria dello sci nelle Alpi occidentali. Mi chiese di estendere questo lavoro all’intero arco alpino. Gli proposi di indagare tutte le terre alte della Penisola e così è stato: ecco, quindi, una ricognizione che, in un anno e mezzo di lavoro, ha riguardato il nostro Paese, dalla Val d’Aosta alle Madonie.

Questo libro ha significato mettersi in ascolto della sofferenza dei territori, delle difficoltà e delle prerogative delle terre alte attraverso la testimonianza di decine e decine di interlocutori, con cui ci siamo confrontati sullo stato delle cose e sul futuro.

Per questo Inverno liquido è un libro collettivo, scritto a più mani, non solo le nostre. Nasce da qui l’impegno riportato a pagina 26 del libro, ove si legge: «Non ci si salva da soli. Occorre incrociare gli sguardi, condividere le conoscenze, tessere le trame di alleanze ampie e plurali, dando vita a sempre più strutturate comunità di pensiero e azione. Per essere interpreti di un cambio di paradigma non più rimandabile. Per pensare insieme il mondo a venire. Questo libro va inteso come un numero zero, il primo passo di un collettivo di scrittura attorno ai nodi del passaggio di tempo che stiamo attraversando».

Parole impegnative, che hanno preso corpo nel gruppo promotore delle 133 presentazioni sinora realizzate, che hanno visto il coinvolgimento di circa 6.000 persone.  È sorto, quindi, un Collettivo che è già al lavoro nella scrittura di tre nuovi volumi nell’ambito di una Collana dedicata all’impatto delle crisi sugli ecosistemi.

Con la tragedia Vaia – il ciclone extratropicale che a fine ottobre 2018 distrusse in poche ore 42.500 ettari di foreste dolomitiche, di cui abbiamo parlato in Il monito della ninfea – e con gli eventi estremi che segnano il presente, compresa la Pandemia da Covid-19, avremmo dovuto imparare che le tante crisi  – climatica, sanitaria, ambientale, alimentare, idrica, energetica, migratoria, demografica, bellica ed altro ancora – sono profondamente intrecciate fra loro, con un impatto enorme sulla vita degli ecosistemi.

Perciò dovremmo superare tanta indifferenza che ancora c’è, e prestare attenzione e cura a ciò che accade in questa casa comune – con la rapidità con cui tutto questo si manifesta – secondo la perentoria esortazione di Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’.

Già negli anni ’80 Enzo Tiezzi, uno dei padri dell’ambientalismo, parlava del tendenziale disallineamento fra tempi storici e tempi biologici, laddove nelle nostre brevi vite accadono cambiamenti che in precedenza avvenivano in ere geologiche, tanto è vero che assistiamo alla fusione dei ghiacciai alpini formatisi nell’ultima piccola glaciazione, più di 14.000 anni fa.

Gli scienziati concordano sul fatto che, entro il vicino 2050, i ghiacciai alpini sotto i 3.500 m. di altitudine non esisteranno più. E l’impatto di tale rovesciamento avrà effetti ancora largamente imprevedibili.

  • Lei usa l’espressione “non più ma non ancora”, per inquadrare il tempo che stiamo vivendo: cosa vuol dire?

Scriveva Hannah Arendt, nel 1954: «Avrebbe un certo peso notare come l’esortazione a ritornare al pensiero sia stata formulata nel corso di quello strano interregno che si produce talvolta nel corso della storia, quando non soltanto gli ultimi storiografi, ma anche gli attori e i testimoni, i viventi stessi, diventano consci di vivere in un tempo completamente determinato dalle cose che non sono più e da quelle che non sono ancora. La storia ha mostrato più di una volta che in questi intervalli può trovarsi il momento della verità».

Se oggi ci interroghiamo, talvolta con angoscia, sull’incertezza dei tempi per effetto dell’impronta insostenibile del nostro modello di sviluppo, significa che siamo ancora immersi nel delirio delle magnifiche sorti progressive dello sviluppo – “non più” – ed un futuro che ancora fatica a delinearsi, il nostro “non ancora”.

Guardiamo, ad esempio, alla crisi del modello industriale dello sci: la monocultura economica dello sci di massa – una vera e propria industria – ha marginalizzato buona parte delle attività economiche altre – culture e saperi del territorio – producendo lo sviluppo incontrollato dell’edilizia e la dimensione speculativa che l’accompagna, con pesanti infiltrazioni di criminalità organizzata.  Così, progressivamente, si è andata erodendo l’agricoltura e l’economia di montagna, col suo pascolo, la produzione artigianale, e lasciando i territori depauperati in balia degli eventi climatici.

Molti lo negano, ma è ormai indiscutibile che la cosiddetta linea di affidabilità della neve (LAN) – misurata in 30 cm di neve per una stagionalità di almeno 100 giorni – è destinata a salire di quota di 150 metri per ogni grado medio di aumento della temperatura: il che significa che, prevedibilmente, il LAN nel 2050 crescerà rispetto ad oggi di altri 450 metri, mettendo fuori gioco gran parte delle strutture sciistiche alpine ed appenniniche.

La risposta che viene data dall’attuale sistema è quella dell’innevamento artificiale, che richiede ingenti quantità di acqua – bene sempre più prezioso e sempre meno disponibile -, ed energia – sempre più costosa – per produrre basse temperature in assenza delle quali non c’è neve che tenga.

Dovremmo, allora, riconoscere che è finito un modello di sviluppo ed è finito un tempo: una nuova idea si deve affermare e praticare – sin d’ora – per non andare incontro a ulteriori disastri.

***

  • Quali sono le sue idee sul futuro della montagna, sul turismo “dolce”, sul turismo “relazionale”?

In Inverno liquido raccontiamo molte esperienze che in ogni regione e valle si stanno realizzando all’insegna della sostenibilità. Un esempio per tutti è quello della Val di Funes, nel Parco naturale Puez-Odle in Alto Adige /Südtirol: un’esperienza che abbiamo definito di “turismo relazionale”.

Si è partiti da un esempio di biodiversità – quello della pecora con gli occhiali tipica della zona e oggi, altrimenti, in via di estinzione – per tutelarla valorizzandola, attivando filiere dell’artigianato e della ristorazione, organizzando produttori e ricettività.

L’apertura dei piccoli masi ai turisti ha come effetto la conoscenza e la sperimentazione di piccole esperienze di condivisione della vita quotidiana delle famiglie del posto. Vivere, anche per un breve tempo, in un maso, può essere un’esperienza profonda, di autentico arricchimento degli ospiti, per un turismo ricco di relazioni che risponda alla domanda: “che cosa ti porti a casa dalla tua vacanza?”.

Queste sono esperienze ancora limitate, ma che rappresentano una offerta crescente, per chi non intende rinchiudersi in un anonimo resort alla ricerca sempre più esasperata di performance sportive individuali. Ciò vale per le Alpi, come per gran parte dell’Appennino, ove il vecchio modello ha prodotto cose inguardabili: al Sestriere come a Campitello Matese.

  • Leggendo il libro, ci ha colpito la presentazione di quella indifferenza – comunque colpevole – che diventa “cultura sociale”: cos’è?

Spesso scegliamo di non sapere, di rimuovere, poiché la conoscenza consapevole ci infastidisce, produce un certo dolore. Un tale sentire porta a quel genere di indifferenza sterile di cui parlo, anche di fronte alle tragedie e agli eventi estremi, oppure davanti all’evidente bruttezza di enormi manufatti in cemento che nulla hanno a che vedere con l’ambiente circostante.

Non si è ancora esaurita, infatti, la tendenza a trasferire in montagna il modello urbano, come nel caso del Sestriere, ma gli esempi possono essere numerosi altri. L’idea-guida è ancora quella dei “divertimentifici”, luoghi senz’anima inventati per sfruttare l’economia del turismo di massa. È, evidentemente, un’idea estranea a quella della montagna quale luogo di seria riflessione sulle sorti dell’umanità.

Ho davanti agli occhi un’immagine plastica dell’indifferenza: SUV carichi di turisti della neve, sfreccianti davanti al lago di Carezza, dopo che la furia del vento aveva spazzato via buona parte delle foreste intorno: sguardo che avrebbe meritato almeno un momento di raccoglimento, se non di preghiera.

  • Cosa ne pensa dell’Olimpiade invernale Milano-Cortina nel 2026?

Milano e Cortina? Nulla di nuovo! Se pensiamo che il Presidente della Regione Veneto definiva le Dolomiti montagne di Venezia! Venezia è semmai costruita sul legno dei boschi dolomitici, cosa che non dovremmo mai dimenticare.

Di nuovo, la città e la montagna: la montagna come la città. Gli amici di Belluno ne sanno qualcosa. Si è festeggiata l’assegnazione delle Olimpiadi invernali 2026 senza dire che tutti i concorrenti si erano nel frattempo ritirati. Dovevano essere, secondo il CIO – ilComitato Olimpico Internazionale – le Olimpiadi della sostenibilità, nel senso dell’utilizzo delle strutture già esistenti, mentre non si è fatto a meno di costruirne di nuove e di costose, con infrastrutturazioni che col futuro non hanno nulla a che fare. Penso alla pista da bob a Cortina: 121 milioni di euro per un’attività che coinvolge nel nostro Paese non più di una quarantina di atleti; oltre all’impatto ambientale tutt’altro che sostenibile.

Lo spirito olimpico dovrebbero valicare sempre “le frontiere”, eppure la proposta avanzata da Innsbruck di avvalersi della pista austriaca, senza devastare boschi e ad un costo decisamente inferiore, non si è voluta prendere nemmeno in considerazione. Cosa sarà, dunque, di questa pista una volta concluse le Olimpiadi 2026? La manutenzione avrà un costo preventivato in 1,4 milioni di euro all’anno, a carico del Comune di Cortina.

Purtroppo, anche nello sport, prevale la logica delle grandi imprese e dei lauti profitti, a danno del bene comune. Una situazione analoga è quella prodotta dalla realizzazione della superstrada – a pagamento – Pedemontana Veneta, costata 12 miliardi allo Stato per 94 km, con ingente consumo di suolo.

Non si è imparato nulla neppure dalle Olimpiadi invernali di Torino del 2006: ad esempio dal debito che ancora pesa sulla Regione Piemonte.

***

  • Dalle terre alte la invitiamo a scendere alla nostra pianura. Qui le sue considerazioni si fanno particolarmente toccanti, in riferimento, ad esempio, al fiume Mincio. Cosa ne dice?

Io abito all’inizio della Valle dei Laghi, che si sviluppa fra Trento e il Lago di Garda. È un ecosistema unico e delicato, ove crescono naturalmente il leccio e l’ulivo, il limone e la vite. Una biodiversità di cui ha parlato con ammirazione e commozione Goethe nel suo Viaggio in Italia.  Là si incontra l’ecosistema mediterraneo con quello alpino, dando vita ad un ambiente particolare, che segna il fondovalle come le montagne che lo circondano: il sistema montuoso del Bondone e del Monte Baldo.

Questo ecosistema negli anni è stato messo a dura prova dalla costruzione di centrali idroelettriche e da operazioni che si sono tentate come la centrale di rigenerazione che qualcuno voleva realizzare fra il Garda e il Monte Altissimo, grazie al cielo fermate. Lo stesso si deve dire dell’effetto della navigazione a motore nel Garda (proibita solo nella parte trentina) o degli effetti inquinanti delle operazioni militari della base NATO di Ghedi, o della sottrazione d’acqua per l’agricoltura intensiva e per l’innevamento artificiale.

Al Mincio andrebbe garantito un deflusso minimo, che purtroppo non è affatto scontato. Questo è il tema che, nel libro, abbiamo definito “guerra dell’acqua”. L’idea nefasta è di chi, a monte, ritiene di essere proprietario dell’acqua del fiume e di poterne regolare il flusso a piacimento. Ma non può essere così: l’acqua è un bene comune e la pianura ha diritto di poter disporre dell’acqua per la vita delle persone, per le coltivazioni e per l’ambiente. Occorre avere – come sempre dovrebbe essere – uno sguardo ecosistemico.

  • Cosa dobbiamo intendere per la tanto declamata “sostenibilità”? Siamo ancora in tempo per costruire un modello davvero sostenibile di sviluppo?

Nel 2024 abbiamo superato l’aumento medio di 1,5°C della temperatura globale rispetto all’era preindustriale, valore che gli Accordi di Parigi del 2015 consideravano soglia da non superare per evitare situazioni catastrofiche. Se arriveremo a 2,0°C di incremento, si presenteranno forti aspetti di imprevedibilità, come confermato dall’IPCC dell’ONU.

È difficile dire se siamo ancora in tempo per costruire un modello veramente sostenibile di società. Certo è che siamo già andati troppo oltre e che, prima invertiamo la rotta, meglio è per tutti, come osservava Laura Conti, pioniera dell’ecologismo italiano: «Da qui in avanti il momento in cui è più facile fermarsi è ora. Ora è più difficile di ieri, ma è più facile di domani».

Dobbiamo fare intimamente nostro il concetto di limite: evidentemente temiamo questa parola, ed invece dovremmo apprezzarne la bellezza: tornare sui nostri passi ci farebbe vivere meglio.

Per ogni cosa dovremmo capire, non solo se si può fare ora, ma soprattutto se, facendola, pregiudichiamo il futuro: il futuro dei giovani di oggi, il futuro dell’ecosistema. Dobbiamo vivere nella consapevolezza di stare in un mondo limitato, perché un altro mondo non c’è.

Chi pensa che il mondo sia modellabile ad uso e consumo o pensa di abbandonare questo per andare su un altro pianeta, in realtà afferma l’assenza di futuro per tutta l’umanità. Dovremmo ricordare che stiamo attualmente consumando 1,8 volte ciò che gli ecosistemi terrestri sono in grado di produrre annualmente.

Noi – esseri umani – non siamo padroni del mondo: siamo solo una parte infinitesima dello stesso mondo naturale. Siamo parte e abbiamo bisogno della Natura, non viceversa. Dobbiamo vivere meglio e con meno, investendo enormemente su ciò che davvero conta per la vita: prendendoci cura dell’ambiente, dei poveri, e, con ciò, di noi stessi.

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Un commento

  1. Ornella Crotti 10 aprile 2025

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