
Centro di Beirut prima dell’inizio della guerra civile il 13 aprile 1975.
Chronicle of a war di Joseph G. Chami è un prezioso volume illustrato con foto d’epoca che ricostruisce tutto il tragico percorso dell’interminabile guerra civile libanese, giunta finalmente al suo capolinea nel 1990.
In copertina è specificato che la guerra cominciò nel 1975, ma la scintilla d’avvio, quel 13 aprile di cinquanta anni fa, arriva soltanto a pagina 24. Anche quell’alba di guerra non è giunta improvvisa quel giorno, come tutte è preceduta da una lunga aurora, e il racconto di Chami parte dal primo gennaio di dieci anni prima, quando il movimento palestinese Fatah lanciò la prima azione contro Israele dal territorio libanese.
La guerra che contiene tutte le guerre
Resistendo alla tentazione di saltare le pagine iniziali e correre al raconto bellico si nota che l’autore apre il suo testo con questa citazione presa dall’Osservatore Romano: «Se il Libano oggi muore non saremo al cospetto di una morte naturale, ma di un assassinio». Questo, dal mio punto di vista ovviamente, non vuol dire che ci sia stato un assassino, ma tanti assassini, perché quella guerra ha contenuto tante guerre.
Un grande intellettuale libanese maronita, Samir Frangieh, insignito della Legione d’Onore poco prima di morire nella sua Beirut, a causa della gravità delle sue condizioni e dell’importanza attribuita dalle autorità francesi alla sua azione culturale in favore del dialogo e del vivere insieme, ha spiegato così questo cocktail di guerre: «La guerra libanese è stata ricca di insegnamenti, perché la violenza non obbedisce alle norme conosciute. E infatti la nostra non è stata una guerra d’indipendenza o una guerra identitaria, o una guerra etnica, o una guerra comunitaria. È difficile classificarla perché è stata una guerra che comprende tutte queste guerre.
È stata una guerra tra Stati, ma anche una guerra di liberazione nazionale, una guerra comunitaria, tra cristiani e musulmani, ma anche una guerra civile all’interno delle comunità. È stata la guerra di Israele nel nome del suo progetto di alleanza delle minoranze contro la maggioranza musulmana, ma anche la guerra della Siria nel nome della Grande Siria nelle sue frontiere storiche. I nomi per classificare questa guerra variano da una fase all’altra, l’unica costante è la violenza, alimentata dalla memoria storica caricata di tutti i malesseri del passato. Ecco perché “violenza” è la parola rimossa.
Si parla di aggressione, reazione, complotto, rappresaglia, legittima difesa, resistenza, vendetta… Anche i concetti che noi di sinistra usiamo attualmente, e cioè “lotta di classe”, “guerra di liberazione nazionale”, “violenza rivoluzionaria”, dimostrano tutti i loro limiti. Il fatto è che la violenza ha un valore mimetico, come spiega René Girard, così che ognuno diviene il doppio speculare del suo antagonista.
La violenza dunque si fonda sulla reciprocità, ma sommando momenti non reciproci: perché gli antagonisti non occupano mai la stessa posizione contemporaneamente, ma successivamente. Ecco allora che solo una rinuncia incondizionata alla violenza può salvarci dalla “violenza mimetica”. Queste idee di René Girard hanno dato un nuovo indirizzo al mio impegno per il dialogo. Tra cristiani e musulmani, tra libanesi e libanesi, tra libanesi e siriani.
Per fermare la violenza infatti cosa dobbiamo fare? Raggiungere un cessate il fuoco? Fare la pace? Ma quale pace? Una pace gloriosa, la pace dei coraggiosi, o una pace banale, meschina? E in questo caso che fine faranno i grandi principi nel nome dei quali ci siamo allegramente massacrati per decenni? Mi è servito molto tempo per capire che il contrario della “violenza” non è la pace, cioè la pace tra comunità, ma il legame, il legame tra individui appartenenti a diverse comunità o gruppi.
Così ho capito che pacificato il Paese, l’obiettivo del nostro dialogo non doveva più essere quello di cercare un compromesso, ma di definire un progetto di vita in comune. Ecco l’idea del vivere insieme, profondamente diversa da coesistenza comunitaria».
Il centro di Beirut: un’anima cosmopolita
A tutte queste guerre ne possiamo aggiungere un’altra, quella contro Beirut. Il centro di Beirut è uscito devastato dalla guerra civile, sbriciolato; le pur gravi condizioni in cui si sono ritrovati i diversi quartieri, quasi tutti a netta prevalenza confessionale della città, non erano così irrecuperabili. Il centro aveva un suo stile, urbanistico e architettonico, che potremmo definire ambiguo, promiscuo. C’erano i classici mercati arabi, i suq, ma anche palazzi con affaccio dall’aria europea. E la mappa urbana era fatta un po’ sullo stille della casbah, ma anche da grandi arterie, o strade all’europea.
In più c’era uno stile architettonico ottomano, ispirato anche a modelli europei. I più identitaristi, come certi miliziani della destra cristiana, non lo apprezzavano: volevano una scelta netta, europea. Dunque un pezzo di guerra è stata contro il “centro di tutti”, identitariamente misto, promiscuo. Questa guerra, a pensarci bene, ha un precedente, che risale al tempo del colonialismo francese, quando si tentò di impiantare su quel centro cittadino, da una mappa molto chiara, una novità assoluta, Place de l’Etoile.
Come quella francese, doveva essere una piazza circolare dalla quale partivano, come raggi di luce, dei viali distesi. L’impresa è miseramente fallita perché resti archeologici e luoghi di culto storici, chiese e moschee, hanno impedito la costruzione di quei raggi già dopo poco decine di metri. Ma la piazza c’è ancora, orfana.
Dunque se ci facessimo l’idea che il Novecento è stato un secolo identitario e quindi in guerra con Beirut, con la sua anima cosmopolita, potremmo non sbagliare. E se guardiamo alle guerre successive vediamo che il centro di Beirut è rimasto sotto attacco.
Nel 2007 Hezbollah lo ha addirittura posto sotto assedio, impedendo qualsiasi fruizione commerciale: da affollatissimo è diventato deserto, prima erano tornati a incontrarsi lì tante persone persone, giovani, nuclei familiari di ogni fede, poi con la scusa di impedire al primo ministro, loro rivale, di operare, hanno tentato di assassinarlo di nuovo. E nel 2020 sempre Hezbollah ha determinato l’esplosione del porto di Beirut, che si è portata via interi vecchi quartieri.
Il secolo lungo
Il rapporto con Beirut di un secolo troppo lungo, che ancora perdura, non è certo stato felice. Dunque questa città ha il modo dire all’infelicità araba che per trovare un’altra strada, un altro futuro, bisogna guardare altrove, all’Ottocento. E cosa c’è stato al centro dell’esperienza urbana di Beirut nell’Ottocento?
Tante cose: una grande esperienza culturale araba, la Nahda, che recepiva la grande novità culturale esportata dall’Europa, l’idea di “nazione”, non come ideologia, ma come pratica che presuppone indipendenza, rifiuto del sistema feudale e sovranità che viene dal basso. Poi il colonialismo ha detto tutt’altro, anzi ha detto l’opposto, e il nazionalismo si è trasformato in identitarismo settario. Questo è proprio il contrario di ciò che ha vissuto Beirut quando da piccola fortificazione senza attracco sul mare e diventa una città con un porto invidiabile.
È accaduto dopo il 1860, quando la guerra civile sul Monte Libano portò tantissimi a fuggire da quei sanguinosissimi scontri tribali. E dove andarono tutti questi fuggiaschi impauriti? A Beirut, lì vicina, adagiata sul mare. Si aprivano possibilità di guadagni, di commerci che grazie al vapore assumevano dimensioni prima impensabili. Occorrevano aiuti. Fu così che dall’interno di queste comunità che vivevano in una sorta di guerra fredda dentro la città, nacque l’idea di una petizione comune al Sultano per fare di Beirut la capitale di un’istituenda provincia costiera.
Ottanta notabili, espressione di tutte le comunità religiose, la firmarono insieme. È stato questo l’atto di nascita di una grande città cosmopolita. Altri eventi oggi sorprendenti hanno avuto luogo in quegli anni: l’affermarsi di riviste, giornali di informazione cittadina, riviste letterarie, con reportage su eventi o visioni europee. Con essi sono emerse una borghesia urbana e una classe operaia, soprattutto portuale, sindacalizzata.
Ecco perché un grande figlio di Beirut, l’intellettuale di fama mondiale Samir Kassir, l’ha definita metropoli araba, mediterranea, occidentalizzata. Beirut indica non solo al Libano la via di un diverso futuro, che ponga fine agli errori di questo interminabile Novecento. Credo che per parlare di dialogo islamo-cristiano sia necessario ripartire da qui, dalla storia di una città che si è autoprodotta.





