
L’incontro del Patriarca di Serbia Porfirio con Putin e Cirillo, Mosca, 22 aprile 2025
C’è un momento del viaggio trionfale del patriarca Porfirio di Belgrado a Mosca (21-26 aprile) in cui sembra consumarsi ogni apertura verso la «rivoluzione sociale» avviata dagli studenti serbi il 1° novembre 2024 dopo il crollo della pensilina della stazione ferroviaria a Novi Sad e i suoi 15 morti, diventai poi 16 (cf. su SettimanaNews).
Nel dialogo fra Vladimir Putin, il patriarca Cirillo e Porfirio, la sintonia e la vicinanza delle due Chiese si trasformano in una consonanza politica. Il gerarca di Belgrado qualifica lo straordinario movimento popolare – le inchieste parlano di un consenso all’80% – come «rivoluzione colorata». La definizione già condivisa dal presidente serbo Alexsandar Vučić, è la più allarmante per le orecchie russe, in particolare dopo il caso ucraino.
La conversazione, resa pubblica dai siti ufficiali, si avvia con l’intervento di Putin che apprezza la sintonia delle due Chiese e dei due popoli e attende il presidente serbo per la celebrazione della vittoria della «grande guerra» (Porfirio specifica che la presenza di Vučić è sicura «a prescindere da qualsiasi circostanza in Europa»). Aggiunge un importante consenso al Sabor, l’assemblea del «mondo serbo» che, l’8 giugno 2024, ha raccolto rappresentanti di Serbia, Repubblica serba in Bosnia-Erzegovina e dell’area della Metochia nel Kosovo (cf. qui su su SettimanaNews).
La rivoluzione serba è «colorata»
Porfirio risponde apprezzando Putin «per tutto ciò che fa a livello di valori» e per le relazioni «d’amore e cooperazione» fra le due Chiese. Cita il detto del suo predecessore Ireneo: «Il nostro piccolo battello, navigando in un mare agitato, deve sempre essere vicino alla grande nave russa».
«Il popolo serbo considera il popolo russo come un solo popolo. Succede persino che la speranza sia grande fra i serbi, in dipendenza anzitutto dalla Russia, dalla politica russa più che dalla politica serba. Anche se può sembrare un paradosso». Ricorda anche la valutazione dell’attuale patriarca di Gerusalemme, Teofilo III, che considera Putin la «carta vincente» per l’ortodossia.
La preoccupazione maggiore è per la Metochia, l’area del Kosovo che raccoglie i luoghi fontali per la tradizione ortodossa serba. Riconosce che Cina e Russia hanno garantito finora che la situazione non precipiti. «Le chiediamo di tenere ferma questa posizione e fare tutto il possibile. Perché, al di là della politica, indipendentemente dalla gente e dalle informazioni che abbiamo, senza il Kosovo e senza la Repubblica serba il popolo serbo non avrebbe più prospettiva».
La situazione del Kosovo, della Repubblica serba e del Montenegro «dipende anche dalla posizione dello stato russo, della Federazione russa a livello globale. La mia attesa e quella della maggioranza della nostra Chiesa è che, per l’avvenire, se ci fosse una nuova divisione geopolitica, è quella di essere vicini nella sfera russa».
Ireneo di Bačka, seduto a fianco del patriarca, specifica «nel mondo Russo», nel Russkji Mir. «Si, nel mondo russo, nel mondo ortodosso. Abbiamo parlato dell’Ortodossia con sua santità (Cirillo). Non è semplice. Abbiamo anche in questi giorni una rivoluzione. Come dire?», «colorata» specifica Ireneo di Bačka. «Una rivoluzione colorata, come sapete. Spero che riusciamo a superare tale tentazione. Perché sappiamo e avvertiamo che i centri di potere occidentali non vogliono sviluppare l’identità del popolo serbo né la sua cultura».
Uniti contro l’Occidente
Le delegazioni delle due Chiese erano ai massimi livelli. Se, a fianco del patriarca Cirillo, vi era il «numero due», il metropolita Antonio, responsabile per le relazioni internazionali, accanto a Porfirio vi era il già citato vescovo Ireneo di Bačka, l’uomo forte del sinodo serbo, accanito sostenitore della Russia e consumato polemista nel dibattito pubblico. All’incontro con Cirillo e i maggiorenti della Chiesa russa è seguito il ricordato dialogo con il presidente Putin.
Nei giorni seguenti Porfirio ha vistato la chiesa e la rappresentanza serba a Mosca, il monastero di Donskoj, quello di Savvino-Storozhevsky, la lavra della Trinità nella capitale e ha ricevuto le più alte onorificenze ecclesiastiche oltre alla laurea honoris causa dell’accademia teologica di Mosca. All’insistenza sulla collaborazione fra le due Chiese in particolare negli studi teologici si è aggiunta costantemente l’esigenza serba di custodire e gestire le presenze monastiche nella Metochia.
Martellante è stato l’accento sulla distanza e la contrapposizione con l’Occidente. Dopo la comune esperienza della persecuzione comunista, le due Chiese, secondo Cirillo, sono concordi «nella comprensione di quella che deve essere la missione pastorale indirizzata all’uomo contemporaneo. Benché oggi non vi siano le persecuzioni dei regimi totalitari, quello che sta succedendo nell’intersezione fra vita ecclesiale e secolare rappresenta ugualmente un certo pericolo. Falsi ideali e false finalità legate all’attesa di un alto livello di vita e di benessere materiale appaiono davanti alla gente. Allo stesso tempo, i valori spirituali e morali legati al cristianesimo sono collocati ai margini. Per questo il lavoro missionario e teologico comune delle nostre Chiese fraterne è oggi molto richiesto […] C’è uno scontro fra il cristianesimo e l’intera cultura occidentale moderna che si è completamente trasformata in una cultura secolarizzata e atea».
Il rapporto con la Chiesa serba è speciale. Essa è la più vicina fra tutte le Chiese ortodosse. Porfirio conferma il giudizio negativo sull’ethos contemporaneo; «si accolgono valori non solo per nulla spirituali, ma spesso direttamente anti-evangelici. Sappiamo che, talora, alcune scuole teologiche sono influenzate dall’opinione pubblica mondiale e da una certa ideologia, spesso anti-cristiana».
In tutti i discorsi, saluti e incontri non vi è un solo accenno alla realtà della guerra che, da tre anni, insanguina Russia e Ucraina. A testimonianza di un nervo scoperto che nessuno delle due parti ha voluto o potuto toccare.
Sorprendente protesta
Al di là dei fasti moscoviti, la realtà della tensione sociale e politica in Serbia non accenna a schiarirsi. Il crollo della pensilina della stazione di Novi Sad è stata all’origine di un imponente movimento sociale tanto pacifico quanto pervasivo. L’episodio concentra contraddizioni endemiche: la corruzione (dal preventivo di 1,9 milioni di euro a un consuntivo di 435 milioni), le collaborazioni politiche discusse (l’opera è ascrivibile agli investimenti della «via della seta» con il contributo cinese), le zone oscure dell’amministrazione (disegni, preventivi, stato dei lavori, verifiche ecc. scompaiono all’indomani della tragedia), i favoritismi politici (aziende vicine al partito di maggioranza).
Anima del movimento sono gli studenti. In poche settimane, oltre la metà delle università del paese sono bloccate dagli scioperi e anche gli studenti delle superiori avviano il sistema del blocco di ponti, strade e luoghi pubblici per quindici minuti di silenzio. Oltre alla capitale, duecento piccole e grandi città vedono moltiplicarsi le proteste.
I trattori dei contadini si schierano a difesa dei protestatori e la gente porta loro cibo. Avvocati, professori universitari, insegnanti e sindacati si schierano con loro. Uno sciopero generale (7 marzo) si rivela un successo. Si dimette il sindaco di Novi Sad e un paio di ministri. Poi, il 28 gennaio, si dimette il primo ministro, Miloš Vučević. La minoranza parlamentare dà battaglia, ma il movimento non si identifica con gli attori politici.
Cresce la repressione. Talora sorniona, come l’anticipo e il prolungamento delle vacanze natalizie. Più spesso diretta: scontri con la polizia, aggressioni ai cortei, convocazione dei genitori ai commissariati, minacce ai professori e ai giornalisti, espulsione di ONG colpevoli di sostegno alle ragioni della protesta, minacce di licenziamento, ispezioni nelle scuole. Il partito di governo tenta di reagire con manifestazioni di massa, senza grandi esiti. Vengono occupate alcune sedi televisive.
Alexsandar Vučić elenca i provvedimenti a favore, ma minaccia di far intervenire le truppe speciali. Gli studenti cercano consensi internazionali organizzando un lungo viaggio in bicicletta fino a Bruxelles. Ma l’Unione Europea è restia ad abbandonare il governo serbo. Anche l’inviato speciale del presidente americano, Richard Grenell, afferma: «Il processo democratico va rispettato. Non sosteniamo coloro che attentano allo stato di diritto e occupano le istituzioni dello stato». Molto convinto il sostegno della diaspora serba in Europa e Stati Uniti.
Porfirio ondivago
La posizione della Chiesa è un po’ ondivaga, ma sostanzialmente a favore del governo. La facoltà teologica che appoggiava le proteste è costretta ad arretrare. Così alcuni monasteri della Metochia. Il vescovo Gregorio operante in Germania è solitario nella condivisione delle richieste di democrazia e di trasparenza degli studenti.
Porfirio si pronuncia più volte invocando il rispetto reciproco e la fine delle tensioni. A gennaio, chiede che i colpevoli delle aggressioni ai manifestanti siano perseguiti. Il 14 marzo il sinodo si pronuncia per la comprensione e il dialogo senza indicare responsabilità. Ai manifestanti che chiedono una parola esplicita come fu quella del patriarca Paolo nel 1991 la gerarchia fa rispondere di non manipolarne la memoria. La parola d’ordine è la neutralità e l’equidistanza: «La Chiesa non s’identifica mai con una parte. Non fa distinzioni, non c’è selezione».
Pesa il pieno appoggio verso il «mondo serbo» promosso nel Sabor del giugno 2024, la difesa delle interpretazioni nazionalistiche della storia serba e la denuncia della condanna che la Corte suprema della Bosnia-Erzegovina ha pronunciato contro il presidente della Repubblica serba, Milorad Dodik, per le decisioni che contrastano con gli accordi di Dayton (26 febbraio).
Il Governo, presentato al Parlamento il 15 aprile, minaccia di essere un esecutivo di guerra e di repressione. Dopo le parole pronunciate a Mosca, il patriarca Porfirio non sembra costituire una garanzia per la società civile del Paese.






La Chiesa Albanese non era della Russia prima la guerra Turco Russa pero le chiese Sono Albanese ccatoliche di sotto Ottomani difitti si Sono scambiato për roba da guerra. La Chiesa di Decan era la Chiesa Albanese con unë reliqua antica della Croce di Gesu. Tutte le chiese ce i Serbi Hanno Sono costruitti e protetti da Albanesi dal tempo di Konstandine Il grande ed Justiniani. Scanderbeg aveva datto.un regalo alla Chiesa di Decan pero i gli Albanesi non possono nemeno entrare