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È in corso di svolgimento a Roma la II Assemblea sinodale delle Chiese in Italia che, questa mattina, ha avviato il confronto con le 50 Proposizioni raccolte sotto il titolo «Perché la gioia sia piena». I limiti evidenti di questo testo, per riferimento alla dimensione liturgica della vita della Chiesa, sono stati messi in evidenza ieri da un articolo di Andrea Grillo (cf. qui).
A quanto si apprende, anche in aula sinodale le Chiese reali italiane (vescovi compresi) si sono espresse criticamente rispetto alle Proposizioni: sia per ciò che concerne il loro contenuto, sia per quanto riguarda il metodo scelto per redarle (poco trasparente e, quindi, in contraddizione con quello stile sinodale che papa Francesco richiede da tempo alla nostra Chiesa locale).
L’impressione che si ha nel leggerle è che esse abbiano ben poco a che fare con qualsiasi forma di sinodalità – essendo decisamente distanti non solo dai testi delle Chiese continentali che hanno istruito la fase di inizio del Sinodo sulla sinodalità della Chiesa cattolica, ma anche dal lavoro conclusivo che ne è scaturito e che papa Francesco ha fatto suo così come era. Alla libertà evangelica del ministero petrino non sembra dunque corrisponderne altrettanta da parte degli uffici centrali della CEI – rispetto ai quali un gran numero di confratelli nell’episcopato sta facendo davvero fatica a riconoscersi.
Il rischio che si sta correndo, con la proposta alla II Assemblea sinodale di questa tabella di Proposizioni, è quello di disaffezionare e perdere quello che rimane del cattolicesimo pensante e concreto del nostro paese. Quella italiana continua a essere una Chiesa impaurita e ossessionata da una pretesa di controllo pressoché totale. Le forti reazioni in sede assembleare contro le Proposizioni rappresenta forse l’ultimo banco di prova disponibile alla CEI per immaginare un modo nuovo della presenza della fede nei contesti reali di vita del nostro paese.
Le risorse per mettere mano a questo passaggio epocale, sebbene ridotte rispetto a tempi passati, ci sono e sono a disposizione – si tratta di assumerle effettivamente e non solo in maniera retorica (quasi fossero una citazione a piè pagina, aggiunta per dare un contentino a un soggetto senza identità).
Sorprende che chi ha steso questo elenco di Proposizioni non si sia accorto della distonia fra il titolo che si è scelto di dare alla loro raccolta e quanto poi esposto come frutto maturo di anni di lavoro sinodale. Usare una parola così evangelicamente e umanamente impegnativa come «gioia» per un approdo decisamente sconfortante e di basso profilo, dice l’incapacità di una dirigenza ecclesiale a rendersi conto del senso stesso dell’Evangelo di Gesù. Mancante questo, ogni lettura della realtà contemporanea (estremamente seria, se non sull’orlo di una implosione globale) si fa risibile e inutile.
Per rendersene conto, basterebbe dare una lettura alle proposizioni 7-9 sui giovani – nelle quali diventa evidente una comprensione statica e auto-centrata della Chiesa e della sua pastorale. Perché, anziché costruire artificialmente luoghi in cui i giovani «possano sentirsi a casa», non essere là con loro dove essi abitano, vivono, desiderano, amano, soffrono? Come mai questa incapacità di sentire la loro voce, di vedere i segni del Regno che, in tutta la loro distanza dalla Chiesa, mettono in circolo nelle nostre società?
Per la dirigenza della Chiesa italiana è giunta l’ora di uscire dalla retorica e dal nominalismo, ma anche da quella rassicurante uniformità che fa mancare appuntamenti irripetibili con i luoghi dell’umano in cui la Parola agisce con efficacia. Mons. Erio Castellucci ha parlato di un «documento di passaggio», riferendosi alle Proposizioni – tentando di salvare una ricchezza sinodale, smarritasi in esse, e la loro formulazione presentata in assemblea. Temo che l’impresa non sia possibile e che si debba da ultimo decidere chi è la Chiesa italiana.
Patetica imitazione della democrazia civile
Avanti di questo passo, finirà peggio che in Germania. Pur di non ammettere d’aver sbagliato impostazione, la retorica farà di tutto per imbellettare il fallimento. Amici, ho cercato la libertà lontano anch’io, come si canta in parrocchia: o si segue Cristo, o ci si smarrisce. O si testimonia Cristo al mondo, o si parla a vanvera. O si porta a Cristo, generando credenti, o si chiude
Tre anni di cammino sinodale della Chiesa italiana rappresentano un tempo eccezionalmente lungo di autoanalisi ecclesiale. Ma a cosa ha portato realmente questo percorso? Il pericolo più evidente è che la Chiesa si sia lasciata catturare dal metodo, dando vita a un processo che si nutre di se stesso, dimenticando la sostanza della propria missione.
L’adozione del metodo della conversazione spirituale nelle assemblee e nei gruppi sinodali ne è un chiaro esempio. L’intenzione era quella di creare un clima di ascolto e discernimento. Tuttavia, nella pratica, questo metodo ha finito per ovattare il dibattito, anestetizzando la profezia e la parresia che dovrebbero caratterizzare la vita ecclesiale. La conversazione spirituale, più che stimolare una Chiesa attenta alle provocazioni del mondo e capace di rispondere con audacia evangelica, sembra aver favorito un clima di spiritualismo poco incisivo, un linguaggio autoreferenziale che elude le vere domande e le sfide concrete del tempo presente.
Nel frattempo, mentre si enfatizza la sinodalità a parole, nelle diocesi spesso continua a prevalere un centralismo decisionale che riduce il coinvolgimento reale del popolo di Dio a una mera formalità. La tanto celebrata sinodalità, anziché generare dinamiche di confronto aperto, rischia di trasformarsi in una struttura burocratica priva di anima, sostenuta da figure che si limitano ad assecondare, senza uno spirito critico autentico.
Tutto ciò conduce a una domanda essenziale: la Chiesa è ancora capace di annunciare il Vangelo con passione e verità, senza cedere a un linguaggio vuoto e autoreferenziale? Il rischio è quello di una elefantiasi sinodolatrica che pone il processo sopra la missione, il metodo sopra il contenuto. Ma il Vangelo non è un metodo: è un fuoco che brucia, una voce che scuote, una realtà che chiama alla conversione. Se il cammino sinodale non conduce a una rinnovata testimonianza del fascino di Cristo, allora è solo un esercizio sterile.
L’urgenza non è migliorare la conversazione spirituale, ma riscoprire il coraggio della profezia. Non è affinare i metodi di ascolto, ma lasciarsi interpellare davvero dalle domande del mondo. Non è costruire un processo perfetto, ma tornare all’essenziale: la gioia, la radicalità e la bellezza del Vangelo.
Povera Chiesa italiana
Se questo sinodo avrà un effetto positivo sarà forse quello di manifestare all’interno del mondo cattolico italiano una realtà da tempo già chiara a chi cattolico non è, e cioè che la Cei non ha più molto da dire di significativo. La sua capacità di incidere sulla realtà delle persone (compresi i credenti) è (temo) quasi nullo. Urge profondo rinnovamento del ceto dirigente ecclesiastico italiano, continuare ad arroccarsi su discorsi, pratiche e concetti ai più oggi incomprensibili mi sembra per la Chiesa italiana un esercizio di puro e autolesionismo
Benvenuti nella banalità sinodale…il vero Popolo di Dio con il suo sensus fidei non si è mai interessato di tali elucubrazioni burocratiche…..
Vi siete accorti ora che l’episcopato italiano non è all’altezza del suo compito? Era inevitabile questa caduta sui luoghi comuni, perché già il metodo proposto per il discernimento secondo lo Spirito nei gruppi e nei laboratori sinodali vanificava gli apporti maggiormente significativi e li riconduceva alle frasi fatte, alle espressioni ricorrenti da almeno quarant’anni a questa parte, a un ribadire narcisista del già detto, a una tiritera perenne…