
Abbiamo posto al professor Silvano Tagliagambe – docente emerito di Filosofia della Scienza presso l’Università di Sassari – alcune domande sul magistero di papa Francesco riguardo ai rapporti tra scienza e filosofia, a cui ci ha risposto citando le parole stesse di Francesco.
- Professore, cosa ha inteso papa Francesco per verità?
Nel febbraio del 2022, in collegamento con la trasmissione di Fabio Fazio «Che tempo che fa», papa Francesco ha tenuto gli italiani incollati al televisore intrattenendoli sui temi più urgenti del nostro mondo: dall’immigrazione alla guerra, dalla povertà ai mali della Chiesa. Riguardo a quest’ultimo tema, particolarmente scottante, ne ha individuato in maniera esplicita le radici:
«Io immagino la Chiesa del futuro come l’ha immaginata San Paolo VI dopo il Concilio, con l’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi. Poi io ho ne ho fatta un’altra, che si chiama Evangelii Gaudium, ma non è tanto originale, è un plagio di Evangelii Nuntiandi. Io ho solo cercato di indicare la strada della Chiesa verso il futuro: una Chiesa in pellegrinaggio. Oggi il male più grande della Chiesa è la mondanità spirituale: una Chiesa mondana. Un grande teologo, il cardinale de Lubac, diceva che la mondanità spirituale è il peggio dei mali che possono accadere alla Chiesa, peggio ancora del male dei Papi libertini. Peggio ancora, dice: peggio ancora. Questa mondanità spirituale dentro la Chiesa fa crescere una cosa brutta, il clericalismo, che è una perversione della Chiesa. Il clericalismo c’è nella rigidità, e sotto ogni tipo di rigidità c’è putredine, sempre. Queste sono le cose brutte che succedono oggi nella Chiesa, la mondanità spirituale che crea questo clericalismo e che porta a posizioni rigide, ideologicamente rigide; e l’ideologia prende il posto del Vangelo. Sugli atteggiamenti pastorali dico solo due (mali), che sono vecchi: il pelagianesimo e lo gnosticismo. Il pelagianesimo è credere che con la (sola) mia forza (io) posso andare avanti: no, la Chiesa va avanti con la forza di Dio, la misericordia di Dio e la forza dello Spirito Santo! E lo gnosticismo, quello mistico senza Dio, la spiritualità vuota: no, senza la carne di Cristo non c’è intesa possibile, senza la carne di Cristo non c’è redenzione possibile! Dobbiamo tornare al centro, un’altra volta: “Il verbo si è fatto carne”. In questo scandalo della croce, del verbo incarnato, c’è il futuro della Chiesa».
In questa risposta, c’è una sostanziale rivisitazione del concetto di «verità dogmatica» che ne mette in discussione l’immutabilità e che la rende estrinseca al credente, per metterne invece in risalto il valore e il significato di reale rivelazione salvifica per colui che la accoglie, dunque il suo legame indissolubile con la persona e con l’esigenza imprescindibile dell’incontro con essa.
Tale mutamento è spiegato con cristallina chiarezza in un breve testo che l’arcivescovo di Cagliari, Giuseppe Baturi, ha scritto per un agile volume sulle verità che l’associazione GiULiA (acronimo di: GIornaliste Unite LIbere Autonome) ha pubblicato l’anno scorso, chiamando a raccolta filosofi, scienziati, giornalisti, prelati, giudici, avvocati, proprio per parlare di verità al plurale, anziché al singolare, come sembrerebbe più appropriato, in sintonia con l’idea che vorrebbe che la verità sia una sola e che la si debba distinguere, in quanto tale, dal falso (qui per intero quanto scritto da monsignor Baturi).
- Questo è stato anche l’approccio inteso da Francesco per le verità delle scienze naturali?
Quanto papa Francesco durante l’intero suo magistero abbia inteso accreditare questo concetto di verità ce lo dicono con chiarezza tutti i suoi interventi sul rapporto tra fede e scienza.
Nel suo discorso del 18 novembre 2017 ai partecipanti alla Plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura nel quale si è soffermato, in particolare, su tre sviluppi scientifici e tecnici: «la medicina e la genetica, le neuroscienze» e i progressi incredibili delle «macchine autonome e pensanti», ricordando che
«La domanda sull’essere umano: “Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi?” (Salmo 8,5) risuona nella Bibbia sin dalle sue prime pagine e accompagna tutto il cammino di Israele e della Chiesa. Alla domanda sull’uomo, la Bibbia stessa ha offerto una risposta che si delinea nel libro della Genesi e percorre tutta il testo rivelato, sviluppandosi attorno agli elementi fondamentali di relazione e di libertà. La relazione si dirama secondo una triplice dimensione: verso la materia (la terra e gli animali); verso la trascendenza divina; verso gli altri esseri umani. La libertà si esprime nell’autonomia – naturalmente relativa – e nelle scelte morali. Questo impianto fondamentale ha retto per secoli il pensiero di gran parte dell’umanità e conserva ancora oggi la sua validità. Ma, nello stesso tempo, oggi ci rendiamo conto che i grandi principi e i concetti fondamentali dell’antropologia sono non di rado messi in questione anche sulla base di una maggiore consapevolezza della complessità della condizione umana ed esigono un approfondimento ulteriore».
In che direzione vada orientato questo approfondimento papa Francesco lo ha precisato il 12 novembre 2018 nell’udienza ai membri della Pontificia Accademia delle Scienze, nel quale viene messo in particolare risalto il “rapporto” tra il contenuto complessivo della conoscenza e i soggetti che lo devono accogliere, che vanno sempre tenuti presenti ed estesi quanto possibile:
«I cambiamenti globali sono sempre più influenzati dalle azioni umane. Perciò sono necessarie anche risposte adeguate alla salvaguardia della salute del pianeta e delle popolazioni, una salute messa a rischio da tutte quelle attività umane che usano combustibile fossile e deforestano il pianeta (cfr. Laudato si’ n. 23). La comunità scientifica, così come ha fatto progressi nell’identificare questi rischi, è ora chiamata a prospettare valide soluzioni e a convincere le società e i loro leader a perseguirle. […]
Accolgo con favore il fatto che l’Accademia si concentri anche sulle nuove conoscenze necessarie per affrontare le piaghe della società contemporanea. I popoli chiedono giustamente di partecipare alla costruzione delle proprie società. I proclamati diritti universali devono diventare realtà per tutti, e la scienza può contribuire in modo decisivo a tale processo e all’abbattimento delle barriere che lo ostacolano. […]
La Chiesa non si attende dalla scienza che segua soltanto i principi dell’etica, che sono un patrimonio inestimabile del genere umano. Essa si aspetta un servizio positivo, che possiamo chiamare con San Paolo VI la “carità del sapere”. A voi, cari scienziati e amici della scienza, sono state affidate le chiavi del sapere. Vorrei essere presso di voi l’avvocato dei popoli ai quali non arrivano che da lontano e raramente i benefici del vasto sapere umano e delle sue conquiste, specialmente in materia di alimentazione, salute, educazione, connettività, benessere e pace. Permettetemi di dirvi a nome loro: la vostra ricerca possa giovare a tutti, al fine che i popoli della terra ne siano sfamati, dissetati, sanati e formati; la politica e l’economia dei popoli vi attingano indicazioni per procedere con maggiore certezza verso il bene comune, a vantaggio specialmente dei poveri e dei bisognosi, e verso il rispetto del pianeta. Questo è l’immenso panorama che si dischiude agli uomini e alle donne di scienza quando si affacciano sulle attese dei popoli: attese animate da fiduciosa speranza ma anche da inquietudine e ansietà».
- Quale relazione vedeva Francesco tra verità scientifica e fede?
Il 4 ottobre 2021, in occasione della XXVI Conferenza delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico, tenutasi a novembre di quell’anno a Glasgow, il Papa ha subito concentrato l’attenzione su tre concetti: «Lo sguardo dell’interdipendenza e della condivisione, il motore dell’amore e la vocazione al rispetto». E li ha così chiariti:
«1. Tutto è collegato, nel mondo tutto è intimamente connesso. Non solo la scienza, ma anche le nostre fedi e le nostre tradizioni spirituali mettono in luce questa connessione esistente tra tutti noi e con il resto del creato. Riconosciamo i segni dell’armonia divina presente nel mondo naturale: nessuna creatura basta a sé stessa; ognuna esiste solo in dipendenza dalle altre, per completarsi vicendevolmente, al servizio l’una dell’altra. Potremmo quasi dire l’una donata dal Creatore alle altre, perché nella relazione di amore e di rispetto possano crescere e realizzarsi in pienezza. Piante, acque, esseri animati sono guidati da una legge impressa da Dio in essi per il bene di tutto il creato.
Riconoscere che il mondo è interconnesso significa non solo comprendere le conseguenze dannose delle nostre azioni, ma anche individuare comportamenti e soluzioni che devono essere adottati con sguardo aperto all’interdipendenza e alla condivisione. Non si può agire da soli, è fondamentale l’impegno di ciascuno per la cura degli altri e dell’ambiente, impegno che porti al cambio di rotta così urgente e che va alimentato anche dalla propria fede e spiritualità. Per i cristiani, lo sguardo dell’interdipendenza sgorga dal mistero stesso del Dio Trino: “La persona umana tanto più cresce, matura e si santifica quanto più entra in relazione, quando esce da sé stessa per vivere in comunione con Dio, con gli altri e con tutte le creature. Così assume nella propria esistenza quel dinamismo trinitario che Dio ha impresso in lei fin dalla sua creazione». […]
«2. Questo impegno va sollecitato continuamente dal motore dell’amore: “Dall’intimo di ogni cuore, l’amore crea legami e allarga l’esistenza quando fa uscire la persona da sé stessa verso l’altro”. Tuttavia, la forza propulsiva dell’amore non viene ‘messa in moto’ una volta per sempre, ma va ravvivata giorno per giorno; questo è uno dei grandi contributi che le nostre fedi e tradizioni spirituali possono offrire nel facilitare questo cambio di rotta di cui abbiamo tanto bisogno.
L’amore è specchio di una vita spirituale vissuta intensamente. Un amore che si estende a tutti, oltre le frontiere culturali, politiche e sociali; un amore che integra, anche e soprattutto a beneficio degli ultimi, i quali spesso sono coloro che ci insegnano a superare le barriere dell’egoismo e a infrangere le pareti dell’io». […]
«3. Questa cura è anche una vocazione al rispetto: rispetto del creato, rispetto del prossimo, rispetto di sé stessi e rispetto nei confronti del Creatore. Ma anche rispetto reciproco tra fede e scienza, per “entrare in un dialogo tra loro orientato alla cura della natura, alla difesa dei poveri, alla costruzione di una rete di rispetto e di fraternità”. Un rispetto che non è mero riconoscimento astratto e passivo dell’altro, ma vissuto in maniera empatica e attiva nel voler conoscere l’altro ed entrare in dialogo con lui per camminare insieme in questo viaggio comune, sapendo bene che, come ancora indicato nell’Appello, “ciò che possiamo ottenere dipende non solo dalle opportunità e dalle risorse, ma anche dalla speranza, dal coraggio e dalla buona volontà”».
- Cosa ha chiesto Francesco alle persone dedicate alla ricerca scientifica?
Nel discorso del 10 settembre 2022 in occasione della Sessione Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze, dedicata al tema «Scienza di base per lo sviluppo umano, la pace e la salute planetaria», Papa Francesco risponde, prima di tutto, a una domanda che non pochi si pongono: perché i Papi, a partire dal 1603, hanno voluto avere un’Accademia delle Scienze? Ecco la sua risposta:
«Nessun’altra istituzione religiosa che io conosca possiede un’Accademia di questo tipo, e molti leader religiosi si sono interessati per crearne una simile. Lasciando ad altri le ricostruzioni storiche, mi piace interpretare oggi questa scelta nell’orizzonte dell’amore e della cura per la casa comune in cui Dio ci ha posto a vivere. La Chiesa condivide e promuove la passione per la ricerca scientifica come espressione dell’amore per la verità, per la conoscenza del mondo, del macrocosmo e del microcosmo, della vita nella stupenda sinfonia delle sue forme. San Tommaso afferma che «fine di tutto l’universo è la verità» (Summa contra gentiles, I, 1). Noi siamo parte di questo universo, e lo siamo con una responsabilità unica, che ci deriva dal fatto che di fronte alla realtà siamo capaci di meraviglia e ci domandiamo «perché?». Dunque, alla base c’è quest’attitudine contemplativa; e, complementare ad essa, c’è il compito di custodire il creato».
- “Custodire il creato”, salvaguardare l’ambiente, curare i poveri, costruire la pace… sono questi i compiti oggi affidati da Francesco a chi si occupa di ricerca scientifica?
Nella circostanza prima citata, Francesco ha aggiunto:
«In questa Sessione Plenaria, sottolineate che la scienza di base ci offre tante nuove conoscenze sulla Terra, sull’universo e sul posto dell’essere umano in esso. Mi congratulo perché mantenete l’obiettivo di collegare la scienza di base con la risoluzione delle sfide attuali; collegare l’astronomia, la fisica, la matematica, la biochimica, le scienze del clima con la filosofia, al servizio dello sviluppo umano, della pace e della salute del pianeta. Questo approccio connettivo è molto importante perché, man mano che le conquiste delle scienze accrescono il nostro stupore per la bellezza e la complessità della natura, si avverte sempre più la necessità di studi interdisciplinari, legati alla riflessione filosofica, che portino a nuove sintesi. Questa visione interdisciplinare, se tiene conto anche della Rivelazione e della teologia, può contribuire a dare risposte alle domande ultime dell’umanità, che vengono poste anche dalle nuove generazioni, a volte disorientate.
In effetti, le conquiste scientifiche di questo secolo devono essere sempre orientate dalle esigenze della fraternità, della giustizia e della pace, contribuendo a risolvere le grandi sfide che l’umanità e il suo habitat si trovano ad affrontare. Anche in questo senso la Pontificia Accademia delle Scienze è unica nella sua struttura, nella sua composizione e nei suoi obiettivi, sempre volti a partecipare i benefici della scienza e della tecnologia al maggior numero di persone, soprattutto ai più bisognosi e svantaggiati; e così essa mira anche alla liberazione da diverse forme di schiavitù, come il lavoro forzato, la prostituzione e il traffico di organi. Questi crimini contro l’umanità, che vanno di pari passo con la povertà, si verificano anche nei Paesi sviluppati, nelle nostre città. Il corpo umano non può essere mai, né in parte né nella sua interezza, oggetto di commercio! Mi rallegro che la PAS [Pontificia Accademia delle Scienze] è attivamente impegnata a sostenere questi scopi e vorrei che continuasse a farlo con un’intensità commisurata alla crescente necessità».
E questo l’auspicio con il quale ha concluso questo suo intervento:
«È necessario mobilitare tutte le conoscenze basate sulla scienza e sull’esperienza per superare la miseria, la povertà, le nuove schiavitù, e per evitare le guerre. Rifiutando alcune ricerche, inevitabilmente destinate, in circostanze storiche concrete, a fini di morte, gli scienziati di tutto il mondo possono unirsi in una comune disponibilità a disarmare la scienza e formare una forza per la pace. Nel nome di Dio, che ha creato tutti gli esseri umani per un comune destino di felicità, siamo chiamati oggi a testimoniare la nostra essenza fraterna di libertà, giustizia, dialogo, incontro reciproco, amore e pace, evitando di alimentare odio, risentimento, divisione, violenza e guerra».
- La verità della scienza porta alla umana bontà, secondo Francesco?
Le idee di Francesco sul concetto di verità sono state da lui ulteriormente ribadite e approfondite, ad esempio, il 20 febbraio 2023 nel discorso di apertura dei lavori della plenaria della Pontifica Accademia per la Vita sul tema «Convergere sulle Persone. Le tecnologie emergenti per il bene comune» nel quale papa Francesco si è soffermato sul cambiamento delle condizioni di vita dell’uomo nel mondo tecnologico, sull’impatto delle nuove tecnologie e sulla definizione stessa di «uomo» e di «relazione», con particolare riferimento alla condizione dei soggetti più vulnerabili; sul concetto di «conoscenza» e le conseguenze che ne derivano, delineando tre sfide da lui ritenute particolarmente importanti al riguardo:
«Prima sfida: il cambiamento delle condizioni di vita dell’uomo nel mondo della tecnica. Sappiamo che è proprio dell’uomo agire nel mondo in modo tecnologico, trasformando l’ambiente e migliorandone le condizioni di vita. Lo ha ricordato Benedetto XVI, affermando che la tecnica “risponde alla stessa vocazione del lavoro umano” e che “nella tecnica, vista come opera del proprio genio, l’uomo riconosce sé stesso e realizza la propria umanità”. Essa, dunque, ci aiuta a comprendere sempre meglio il valore e le potenzialità dell’intelligenza umana, e al tempo stesso ci parla della grande responsabilità che abbiamo nei confronti del creato.
In passato la connessione tra culture, attività sociali e ambiente, grazie a interazioni meno fitte e ad effetti più lenti, risultava meno impattante. Oggi, invece, il rapido sviluppo dei mezzi tecnici rende più intensa ed evidente l’interdipendenza tra l’uomo e la “casa comune”, come già riconosceva San Paolo VI nella Populorum progressio. Anzi, la forza e l’accelerazione degli interventi è tale da produrre mutazioni significative – perché c’è un’accelerazione geometrica, non matematica -, sia nell’ambiente che nelle condizioni di vita dell’uomo, con effetti e sviluppi non sempre chiari e prevedibili. Lo stanno dimostrando varie crisi, da quella pandemica a quella energetica, da quella climatica a quella migratoria, le cui conseguenze si ripercuotono le une sulle altre, amplificandosi a vicenda. Un sano sviluppo tecnologico non può non tener conto di questi complessi intrecci.
Seconda sfida: l’impatto delle nuove tecnologie sulla definizione di “uomo” e di “relazione”, soprattutto in merito alla condizione dei soggetti vulnerabili. È evidente che la forma tecnologica dell’esperienza umana sta diventando ogni giorno più pervasiva: nelle distinzioni tra “naturale” e “artificiale”, “biologico” e “tecnologico”, i criteri con cui discernere il proprio dell’umano e della tecnica diventano sempre più difficili. Perciò è importante una seria riflessione sul valore stesso dell’uomo. Occorre, in particolare, ribadire con decisione l’importanza del concetto di coscienza personale come esperienza relazionale, che non può prescindere né dalla corporeità né dalla cultura. In altre parole, nella rete delle relazioni, sia soggettive che comunitarie, la tecnologia non può soppiantare il contatto umano, il virtuale non può sostituire il reale e nemmeno i social l’ambito sociale. E noi siamo nella tentazione di far prevalere il virtuale sul reale: è una tentazione brutta, questa.
Anche all’interno dei processi di ricerca scientifica la relazione tra persona e comunità segnala risvolti etici sempre più complessi. Ad esempio, in ambito sanitario, dove la qualità dell’informazione e dell’assistenza del singolo dipende in gran parte dalla raccolta e dallo studio dei dati disponibili. Qui si deve affrontare il problema di coniugare la riservatezza dei dati della persona con la condivisione delle informazioni che la riguardano nell’interesse di tutti. Sarebbe egoistico, infatti, chiedere di essere curati con le migliori risorse e competenze di cui la società dispone senza contribuire ad accrescerle. Più in generale, penso all’urgenza che la distribuzione delle risorse e l’accesso alle cure vadano a vantaggio di tutti, perché siano ridotte le disuguaglianze e sia garantito il sostegno necessario specialmente ai soggetti più fragili, come le persone disabili, ammalate e povere.
Per questo occorre vigilare sulla velocità delle trasformazioni, sull’interazione tra i cambiamenti e sulla possibilità di garantirne un equilibrio complessivo. Non è poi detto che tale equilibrio sia uguale nelle diverse culture, come invece sembra presumere la prospettiva tecnologica quando s’impone come linguaggio e cultura universale e omogenea – questo è uno sbaglio –; l’impegno va invece rivolto a “fare in modo che ognuno cresca con lo stile che gli è peculiare, sviluppando le proprie capacità di innovare a partire dai valori della propria cultura”.
Terza sfida: la definizione del concetto di conoscenza e le conseguenze che ne derivano. L’insieme degli elementi fin qui considerati ci porta a interrogarci sui nostri modi di conoscere, consapevoli del fatto che già il tipo di conoscenza che mettiamo in atto ha in sé dei risvolti morali. È ad esempio riduttivo cercare la spiegazione dei fenomeni solo nelle caratteristiche dei singoli elementi che li compongono. Servono modelli più articolati, che considerino l’intreccio di relazioni di cui i singoli eventi sono intessuti. È paradossale, ad esempio, riferendosi a tecnologie di potenziamento delle funzioni biologiche di un soggetto, parlare di uomo “aumentato” se si dimentica che il corpo umano rinvia al bene integrale della persona e che dunque non può essere identificato con il solo organismo biologico. Un approccio sbagliato in questo campo finisce in realtà non con l’“aumentare”, ma con il “comprimere” l’uomo.
Nella Evangelii gaudium e soprattutto nella Laudato si’ ho rilevato l’importanza di una conoscenza a misura d’uomo, organica, ad esempio sottolineando che “il tutto è superiore alle parti“ e che “tutto nel mondo è intimamente connesso”. Credo che tali spunti possano favorire un rinnovato modo di pensare anche in ambito teologico; è bene infatti che la teologia prosegua nel superamento di impostazioni eminentemente apologetiche, per contribuire alla definizione di un nuovo umanesimo e favorire il reciproco ascolto e la mutua comprensione tra scienza, tecnologia e società. La mancanza di un dialogo costruttivo tra queste realtà, infatti, impoverisce la fiducia reciproca che sta alla base di ogni convivenza umana e di ogni forma di “amicizia sociale”. Vorrei anche accennare all’importanza del contributo che offre a tale scopo il dialogo tra le grandi tradizioni religiose. Esse dispongono di una saggezza secolare, che può essere di aiuto in questi processi. Avete dimostrato di saperne cogliere il valore, ad esempio promuovendo, pure in tempi recenti, incontri interreligiosi sui temi del “fine della vita” e dell’intelligenza artificiale».
- Anche la bellezza sta con la verità e la bontà nella visione di Francesco?
Voglio richiamare – a proposito di verità nel rapporto tra scienza e fede – il riferimento all’arte che il Pontefice ha fatto agli artisti il 23 giugno 2023 in occasione del 50° anniversario dell’inaugurazione della Collezione d’arte moderna dei Musei Vaticani perché ha chiarito in modo esemplare il motivo per cui, a suo parere, la conoscenza, tutta la conoscenza, è necessariamente refrattaria alle rigidità di ogni tipo, sotto la quale c’è sempre «putredine»:
«Vi ringrazio per aver accolto il mio invito. La vostra presenza mi rallegra, perché la Chiesa ha sempre avuto un rapporto con gli artisti che si può definire nello stesso tempo naturale e speciale. Si tratta di un’amicizia naturale, perché l’artista prende sul serio la profondità inesauribile dell’esistenza, della vita e del mondo, anche nelle sue contraddizioni e nei suoi lati tragici. Questa profondità rischia di diventare invisibile allo sguardo di molti saperi specializzati, che rispondono a esigenze immediate, ma stentano a vedere la vita come realtà poliedrica. L’artista ricorda a tutti che la dimensione nella quale ci muoviamo, anche quando non ne siamo consapevoli, è quella dello Spirito. La vostra arte è come una vela che si riempie dello Spirito e fa andare avanti. L’amicizia della Chiesa con l’arte è dunque qualcosa di naturale. Ma è pure un’amicizia speciale, soprattutto se pensiamo a molti tratti di storia percorsi insieme, che appartengono al patrimonio di tutti, credenti o non credenti. Memori di questo aspettiamo nuovi frutti anche nel nostro tempo, in un clima di ascolto, di libertà e di rispetto. La gente ha bisogno di questi frutti, di frutti speciali.
Romano Guardini scriveva che “lo stato in cui si trova l’artista mentre crea è affine a quello del fanciullo e pure del veggente” (L’opera d’arte, Brescia 1998, 25). Mi sembrano due paragoni interessanti. Secondo lui “l’opera d’arte apre uno spazio in cui l’uomo può entrare, in cui può respirare, muoversi e trattare le cose e gli uomini, fattisi aperti” (ivi, p. 35). È vero, quando si opera nell’arte i confini si allentano e i limiti dell’esperienza e della comprensione si dilatano. Tutto appare più aperto e disponibile. Allora si acquista la spontaneità del bambino che immagina e l’acutezza del veggente che coglie la realtà.
Sì, l’artista è un bambino – non deve suonare come un’offesa – significa che si muove anzitutto nello spazio dell’invenzione, della novità, della creazione, del mettere al mondo qualcosa che così non si era mai visto. Facendo questo, smentisce l’idea che l’uomo sia un essere per la morte. L’uomo deve fare i conti con la sua mortalità, è vero, ma non è un essere per la morte, bensì per la vita.
Una grande pensatrice come Hannah Arendt afferma che il proprio dell’essere umano è quello di vivere per portare nel mondo la novità. Questa è la dimensione di fecondità dell’uomo. Portare la novità. Anche nella fecondità naturale ogni figlio è una novità. Aprire e portare novità. Voi artisti realizzate questo, facendo valere la vostra originalità. Nelle opere mettete sempre voi stessi, come esseri irripetibili quali noi tutti siamo, ma con l’intenzione di creare ancora di più. Quando il talento vi assiste, portate alla luce l’inedito, arricchite il mondo di una realtà nuova. Penso ad alcune parole che leggiamo nel Libro del profeta Isaia, quando Dio dice: “Ecco, faccio una cosa nuova, proprio ora germoglia: non ve ne accorgete?” (43,19). E nell’Apocalisse conferma: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (21,5). La creatività dell’artista sembra così partecipare della passione generativa di Dio. Quella passione con la quale Dio ha creato. Siete alleati del sogno di Dio! Siete occhi che guardano e che sognano. Non basta soltanto guardare, bisogna anche sognare. […] La creatività dell’artista: non basta soltanto guardare, bisogna sognare. Noi esseri umani aneliamo a un mondo nuovo che non vedremo appieno con i nostri occhi, eppure lo desideriamo, lo cerchiamo, lo sogniamo.
Voi artisti, allora, avete la capacità di sognare nuove versioni del mondo. E questo è importante: nuove versioni del mondo. La capacità d’introdurre novità nella storia. Per questo Guardini dice che assomigliate anche ai veggenti. Siete un po’ come i profeti. Sapete guardare le cose sia in profondità sia in lontananza, come sentinelle che stringono gli occhi per scrutare l’orizzonte e scandagliare la realtà al di là delle apparenze. In ciò siete chiamati a sottrarvi al potere suggestionante di quella presunta bellezza artificiale e superficiale oggi diffusa e spesso complice dei meccanismi economici che generano disuguaglianze. Quella bellezza non attira, perché è una bellezza che nasce morta. Non c’è vita lì, non attira. È una bellezza finta, cosmetica, un maquillage che nasconde invece di rivelare. In italiano si dice “trucco” perché ha qualcosa dell’inganno. Voi vi tenete distanti da questa bellezza, la vostra arte vuole agire come coscienza critica della società, togliendo il velo all’ovvietà. Volete mostrare quello che fa pensare, che rende vigili, che svela la realtà anche nelle sue contraddizioni, nei suoi aspetti che è più comodo o conveniente tenere nascosti. Come i profeti biblici, ci mettete di fronte a cose che a volte danno fastidio, criticando i falsi miti di oggi, i nuovi idoli, i discorsi banali, i tranelli del consumo, le astuzie del potere. È interessante questo nella psicologia, nella personalità degli artisti: la capacità di andare oltre, di andare oltre, in tensione tra la realtà e il sogno».
E concludendo questi suo discorso sottolinea l’importanza, anche dal punto di vista teologico, del riferimento all’armonia e alla bellezza, che ne è il riflesso:
«La bellezza vera, infatti, è riflesso dell’armonia. In teologia − è interessante − i teologi descrivono la paternità di Dio, la filiazione di Gesù Cristo, ma quando si tratta di descrivere lo Spirito Santo: lo Spirito è l’armonia. Ipse harmonia est. Lo Spirito è quello che fa l’armonia. E l’artista ha qualcosa di questo Spirito per fare l’armonia. Questa dimensione umana dello spirituale. La bellezza vera, infatti, è riflesso dell’armonia. Essa, se posso dire così, è la virtù operativa della bellezza. È il suo spirito di fondo, in cui agisce lo Spirito di Dio, il grande armonizzatore del mondo. L’armonia è quando ci sono delle parti, diverse tra loro, che però compongono un’unità, diversa da ognuna delle parti e diversa dalla somma delle parti. È una cosa difficile, che solo lo Spirito può rendere possibile: che le differenze non diventino conflitti, ma diversità che si integrano; e nello stesso tempo che l’unità non sia uniformità, ma ospiti ciò che è molteplice. L’armonia fa questi miracoli, come a Pentecoste.
Sempre mi colpisce pensare allo Spirito Santo come quello che permette di fare i disordini più grandi – pensiamo alla mattina di Pentecoste – e poi fa l’armonia. Che non è l’equilibrio, no, per fare l’armonia ci vuole prima lo squilibrio; l’armonia è un’altra cosa rispetto all’equilibrio. Quanto è attuale questo messaggio: siamo in un tempo di colonizzazioni ideologiche mediatiche e di conflitti laceranti; una globalizzazione omologante convive con tanti localismi chiusi. Questo è il pericolo del nostro tempo. Anche la Chiesa può risentirne. Il conflitto può agire sotto una finta pretesa di unità; così le divisioni, le fazioni, i narcisismi. Abbiamo bisogno che il principio dell’armonia abiti di più il nostro mondo e cacci via l’uniformità. Voi artisti potete aiutarci a lasciare spazio allo Spirito. Quando vediamo l’opera dello Spirito, che è creare l’armonia delle differenze, non annientarle, non uniformarle, ma armonizzarle, allora capiamo cosa sia la bellezza. La bellezza è quell’opera dello Spirito che crea armonia. Fratelli e sorelle, il vostro genio percorra questa via!».
- Può fare un esempio citato da Francesco?
È significativo che il 20 febbraio 2023, rivolgendosi ai membri della Fondazione Ente dello Spettacolo, papa Francesco, a braccio, abbia voluto dire:
«Mi piace il lavoro che fate, il lavoro del cinema, il lavoro dell’arte, il lavoro della bellezza come grande espressione di Dio, che è sempre stata lasciata da parte, o almeno nell’angolo. I libri di teologia parlano tanto del verum, della verità; parlano del bonum; del bello, della bellezza… non tanto: il bello è come l’“ancilla”. Sembrava che non c’entrasse, nella riflessione teologico-pastorale, riflettere sulla bellezza. Quella bellezza che ci salverà, come ha detto qualcuno; quella bellezza che è l’armonia, opera dello Spirito Santo».
Per esemplificare questa sua concezione della bellezza e della sua relazione con l’armonia, ha voluto riferirsi al film del regista russo Andrej Tarkovskij Andrej Rublëv, uscito alla fine del 1966, da lui definito «un capolavoro»:
«Vorrei dirvi: ripartiamo da qui, dall’arte come stupore, prima di tutto per chi la fa, per l’artista. Penso a quel capolavoro che è l’Andrej Rublëv di Tarkovski: l’artista rimane muto a causa del trauma della guerra. Viene da pensare a ciò che sta accadendo anche oggi nel mondo. Rublëv non dipinge più, nemmeno parla più. Si aggira smarrito in cerca di un senso, finché assiste alla fusione di una campana. E al primo rintocco di quella grande campana il suo cuore si riapre, la sua lingua si scioglie, riprende a parlare e riprenderà a dipingere. E lo schermo si riempie dei colori delle sue icone. Il suono della campana, che esce dalla terra e dal bronzo, come per miracolo, riempie di stupore l’animo dell’artista e in un certo senso egli avverte in esso la voce di Dio, che gli sussurra: “Apriti”. Come aveva detto Gesù nel Vangelo: “Effatà” (Mc 7,34)».
Il senso potente e attualissimo del testamento spirituale di papa Francesco può essere allora sintetizzato con la sua conclusione di questo suo discorso, di poco più di due anni fa:
«Cari amici, il mondo, travagliato dalla guerra e da tanti mali, ha bisogno di segni, di opere che suscitino stupore, che lascino trasparire la meraviglia di Dio, il quale non smette mai di amare le sue creature e di stupirsi per la loro bellezza. In un mondo sempre più artificiale, dove l’uomo si è circondato delle opere delle proprie mani, il grande rischio è quello di perdere lo stupore. Condivido con voi questa riflessione e, affidandovi il compito di ridestare la meraviglia, vorrei ringraziarvi per quello che fate in un aspetto essenziale per l’evangelizzazione, perché non c’è fede senza stupore».





