
Santa Caterina da Siena negozia con Gregorio XI a nome dei fiorentini (Eleanor Fortescue Brickdale)
Articolo tratto dal lessico del popolo di Dio in vista del Conclave Intra omnes – curato da Andrea Grillo e Luigi Mariano Guzzo, pubblicato da Queriniana e scaricabile gratuitamente qui.
Il Concilio Vaticano I ha finito col produrre nella Chiesa cattolica un immaginario che induceva a pensare chiusa per sempre ogni questione riguardante il ministero petrino. Isolandolo e immunizzandolo dalla vita della Chiesa stessa, l’affermazione dogmatica sulla infallibilità del papa in materia di fede e di morale ha creato una sorta di corpo ipostatizzato sottratto alle temperie della storia umana.
Eppure, quella dichiarazione può trovare il suo senso e la sua intelligibilità solo se letta e colta all’interno di quella stessa storia, rispetto alla quale si era pensato di aver trovato la formula della separazione perfetta.
Oltre la sovranità
Giunta al termine di quella dialettica costitutiva della modernità europea, dove Chiesa e Stato si modellavano l’una sull’altro impedendo all’una e all’altro di totalizzare lo spazio del vissuto umano, la Chiesa cattolica, oramai quasi completamente senza territorio statale, reagisce alla assoluta sovranità dello Stato facendo del corpo del sommo pontefice il simbolo del proprio potere di sovranità assoluta. Saldando così nella persona/corpo del papa ogni potestà di governo, legislazione e giudizio – fosse anche solo nel territorio religioso della Chiesa.
Territorio, comunque, ben più vasto di qualsiasi sovranità statale, perché includeva le coscienze individuali dei cattolici ovunque essi fossero. Di lì a poco, la modernità come europeizzazione del mondo sarebbe stata spazzata via da due devastanti guerre che ebbero il loro epicentro proprio nel cuore dell’Europa.
Gli effetti di questo modo di intendere la sovranità da parte della Chiesa cattolica si sono estesi fino al primo decennio del XXI secolo, facendo di essa una sorta di resto archeologico di un’era che si era oramai conclusa da tempo. Le dimissioni di Benedetto XVI rappresentano il momento di consapevolezza della disfunzionalità, anche per la fede e la morale, di questo anacronismo storico.
Ed è forse da questo atto che bisogna partire per mettere insieme i tasselli di un nuovo immaginario del ministero petrino nella Chiesa cattolica per la vita del mondo. Papa Francesco ha potuto parlare efficacemente di un «cambiamento d’epoca», con tutto quello che questo comporta nella riconfigurazione evangelica dell’istituzione ecclesiale, solo perché il suo predecessore aveva chiuso, ritirando il suo corpo dallo scranno di Pietro, quella moderna anche per la Chiesa cattolica.
La forza delle pratiche
Ritirare un corpo, per quanto questo gesto sia rimasto in un’ambiguità di fondo fino alla morte di Benedetto XVI, è sicuramente un atto giuridico; ma, ben prima di essere tale, è una pratica carica di un simbolismo potente. Con l’esposizione del suo corpo, Ratzinger in vita ha cercato di addomesticare la portata simbolica del suo gesto, ma non ha potuto controllare la forza dirompente dell’atto pratico del suo ritiro dal ministero petrino.
Ed è esattamente la forza di questa pratica, istituita da Benedetto XVI, che rappresenta la legittimazione del pontificato di papa Francesco. Una legittimazione questa che, in virtù della sua origine nella decisione di Ratzinger, non andava nella linea della continuità, come ci si è ossessionati a cercare di mostrare soprattutto agli inizi del pontificato di Francesco, ma esattamente in quella opposta della discontinuità.
Questo snodo è decisivo per la missione a venire della Chiesa cattolica e, al tempo stesso, estremamente fragile. È fragile perché la sua forza di riconsegna dell’istituzione ecclesiale al vangelo del Regno non è un atto formale, ma una pratica – e tale deve rimanere per poter essere efficace nel tempo.
A differenza di quanto auspicato nella Ut unum sint da Giovanni Paolo II, dopo Benedetto XVI e Francesco il ministero petrino nella Chiesa a favore del mondo e della storia umana può essere riconfigurato unicamente sul piano delle sue pratiche effettive – e non su quello della teoria teologica o degli accomodamenti giuridici. Il corpo del papa non può più essere il simbolo di una comunità chiusa in sé stessa, che domina sulle coscienze di coloro che ne fanno parte; ma deve diventare principio di un allargamento ospitale della Chiesa cattolica nella quale la distinzione noi/loro, dentro/fuori, è sottoposta al duro ammaestramento che Gesù rivolge ai discepoli quando questi pensano di possedere l’esclusiva sulla destinazione del Regno.
Sinodalità
La Chiesa cattolica oggi è attraversata da ampi riverberi del risentimento del figlio maggiore, irritato per la sovrabbondanza del non dovuto che i gesti di misericordia e l’apertura ospitale del Regno portano sempre con sé. Su questo risentimento, antico come il Vangelo, si è costruita una teoria della divisione che papa Francesco avrebbe, drammaticamente e incautamente, prodotto nella sua Chiesa. Senza accorgersi che quando il ministero petrino è aderente al Vangelo esso è certamente dalla parte desiderata da Dio – per quanto fallibile questa possa apparire agli occhi umani.
La sinodalità, come modo fondamentale di essere della Chiesa cattolica, è esattamente la pratica che mira a farla uscire dalle trappole di questo risentimento (che può toccare talvolta gli uni, talvolta gli altri). Fuori dalla logica dell’«o io o lui», ma anche fuori dal principio monarchico assoluto del governo della Chiesa. Fuori dalla prima perché quella logica manca la chiara ingiunzione evangelica; fuori dal secondo perché storicamente disfunzionale alla missione e destinazione della Chiesa cattolica nella storia degli uomini e delle donne che vivono concretamente nella realtà del nostro tempo.
La riforma della curia vaticana ha creato i presupposti giuridici per un governo sinodale dell’istituzione, ma non può da sé produrre le pratiche che lo attuino effettivamente. La loro invenzione e messa in atto è questione urgente per la Chiesa cattolica come corpo istituzionale – e come istituzione globale fra le altre istituzioni del mondo contemporaneo.
Il corpo del papa non può più essere principio, isolato e immune, di un governo totale della Chiesa cattolica, ma deve plasmarsi sempre più come luogo di sintesi sinodale in cui convergono le pratiche amministrative della Curia vaticana e le pratiche culturali delle Chiese in ambito pastorale. Inoltre, in quanto presiede a entrambe, deve garantire il rispetto dell’antecedenza evangelica dell’impegno/impregnamento culturale della fede, e quindi la sua diversificazione, sul potere amministrativo della Curia.
L’ordinamento evangelico
La restituzione della Chiesa cattolica all’ordinamento evangelico, bloccata per oltre un secolo dal suo sequestro in quello canonico, è un processo a lungo termine che non può essere realizzato per decreto, ma deve essere caratterizzato da pratiche adeguate e corrispondenti. Papa Francesco ha rappresentato l’albore di questa riconsegna della Chiesa cattolica alla destinazione immaginata da Dio per essa nel tempo presente. Questo comporta anche un cambiamento nel rapporto con la verità, e una riconfigurazione del corpo simbolico del papa che attesta alla Chiesa tutta di essere nella verità della sua destinazione.
La verità passa da essere questione di esclusivismo istituzionale e giuridico a pratiche di alleanza efficaci – a servizio del mondo, a tutela degli ultimi e degli esclusi, in nome della giustizia desiderata dal Dio di Gesù. Che è per tutti, per l’orfano e la vedova, per la prostituta e il pubblicano, per l’emorroissa e la siro-fenicia, per Zaccheo e la Cananea – e non solo per un circolo ristretto di eletti.
Alleanza vuol dire non essere soli, ma vuol dire anche riconoscere una comunanza di destini e una condivisione di destinazione. Gettare ponti, non costruire confini sicuri impenetrabili: tra i diversi modi di essere della fede cattolica; tra le diversità culturali delle comunità cristiane radicate nei loro contesti di vita; tra le religioni; tra i popoli e le nazioni. Alleanza vuol dire far sentire a ogni essere umano che nessuno è escluso dal desiderio di Dio, che la gioia della sua intimità è la destinazione comune a tutti e tutte noi.
La restituzione della Chiesa cattolica all’ordinamento evangelico chiede un esercizio del ministero petrino che tutela e custodisce nella sua prassi il primato della parola di Dio sull’istituzione ecclesiale e i suoi ordinamenti giuridici. Solo se la Chiesa cattolica riesce a tenere fermo questo differenziale critico del Vangelo rispetto a sé stessa, allora essa potrà metterlo efficacemente in circolo nelle realtà penultime del mondo a cui essa è destinata.
Accettare come istituzione l’azzardo di questa restituzione al Vangelo, custodita dalla simbologia del corpo del papa che stringe alleanze e intercede per il mondo senza distinzioni di appartenenza, significa dischiudere la storia umana al regno di Dio e non ampliare lo spazio occupato dalla sovranità della Chiesa cattolica.
Aperture del Regno
Il differenziale della parola di Dio e l’apertura del Regno, fermamente attestati dal ministero petrino nella Chiesa cattolica a favore del mondo amato da Dio, rappresenta la forza di cui quella Chiesa necessita per istituire pratiche di dialogo fra i popoli e le nazioni, insieme a forme sinodali di negoziazione fra le parti contrapposte – di cui l’approdo nichilista della democrazia moderna, che minaccia oggi l’ordinamento della convivenza civile, ha urgentemente bisogno per non giungere a legittimare democraticamente nuovi totalitarismi come forma dello stato di diritto.
Restituito al suo senso evangelico, il ministero petrino potrà iniziare a esercitarsi come pratica che edifica i nessi fra cura della fede e cura dei destini del mondo – da cui possano trarre forza e ispirazione inedite prassi politiche che siano all’altezza del compito di rendere onore a quella dignità dell’umano concreto a cui il Dio di Gesù si è vincolato per sempre nell’incarnazione del Figlio.





