
Lo scorso 17 aprile, in occasione della sua ultima visita alle persone detenute nella Casa Circondariale di Roma Regina Coeli, ai giornalisti che gli chiedevano come avrebbe trascorso i giorni imminenti delle festività pasquali, Francesco rispose sorridendo: «Vivrò la Pasqua come posso».
Riletta alla luce della sua morte, quella frase assume oggi un significato particolarmente commosso ed evocativo. Quell’espressione in particolare – come posso – risuona oggi come una sorta di sintesi del suo approccio personale alla vita e come un lascito del suo approccio pastorale alla chiesa. Credo che Jorge Mario Bergoglio si sia fatto conoscere dai suoi amici e da noi tutti non come un uomo capace di disvelare il senso «profondo» o «nascosto» delle cose ordinarie.
Il quotidiano e la sua densità
La densità della vita, la profondità dei gesti e dei pensieri non riposa sotto la superficie dei gesti visibili. Le cose serie dell’esistenza sono prima di tutto quelle che si dicono, si fanno e si mostrano nei gesti quotidiani e nelle azioni abituali di ogni giorno. La profondità e superficiale! Quando Francesco ci ricordava che nella quotidianità delle relazioni familiari o di coppia non devono mai mancare parole come «grazie, permesso, scusa», voleva dirci che quelle parole non sono la «manifestazione» di qualcosa di più serio e profondo, ma che sono esse stesse un elemento serio e profondo delle nostre giornate. Credo che Francesco, attraverso il suo approccio alla vita e il suo modo di essere, non abbia dato valore o dignità a ciò che definiamo come «quotidiano».
Egli ha invece mostrato che il quotidiano è un assemblaggio di elementi differenti, di cose diverse (azioni, emozioni, pratiche, valori, gesti, parole) che non devono essere sempre necessariamente organizzate secondo una gerarchia di priorità o classificate secondo un criterio di importanza. Gli elementi che compongono la vita quotidiana sono tutti superficiali e sono tutti allo stesso tempo profondi. La rilevanza che diamo alla vita quotidiana è un modo per dire che non è importante la gerarchia valoriale degli elementi eterogenei che compongono le nostre giornate, sono importanti invece i modi personali o condivisi con cui li organizziamo, mettendoli insieme e facendoli funzionare.
Sono convinto che Francesco, col suo semplice modo di essere e di agire, abbia additato l’orizzonte ordinario della vita quotidiana come “caso serio” per la vita della chiesa. Il quotidiano infatti non è il luogo in cui la densità pregnante delle cose si rende visibile concretizzandosi. Il quotidiano è invece l’unico orizzonte possibile in cui l’assemblaggio delle cose (persone, oggetti, pratiche, valori) aderisce alla vita stessa fino a coincidervi. Saremo in grado di attribuire valore ecclesiale al quotidiano e alle pratiche che lo costituiscono nella misura in cui identificheremo il quotidiano stesso come il luogo dove le interdipendenze si intensificano e come luogo dove tutti apprendiamo collettivamente.
Nelle pratiche della vita quotidiana ci esercitiamo a percepire e riconoscere «da chi» o «da cosa» dipendiamo. Il principio dell’interdipendenza ecologica continuerà ad avere un significato anche per la vita quotidiana delle chiese: anche la vita ecclesiale è fatta di connessioni e implicazioni (tra persone, contesti, ruoli), anche la vita ecclesiale è un contesto di apprendimento collettivo.
Ho letto tempo fa un’illuminante affermazione attribuita allo scrittore tedesco Rainald Goetz: «Tutto è rotto, ma in qualche modo funziona». Trovo questa frase molto acuta ed efficace perché mette l’accento non sul tempo di disgrazia e decadimento in cui talvolta crediamo di vivere, ma sul fatto che per i cristiani ogni tempo è un contesto propizio all’apprendimento.
Le cose che compongono il mondo e le nostre vite non saranno mai perfettamente in ordine, saranno invece l’orizzonte vitale in cui la gioia di apprendere non ci verrà tolta. Sono convinto che la sinodalità continuerà il proprio cammino nella chiesa solo se saremo in grado di connetterla con la gioia di apprendere insieme dentro la chiesa. L’apprendimento sociale e collettivo, inteso come dinamismo vitale e appassionante, sarà il testimone di un cammino ecclesiale che non disperderà le speranze già dischiuse nelle pratiche sinodali in cui ci siamo impegnati e personalmente giocati in questi anni.
Pratiche di apprendimento
Affermare dunque che tutto è rotto, ma in qualche modo funziona significa dare valore al modo con cui quotidianamente rendiamo possibile e tuttavia entusiasmante il funzionamento delle nostre vite, delle nostre famiglie, delle nostre comunità. Per questa ragione, il «come posso» di Francesco non va letto come una dichiarazione di rassegnazione, ma come una disposizione all’apprendimento. Apprendere significa prima di tutto trovare una strada dentro tutte quelle realtà che non si comprendono appieno. «Farò come posso» significa che cercherò, fino alla fine, di trovare una strada percorribile senza farmi intimorire o abbattere dalla sensazione di non conoscere ancora chiaramente dove quella strada mi porterà.
Le pratiche di apprendimento avranno un ruolo centrale nella chiesa perché sono in grado di immettere il popolo di Dio in un dinamismo ecclesiale che è allo stesso tempo un dinamismo evangelico: Gesù è maestro perché non separa né differisce il tempo dell’apprendimento e della preparazione rispetto al tempo della vita matura o compiutamente realizzata. Ritengo che molti dei problemi e delle impasse comunicative che come chiesa dobbiamo fronteggiare sono legate con l’esercizio sistematico di questo differimento: crediamo che prima sia necessario prepararsi adeguatamente alla vita (affettiva, comunitaria, sacramentale) e solo successivamente sarà possibile vivere in pienezza o consapevolmente.
Stando a questo schema l’esistenza individuale delle persone viene smembrata in due parti nettamente distinte: una prima fase di preparazione alla vita e una seconda in cui è possibile finalmente vivere. Stando sempre a questo schema anche l’esistenza collettiva dei gruppi sociali viene rigidamente scomposta in due categorie di persone: da un lato quelli che si preparano a svolgere un lavoro o una funzione (studenti, apprendisti, novizi, seminaristi), dall’altro quelli che sono finalmente in grado di svolgere un lavoro o una funzione. Secondo questa logica, i primi tendenzialmente non dovranno fare cose insieme ai secondi, anzi è bene che frequentino luoghi propri e appartati rispetto a coloro che sono finalmente entrati nella vita (professionale o ministeriale).
Il differimento del tempo dell’apprendimento rispetto al tempo della vita è un preoccupante elemento di segmentazione dell’esistenza individuale e collettiva. Questo dato non può essere ignorato da chi si occupa o ha semplicemente a cuore le pratiche ecclesiali (pratiche catecumenali, liturgico-sacramentali, sinodali e così via).
La sinodalità come cura e valorizzazione delle pratiche mediante le quali il popolo di Dio cammina insieme, non può essere separata dalla sinodalità in quanto cura e valorizzazione delle pratiche mediante le quali il popolo di Dio apprende insieme. Per questa ragione la sinodalità non può essere ridotta a una questione che potrebbe avere o non avere un peso nell’imminente conclave. Sinodale è il solco stesso nel quale molti uomini e donne, innumerevoli battezzati e battezzate, si sono già convintamente avviati negli ultimi anni, non semplicemente assecondando alcune sensibilità o necessità, ma aprendo la possibilità di nuove abitudini e pratiche ecclesiali.
Sinodalità: pratica già attiva
Questo non è il tempo per valutare la fattibilità o la prosecuzione dei processi sinodali, è invece il tempo per riconoscere le pratiche sinodali che sono già attive e operanti all’interno della chiesa, nella vita delle comunità. Si pensi ad esempio a come l’ottica sinodale è entrata nell’accompagnamento dei catecumeni anche attraverso una semplice ma rivelativa precisazione linguistica: è ormai una prassi abbastanza consolidata parlare non di «corsi di preparazione ai sacramenti», ma di «percorsi di tipo catecumenale verso i sacramenti».
Nella prima dicitura è ancora vivo il principio del netto differimento tra il tempo della preparazione e dell’apprendimento da un lato, e il tempo del pieno godimento e apprezzamento della vita sacramentale dall’altro. Nella seconda formulazione invece è evidente un orientamento che non esiterei a qualificare come «sinodale». Infatti la caratteristica fondamentale degli itinerari di tipo catecumenale risiede nel fatto che mentre si cammina insieme verso i sacramenti, la grazia dei sacramenti è già in diversi modi presente ed esperibile. Se dunque è il Signore Gesù che «inizia» ed è l’intera comunità che «accompagna», ogni cammino di formazione in quanto percorso di apprendimento è un’esperienza di grazia che interessa sempre e comunque l’intera chiesa che «cammina insieme».
Ogni processo di apprendimento è ecclesialmente rilevante poiché è rilevante secondo una prospettiva sinodale. A tal proposito il teologo francese Roland Lacroix scrive che sono auspicabili «dei percorsi di tipo catecumenale verso i sacramenti, cioè degli itinerari che fanno già vivere della grazia dei sacramenti che preparano […] Si tratta ancora una volta di abbandonare una logica di “preparazione” – preparazione alla cresime, alla prima comunione, ecc. – immaginando un itinerario che alterni “periodi di ricerca e di maturazione” e “tappe liturgiche”»[1].
Se i processi autenticamente sinodali sono sempre processi di apprendimento ecclesiale, è bene ricordarsi che entrambi questi processi non si danno indipendentemente o al di fuori delle pratiche sociali. Secondo la filosofa tedesca Rahel Jaeggi, le pratiche «sono attività complesse in cui siamo impegnati, da soli o con altri. Sono esempi di pratiche sociali: fare la fila alla cassa durante la spesa, fare un bonifico bancario, offrire la cena agli amici, dare una festa, giocare a calcio, giocare a nascondino con i bambini, condurre un seminario, sostenere un esame»[2], ma anche organizzare una processione religiosa, fare un pellegrinaggio o partecipare a un consiglio pastorale parrocchiale.
L’attenzione e la cura verso il mondo delle pratiche diventa dunque un autentico compito ecclesiale ed è già uno dei marcatori più evidenti e rilevanti del «cambio di paradigma» che ha già segnato la vita della chiesa.
Le pratiche sociali infatti, così come le forme di vita che ne scaturiscono, non sono semplicemente dei modi per «fare alcune cose insieme», sono altresì dei contesti di vita e di azione in cui troviamo insieme una strada dentro realtà che non comprendiamo ancora pienamente. Per fare questo è necessario continuare a studiare. Bisogna sperimentare nuove forme di apprendimento formale (scolastico o accademico) e informale (collettivo o sociale). Ha infatti ragione il filosofo dell’educazione Jan Masschelein quando afferma che in tutte le autentiche pratiche di studio impariamo «non a vedere ciò che pensiamo, ma a pensare ciò che vediamo»[3].
[1] R. Lacroix, Accompagnare I catecumeni. Guida pastorale, catechetica e liturgica, Queriniana, Brescia 2024, 117-118.
[2] R. Jaeggi, Critica delle forme di vita, Mimesis. Milano-Udine 2021, 96.
[3] J. Masschelein, “Turning a City into a Milieu of Study: University Pedagogy as Frontline”, in Educational Theory, LXIX, 2019/2, 200.





