
Il primo Regina Coeli di papa Leone XIV (photo by Cecilia Fabiano/LaPresse)
«Fermiamoci alle impressioni, le prime, forse possono essere quelle decisive». Il professor Rocco D’Ambrosio, docente di filosofia politica alla Pontificia Università Gregoriana e per diverse volte visiting professor in alcune università americane, comincia dal nome e spiega: «Leone richiama Leone XIII, il Papa che dà una svolta al magistero sociale, anzi inizia il magistero sociale moderno. Ma fa anche pensare a frate Leone, l’uomo che più di ogni altro restò vicino a San Francesco».
- Quindi una continuità, ma anche un messaggio preciso?
Certo. Intreccia dottrina sociale e la cosiddetta regula della fraternità, la nuova regola di Francesco che frate Leone scrive insieme al santo di Assisi a Fonte Colombo nel 1223, confermata poi con la lettera di Onorio III. Leone XIII nella sua enciclica più famosa parla di giustizia nel lavoro e per i lavoratori e prende le distanze sia dalla soluzione liberista, sia da quella marxiana. Nel magistero della Chiesa prima viene il lavoratore, poi il lavoro e solo terzo posto il profitto. Oggi la prospettiva appare ribaltata e qualche volta bisogna fare come Gesù che scaccia i mercanti dal tempio.
- Papa Americano?
La maggior parte della sua vita Prevost l’ha passata in America latina e in Perù, pur essendo nato negli Stati Uniti. E anche questo fa riflettere e poi il suo doppio passaggio romano da giovane studente, padre generale degli Agostiniani e poi negli ultimi due anni prefetto del Dicastero dei Vescovi, uno dei più strategici di un Pontificato. L’origine è cosmopolita, figlio di immigrati francesi e spagnoli con un pizzico di sangue italiano. Infine, il percorso culturale con studi in diritto canonico accanto a tanto impegno pastorale vicino al popolo. Papa americano è una definizione non corretta e riduttiva. Il periodo statunitense riguarda l’infanzia, gli inizi degli studi, la gioventù. Poi è andato altrove.
- Nel saluto dalla Loggia delle Benedizioni ha parlato in italiano e spagnolo, ma non in inglese. Perché, secondo lei?
È anche questo un messaggio abbastanza preciso. Si rivolgeva alla Chiesa di Roma di cui è vescovo e solo per questo motivo è Papa. Poi ha usato la lingua del cuore che sembra essere non l’inglese, ma lo spagnolo.
- Trump tuttavia si è subito precipitato nell’abbraccio.
Sappiamo come è fatto il Presidente Trump. Tende a inserirsi per primo in rete, spesso con una battuta. Ma una battuta non crea un rapporto e non cambia le persone. Una volta un amico americano mi ha detto che loro sono statunitensi e… Questo sta nel loro DNA. L’identità americana è multietnica e in essa c’è accoglienza, solidarietà, apertura al mondo. Tutte doti che Papa Leone sembra avere. Questi sono gli americani veri. Prevost è figlio di immigrati e poi è andato a lavorare nell’altra America. Insomma, pienamente americano, senza il bisogno da parte di nessuno di sottolinearlo, a meno che i fini siamo altri.
Essere stato fino a pochi giorni fa anche presidente della Pontificia Commissione per l’America latina vi aggiunge un’ottima conoscenza di tutti i problemi anche quelli più nascosti nella Chiesa e fuori.
- E sui temi cari a papa Francesco?
Il discorso, perché di questo si è trattato, dalla Loggia delle Benedizioni è stato un piccolo sussidiario di continuità con Francesco, soprattutto quanto ha citato la sinodalità. Ma ogni Papa è se stesso, non c’è una persona fotocopia di un’altra. Anche il Papa, come ogni uomo, è unico e irripetibile.
- Nel discorso tante volte la parola pace e mai la parola guerra. Cosa significa per un agostiniano?
Dobbiamo rendere onore a sant’Agostino che è stato utilizzato, spesso in modo malevolo, da chi vuole giustificare le guerre di ogni tipo. No. Sant’Agostino fa semplicemente ricorso al principio della legittima difesa. Papa Leone giovedì sera ha voluto parlare al positivo, indicare una strada oltre i conflitti. L’ha ripetuta tante volte perché sia chiaro qual è il primo problema nella sua agenda.
La storia della Sede apostolica, soprattutto nell’ultimo secolo, gira attorno alla parola pace. C’è chi, nel mondo e nella Chiesa, ha colto gli appelli, chi si è messo di buona lena a lavorare per la pace, ma anche chi ha voltato occhi e cuore dall’altra parte. Ma la Chiesa non ha mai smesso, da Benedetto XV a Giovanni XXIII fino a Papa Francesco con le loro parole e con quelle dei diplomatici vaticani, ad aiutare il mondo nell’ avviare processi di pace. I Pontefici non si sono mai fermati all’auspicio.
Prevost è in perfetta continuità con tutti i predecessori, con la pace in cima ad ogni pensiero, perché in cima ad ogni pensiero di Gesù: Pace a voi! Per il mondo intero dovrebbe diventare il saluto abituale di ogni giorno.
L’intervista è stata pubblicata su L’Eco di Bergamo del 10 maggio 2025





