Preghiera per i morti di Gaza

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La “Preghiera per i morti di Gaza”, composta da Andrea Tondi (qui), dura poco più di tre minuti. Eppure finisce per condensare le vicende umane di almeno tre millenni.

Quei flussi di donne, bambini e uomini proposti nel video musicale hanno suscitato in me il ricordo del grande Eraclito, il pensatore noto soprattutto per le sue metafore fluviali. Sì, tutto scorre, comprese la carne e le ossa di migliaia di innocenti destinati a perire.

Per non dire del sangue versato. Eppure lì, in Palestina, l’arco non “ha per nome vita e per opera morte”: si chiama morte, e basta. Morte e distruzione, una tragedia che non conosce prove d’appello. Vite spezzate a un mese, a cinque anni, a trent’anni, sospese tra il nulla e il nulla, tra la morte e la morte.

L’ebreo errante è guidato da Dio. Poniamoci per un istante in ascolto del teologo e filologo Pinchas Lapide: «l’ebreo ha un’altra concezione del tempo rispetto agli indo-germani. Gli indo-germani applicano la tripartizione drastica di qualsiasi cronologia, che è aliena allo spirito della lingua ebraica: passato, presente e futuro.

L’ebreo vive il tempo come un fiume che non conosce il presente, ma solo un fluire continuo dal passato al futuro, tanto che anche nei profeti d’Israele è difficile stabilire, sul piano puramente grammaticale, se parlano di un atto della Salvezza di Dio avvenuto nel passato, oppure di una promessa ancora da venire, perché passato e futuro sono amalgamati come in un fiume che non si arresta mai. Panta rhei, tutto scorre nella concezione ebraica del tempo.

Perciò, se l’ebreo dice amen, lo dice a quello che è oggi e a quello che sarà domani, e che per lui, con la sua fervida immaginazione, si estende fin dentro al presente, anche se per il lucido pragmatico non esiste ancora.

Il fiume, ecco cos’è: non fermarsi mai. È il principio dinamico; l’ebreo non si ferma mai, è così innamorato del futuro che il nome impronunciabile di Dio, il tetragramma, non è altro che una forma verbale del futuro: un avere effetto nel futuro, che rivela speranza e dice pienamente ‘sì’ a ciò che deve ancora accadere» (Viktor E. Frankl, Pinchas Lapide, Ricerca di Dio e domanda di senso. Dialogo tra un teologo e uno psicologo). Anche qui risuona Eraclito, è evidente.

Ma la carneficina di Gaza è, al contrario, priva di passato e priva di futuro; senza memoria e senza orizzonte. L’unica prospettiva lì è la morte, è lo sterminio insensato.

Tutto ciò emerge con forza nei pochi minuti della canzone di Tondi. André Neher, pensatore alsaziano ebreo del Novecento, giunge a dire che l’unica preghiera possibile è, al limite, il silenzio.

Ecco, il fluire delle note, delle immagini e delle parole di Tondi è un silenzio rispettoso dei morti, delle sofferenze di chi ancora vive in quella terra, nonostante tutto, del dolore indicibile di decine e centinaia di migliaia di umani; un silenzio, tuttavia, popolato di note musicali, di volti, di rimandi laici e religiosi (compresa un’invocazione a Maria).

Come dire: quel silenzio ci interpella, quei volti e quei suoni, quella preghiera a un tempo laica e religiosa ci chiamano, ci scuotono, sollecitano una nostra risposta.

Chiamati a sentire e a condividere quello stesso dolore e, insieme, ad agire per porvi un argine. Per contenerlo, quanto meno.

E un’altra immagine eraclitea assume una valenza sinistra: il fuoco. Il fuoco di Eraclito, di cui ciascuno di noi, ciascun “accidente” è forse appena una scintilla, simboleggia la continuità della vita. A Gaza, per contro, finisce per simboleggiare la continuità della morte.

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2 Commenti

  1. Ombretta Costanzo 1 giugno 2025
  2. Vincenzo Aquilante 1 giugno 2025

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