Ci sarà la guerra in Europa?

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In questo angolo di mondo, dove una pace inquieta ci accompagna, il pensiero di che cosa accadrà domani punteggia la routine quotidiana: si formulano ipotesi, si fanno previsioni, mettendo insieme brandelli di notizie che ci arrivano da più parti, mentre la mente si rifugia in un eterno rassicurante presente. Anche oggi, tuttavia, se una logica più ferrea ci sostenesse, potremmo profeticamente costruire – come H.R. Knickerbocker[1] con il suo libro Ci sarà la guerra in Europa? – le tappe che conducono ad un nuovo conflitto, non più a pezzi, secondo la definizione di papa Francesco, ma planetario.

Colpisce in questa inchiesta, pubblicata da Bompiani nel 1934 nella collana «Libri scelti per servire al panorama del nostro tempo», come i diversi interlocutori, intervistati dall’autore attraverso tutte le sedi europee, di fronte alla domanda sulla probabilità di una nuova guerra, delineino, in maniera puntuale, quanto sarebbe accaduto di lì a cinque anni, in seguito all’ascesa al potere di Hitler in Germania.

Tutti, dagli uomini di potere ai semplici cittadini, fanno risuonare un infausto «l’Europa ha paura» e «l’Europa aspetta» – quasi fosse alla vigilia di un altro 1914 – che il conflitto deflagri, perché è opinione diffusa che «Hitler significa la guerra». Permangono validi i due opposti schieramenti della Piccola Intesa e dell’asse Germania, Austria, Ungheria e Bulgaria.

Le irrisolte questioni, relative al controllo del Corridoio di Danzica a Est e del bacino della Saar a Ovest, sollecitano il riarmo tedesco e accendono il desiderio di ottanta milioni di tedeschi, sparsi nel continente, di essere riuniti sotto la bandiera Swastika. Una delle parole d’ordine è «guerra preventiva», che i Francesi, in particolare, hanno in cuore di combattere e di vincere ora «per prevenire un’altra guerra che si teme di perdere» in futuro.

Le sedi dell’Europa Orientale

Dopo le elezioni del 1933, che decretano la vittoria dei social nazionalisti, «Danzica alla patria tedesca» è lo slogan ricorrente da quando nel 1919, sotto la protezione della Società delle Nazioni, essa è stata proclamata Città Libera, anche se la convinzione del delegato di Hitler è che i rapporti fra Polonia e Germania miglioreranno perché «la guerra non rende» e la durata decennale del patto di non aggressione attenuerà le tensioni sul controllo del territorio.

Ma a Gdynia, la più giovane città europea, sorta al centro del corridoio per volontà della Polonia che l’ha resa fiorente di commerci e di affari, l’impressione è che i Polacchi non rinunceranno mai a questo sbocco sul mare voluto dal presidente americano Wilson. Tuttavia, è opinione condivisa che all’Europa sarebbero stati risparmiati molti problemi se quel corridoio, che separa il Reich dalla Prussia Orientale, non confermasse la Germania nella sua determinazione a volerlo riconquistare.

Nel 1933 Hitler e l’ambasciatore polacco a Berlino convengono che la Germania e la Polonia rinunceranno all’uso della forza per comporre le loro vertenze. È una notizia importante per tutta l’Europa, ma non per la Francia che non è più certa di poter confidare nell’alleato polacco nel caso di un eventuale attacco da parte della Germania. La sua sicurezza poggia su tre forze: «l’oro, i cannoni e i trattati» e l’accordo con la Polonia costruisce una catena protettiva intorno alla Germania. Ma il patto di non aggressione, stipulato direttamente dai due stati, dopo che Hitler ritirò la Germania dalla lega delle Nazioni, fa sì che in Francia «l’ansietà sia viva».

Anche sul fronte russo-polacco nel 1932 ci si è messi al riparo con un medesimo accordo, allorché «l’ombra lunga di Hitler si allungò verso Oriente».

Di fronte ai dubbi degli Europei riguardo l’affidabilità tedesca a rinunciare al corridoio e alla convinzione che essa si sia presa il tempo utile per riarmarsi, a Varsavia – secondo il parere di uno studioso di cose militari – si è certi che una tregua di dieci anni darà alla Polonia lo spazio per crescere a livello militare, economico e demografico.

Se anche la Germania crescesse in egual misura e anche di più, il lasso di tempo della pace farebbe sì che la soluzione della questione passi nelle mani di nazioni come l’Inghilterra e l’America dove l’opinione pubblica è schierata a favore dei Polacchi.

Il Presidente della giovane Ceco-Slovacchia è consapevole che il suo piccolo territorio (54.000 miglia quadrate) è minacciato dall’affermarsi dei movimenti Pangermanisti negli stati confinanti, che la Germania tende a unificare la sua popolazione interna con i quindici milioni di tedeschi sparsi nell’Europa dell’Est e che, se il loro numero raggiungesse i duecentocinquanta milioni – come previsto nel giro di un secolo – di necessità dovranno spingersi a Oriente – Drang nach Osten – , non potendo vivere nel Continente «stipati come coolies».

Tuttavia, il Presidente osserva che per fare una guerra servono quattrini e l’organizzarla è un lavoro gigantesco, mentre le speranze per questo giovane stato stanno nei trattati, nella consapevolezza che né Francia né Inghilterra hanno interesse alla scomparsa di tali piccole realtà e che il problema Hither è un problema europeo.

Per Edoardo Benes, cofondatore della Ceco-Slovacchia insieme al Presidente Masaryk, le probabilità di un conflitto sono fifty-fitfy e, se questo non scoppia fra cinque anni, lo si potrà considerare sventato.

I popoli non sono pronti a una guerra né tanto meno ad una preventiva. Perciò l’alternativa è costruire un fronte unico da parte dei paesi “amanti della pace”, rinsaldare l’unità della Ceco- Slovacchia di fronte all’affermarsi dei movimenti social-nazionalisti nei paesi limitrofi e il suo sistema democratico.

Anche l’Austria rientra fra le aspirazioni della Germania, per più ragioni: (1) Economiche, perché dalla montagna dell’Erzberg essa potrebbe ricavare il minerale di ferro necessario per preparare «qualunque cosa le faccia comodo» e che ora – a causa del Trattato di Versailles che le ha sottratto le miniere dell’Alsazia-Lorena, Lussenburgo e Saar – è costretta a importare dalla Svezia, dalla Spagna e da Algeri. (2) Geopolitiche, perché con questa annessione, esercitando pressioni sulla Romania e passando attraverso l’Ungheria, potrebbe conquistarsi un varco verso il mar Nero e verso Oriente e, approssimandosi all’Italia, anche sul mar Adriatico.

L’annessione dell’Austria è inoltre facilitata dall’errata politica del Cancelliere austriaco Dollfuss, che per mantenere la fragile indipendenza della nazione – peraltro assai onerosa –, il controllo su di essa e avere le mani libere contro l’avanzata dei social-nazionalisti, ha attaccato i socialisti. Ma l’imprevista reazione delle masse operaie ha indebolito il suo governo e reso un servizio alle forze social-nazionaliste che si sono viste risparmiare la fatica di eliminare gli avversari e aprire la strada alla propria affermazione.

Roma e le sedi dell’Europa neutrale

A Roma il pericolo di una guerra non dà riposo al Duce: catalizzatore di ogni informazione, tutto confluisce in lui e tutto parte da lui. Ministro degli Esteri e Ministro delle forze armate, tutti i reparti dell’esercito fanno idealmente capo a lui. La sua potenza poggia sul «grado di informazione, il suo giudizio, la sua volontà».

Mussolini è convinto che l’accordo stipulato da Hitler con la Polonia garantirà la pace in Europa per dieci anni almeno, mentre l’Austria deve conservare la sua indipendenza: «La storia insegna che austriaci e tedeschi, nonostante la comunanza di lingua e affinità di razza, hanno sempre esistito separatamente… ed hanno due culture fondamentalmente diverse».

Ma di fronte all’eventuale salita al potere dei social-nazionalisti austriaci, come potrebbe reagire l’Italia? Mussolini non specifica ma è chiaro che i Tedeschi, mediante il patto di non aggressione con la Polonia, intendono avere le mani libere per annettersi l’Austria.

Mussolini ritiene che per tutelarsi dall’escalation militare della Germania, l’unica strategia – da parte delle potenze occidentali e, in particolare, della Francia – sia stipulare accordi che ne limitino il riarmo.  Non avendo alternative, occorre fidarsi delle promesse di Hitler sottoscritte, a più riprese, in vari patti; l’organizzazione militare, inoltre, richiederà tempo alla Germania, ridotta negli effettivi dalla sconfitta subita nella Grande guerra. Siamo all’«undicesima ora» – dice –, ma costringere Hitler a limitare gli armamenti è l’unica carta da giocare per il Capo del Governo italiano.

Di questo sono consapevoli anche gli Stati neutrali come la Svizzera, l’Olanda e la Danimarca. Se si realizzasse, infatti, il sogno pangermanista, questi subirebbero pesanti amputazioni del territorio, soprattutto delle porzioni economicamente più redditive.

Le sedi dell’Europa occidentale

È chiaro a tutti i rappresentanti di questa parte dell’Europa che cogente è l’interesse di Hitler di riconquistare il bacino della Saar, un lembo di terra fra la Germania e la Francia che contiene sedici miliardi di tonnellate di carbone e meno di un milione di abitanti. I compilatori del trattato di Versailles stabilirono che questa regione – sotto il protettorato della Società delle Nazioni – passasse per quindici anni alla Francia, come risarcimento dei danni causati dai Tedeschi con la distruzione delle miniere carbonifere della Francia settentrionale.

Il plebiscito, previsto alla scadenza della concessione, stabilirà se la Saar debba ritornare alla Germania oppure restare alla Francia. L’esito è scontato, dal momento che l’unica lingua che qui si sente parlare è il tedesco e che «l’architettura, il vitto, l’ambiente, il popolo sono caratteristicamente tedeschi».

Nel 1930 il cancelliere del Reich ordinò di evacuare la Saar, ma ora è arrivato Hitler e gli oppositori temono di votargli contro perché venticinquemila militi «disciplinatissimi» delle Truppe d’Assalto veglieranno sulle urne, mentre i mille poliziotti della Delegazione della Società delle Nazioni, in maggioranza nazisti, non potrebbero mantenere il controllo della situazione. Tutta l’Europa, compresa la Società delle Nazioni, come garanzia del mantenimento della pace, accoglierebbe con sollievo la notizia della restituzione della Saar alla Germania. Tuttavia, se l’obiettivo fosse raggiunto, il timore delle forze avversarie è che la Germania si proietti sull’Alsazia-Lorena.

Anche la Gran Bretagna è allarmata: la sua posizione di neutralità costituisce un pericolo per la Francia e uno stimolo alla Germania a riconquistare la Saar. Ignorare la capacità della Germania di incrementare il suo potenziale aereo è altrettanto rischioso. Alla Camera dei Comuni le voci dei vari rappresentanti denunciano che il pericolo tedesco è reale e «più grave oggi di quando i Tedeschi invasero il Belgio nel 1914».

Per il «Demostene britannico» W. Churchill, «l’ombra delle ali» della guerra si estende su tutta l’Europa. Nessuna difesa sarà sufficiente di fronte ad un attacco dal cielo che colpirà «uomini disarmati, donne, bambini». I popoli conoscono l’ingegnosità della «razza» tedesca, che con la sua scienza, le sue officine e i suoi «sport aerei», in breve tempo, è capace di organizzare una «potente forza aerea».

La Germania è inoltre governata da un pugno di autocrati, padroni assoluti della nazione, svincolati da ogni legame con il passato dinastico, da restrizioni democratiche – costituzionali e parlamentari – che possono imporsi sul potere esecutivo. A guidarli è l’«amarezza della sconfitta» e il giorno dell’attacco all’Inghilterra non è lontano, forse a solo diciotto mesi.

A Berlino nessuna propaganda pacifista potrebbe riuscire più efficace delle cartine pubblicate dai social nazionalisti, che indicano quanto sarebbe amputato il territorio germanico se non si ricorresse alla guerra: la Francia si prenderebbe la riva sinistra del Reno, la Polonia una larga fetta della Germania baltica, la Ceco-Slovacchia la Sassonia e il resto della Germania verrebbe suddiviso fra gli Stati tedeschi indipendenti. Per questo la corsa agli armamenti è cominciata e oggi la domanda non è più: «Scoppierà la guerra?», ma: «Quando scoppierà?».

Chi dovesse leggere questo libro-inchiesta di novant’anni fa, non può non rimanere impressionato dalla sua conclusione, giacché anche in questo nostro 2025 la domanda: «Quando scoppierà la guerra?» è a fior di labbra. A distanza di quasi un secolo, una coscienza più vigile ci sosterrà nel compiere ogni sforzo perché non accada?


[1] H.R. Knickerbocker, (Texas, 1898 – Bombay 1949), fu uno dei più grandi corrispondenti esteri americani. Nel 1923, al tempo del putsch di Hitler, si trova a Monaco. Nel 1931 ricevette il premio Pulitzer per i suoi servizi sull’Unione Sovietica e, in seguito, sulla Germania prenazista e nazista, sulla guerra italo-etiopica, la guerra civile spagnola e il conflitto cino-giapponese.

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Un commento

  1. Mario B. 13 giugno 2025

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