Gli Stati Uniti di Netanyahu

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In Francia c’è un proverbio che più o meno recita così: ogni giorno porta la sua pena. Si sa che i francesi, in media, non sono particolarmente ottimisti; tuttavia, dal novembre del 2024, quando Donald Trump è stato rieletto, tutte le ipotesi più pessimistiche sono state scavalcate, in peggio, dalla realtà. Quasi ogni giorno ci si risveglia ritrovandosi in un mondo messo peggio di quanto non lo fosse il giorno prima.

Che cosa possiamo dire dell’attacco militare americano all’Iran a poche ore di distanza? Innanzitutto che questo è (per ora) il punto più basso del declino degli Stati Uniti. Infatti, proprio mentre Trump stava cercando di riscrivere con Teheran quell’accordo che lui stesso aveva stracciato qualche anno prima, Israele ha cominciato a bombardare i siti nucleari e militari in Iran, nonostante i tentativi del presidente americano di trattenere Netanyahu dal farlo.

Il primo ministro di Israele non solo lo ha ignorato, ma uno degli scopi del suo attacco era proprio trascinare Washington nel conflitto. In capo a poco più di una settimana di dichiarazioni contraddittorie del loro presidente – negoziato, resa incondizionata, evacuazione di Teheran, ultimatum e poi di nuovo negoziato – gli Stati Uniti hanno deciso di bombardare anche loro l’Iran.

C’è chi sostiene che Donald Trump rischi di giocarsi almeno una parte della sua base MAGA, contraria non solo a ogni intervento militare esterno (quelli interni, tipo Los Angeles, sono invece di suo alto gradimento), ma a qualsiasi azione, anche solo diplomatica o, peggio, umanitaria, all’esterno.

Il possibile contraccolpo sulla sua base più intima è di sicuro un aspetto che Trump ha preso in considerazione, perché nei suoi calcoli non c’è l’interesse degli Stati Uniti ma solo l’interesse per sé stesso; non cosa sarebbe importante e vitale per gli Stati Uniti, ma cosa è importante e vitale per sé, cosa ne esalta e cosa ne potrebbe danneggiare l’immagine.

In quel calcolo, è difficile che possa diventare un oggetto di preoccupazione un gruppo di individui che sono essenzialmente dei credenti, disposti a idolatrare la loro divinità e ad accettarne i decreti quali essi siano: le vie di Trump sono infinite e tutte imperscrutabili.

Dimenticate la coerenza

Di scarso peso è anche l’osservazione circa l’incoerenza di Donald Trump, eletto con la promessa di tenere gli Stati Uniti fuori da ogni guerra, salvo poi minacciare azioni militari (contro il Canada, la Danimarca, Panama e il Messico) e farle (contro lo Yemen e ora contro l’Iran).

Di scarso peso per tre ragioni: la prima è che Trump cambia opinione ogni giorno e ogni momento del giorno, per cui pretendere da lui coerenza è come pretendere che la Terra cessi di girare intorno al proprio asse; la seconda è che, come disse Jacques Chirac una volta, «le promesse elettorali impegnano solo chi ci crede»; la terza è che è già successo, e su una scala assai più importante: nel 1916, Woodrow Wilson – l’inventore dello slogan «America First» – fu eletto dopo essersi impegnato a tenere gli Stati Uniti fuori dal conflitto in corso in Europa, salvo poi dichiarare guerra alla Germania un mese dopo il suo ingresso alla Casa Bianca; il che non impedì agli americani, fin lì fieramente e quasi unanimemente isolazionisti, di sostenere con entusiasmo l’intervento.

Allo stesso modo, Franklin Roosevelt, rieletto alla fine del 1940 con la stessa promessa, portò il paese in guerra alla fine del 1941.

Ovviamente il paragone non vale molto perché, nel 1916, gli Stati Uniti erano una potenza emergente, dinamica, forte e ottimista, mentre gli Stati Uniti di oggi sono una potenza declinante, disorientata, divisa, cioè, fondamentalmente, in preda al panico.

Chi si può opporre

Da dove potrebbe venire un’eventuale opposizione? Anche lasciando da parte la base MAGA, all’interno degli Stati Uniti c’è sicuramente una diffusa sensibilità ostile a ogni nuova avventura militare, anche perché l’esito delle ultime non è stato particolarmente brillante; ma, per quanto riguarda la popolazione americana in generale, tutto dipende da come evolveranno le cose: eventuali attacchi iraniani o di amici dell’Iran ai loro soldati, alle loro postazioni e, perché no, alle loro città potrebbero rovesciare completamente quella sensibilità.

Difficilmente ci sarà una seria opposizione da parte dei democratici, che sono ancora più disorientati e divisi dei repubblicani; certamente non ci sarà da parte degli stessi repubblicani, anche perché, all’interno del partito – sempre che di partito si possa parlare – ci sono correnti molto importanti e radicate che sognano la distruzione dell’Iran fin dal 1979. Attenzione, però: non perché esecrino gli ayatollah o esecrino i dittatori o perché siano preoccupati della proliferazione nucleare.

Gli Stati Uniti hanno trafficato con quasi tutti i dittatori del mondo; alcuni li hanno portati al potere proprio loro (per esempio, in Iran nel 1953); lo hanno fatto, anche all’epoca di Barack Obama, e continuano a farlo ancora oggi, anzi, oggi lo fanno con più convinzione che mai.

Non ce l’hanno nemmeno con gli ayatollah in quanto tali: ricordiamo che subito dopo l’arrivo al potere di Khomeini, Washington tentò in ogni modo di mettersi d’accordo con il nuovo governo a Teheran, arrivando perfino a negare allo scià in esilio (quello stesso scià che avevano rimesso sul trono nel 1953 e protetto amorevolmente fino alla fine del 1978) l’ingresso negli Stati Uniti per farsi curare un cancro.

Ciò che determinò la rottura all’epoca fu la cattura degli ostaggi all’ambasciata americana da parte della teppa organizzata di Khomeini (i famigerati pasdaran), una manovra dello stesso ayatollah supremo con lo scopo precisamente di impedire ogni accordo con Washington. Quell’umiliazione è rimasta una piaga aperta nella coscienza dei nazionalisti americani, un insulto che doveva essere lavato prima o poi.

Il nucleare, infine, è solo un pretesto. Gli Stati Uniti non sono contro la proliferazione per principio, ma solo contro la proliferazione di quelli che non possono controllare: hanno permesso al Regno Unito di dotarsi della loro bomba, seppur sotto supervisione, ma hanno fatto il possibile per impedirlo ai francesi; non sono intervenuti contro la proliferazione israeliana, ma avrebbero voluto evitare quella indiana.

Tra l’altro, si dimentica spesso che, proprio per controbilanciare il possibile nucleare di New Delhi (all’epoca sostenuta da Mosca), l’amministrazione Ford aveva fatto in modo, nel 1976, di permettere il controllo del ciclo completo dell’atomo a… l’Iran.

Perché adesso

Nonostante la brama di vendetta dei falchi – sia Repubblicani che Democratici – gli Stati Uniti non sono fin qui intervenuti contro l’Iran. Perché lo fanno oggi? perché oggi, come detto all’inizio, gli Stati Uniti sono deboli come non lo sono mai stati prima in tutta la loro storia.

Quali che ne siano le conseguenze, che ora ovviamente non possiamo prevedere, l’intervento americano è stato deciso non a Washington ma a Gerusalemme. Netanyahu, cioè il vero presidente degli Stati Uniti, ha parlato di «decisione storica».

Può darsi; ma se effettivamente questa decisione lascerà un segno sulla storia possiamo essere sicuri che sarà un segno negativo, un passo in più verso una conflagrazione più ampia e disastrosa.

Non è detto che vada a finire così. Può darsi che l’Iran non ce la faccia. Però, anche se questo fosse il caso, nessuno si sta preoccupando di quali potrebbero essere le conseguenze di un eventuale crollo del regime a Teheran. Quel che è certo è che, se l’Iran sparisse dalla bilancia geopolitica del Medio Oriente, il risultato sarebbe una rottura definitiva di quella bilancia.

Gli Stati Uniti intervennero nella Grande Guerra precisamente per evitare la rottura della bilancia europea, cioè il contrario di quel che stanno facendo oggi.

Il rischio attuale è di eliminare dallo scacchiere mediorientale una delle pedine più importanti, scatenando così la rincorsa, tanto improvvisata, confusa e senza dubbio violenta, di tutte le altre pedine, regionali e non.

La politica, come la natura, ha orrore del vuoto. Se c’era ancora un briciolo di stabilità ed equilibrio nel Medio Oriente, cioè in una delle regioni meno stabili e meno equilibrate del mondo, quel poco rischia ora di essere spazzato via.

Un’ultima considerazione: mentre noi siamo qui a enumerare le ragioni che alimentano le nostre inquietudini, è pressoché certo che a Mosca e a Pechino, oggi, si stia stappando lo Champagne.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 22 giugno 2025

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