
«Nel 1948 mio nonno aveva 12 anni. Mi raccontò che delle persone vestite in modo strano, con delle armi, entrarono nel villaggio e, davanti a lui, spararono ai suoi genitori. Mio nonno non aveva ancora compiuto 12 anni. Gli dissero: ora tu vai via da qui e racconti, nei villaggi vicini, quello che noi faremo: così nacque Israele».
Con queste durissime parole si è aperto il reading musical-fotografico intitolato Parlami di Gaza. Io l’ho visto, alcune settimane fa, a Mantova, organizzato in occasione della annuale festa del nostro gruppo-associazione Refugees Welcome Italia.
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I protagonisti di Parlami di Gaza sono palestinesi con la loro drammatica vicenda umana. Lo spettacolo – che è accompagnato da una piccola mostra fotografica – viene proposto da tre giovani autori di Gaza. Mervat Alramli e Mohammed Abu Senjer, che attualmente vivono a Pesaro, portano in giro il reading.
Il terzo autore, Ahmad Jarboa, vive ancora, in mezzo alle tragedie quotidiane di Gaza e partecipa allo spettacolo con le sue fotografie. Parlami di Gaza – racconta Mervat introducendo le serate – «nasce perché, nonostante tutto il dolore, vogliamo avere speranza e credere nell’umanità, anche se ultimamente è molto difficile».
Personalmente faccio fatica a definirlo uno “spettacolo”. Con questo termine siamo soliti indicare qualcosa di creato ad arte, una “invenzione” degli autori. Le vicende raccontate da Parlami di Gaza non sono, invece, frutto di fantasia: sono la drammatica realtà di un massacro compiuto sotto gli occhi del mondo. Per questo motivo, se proprio dovessi trovare una definizione, preferirei usare quella di orazione civile.
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Mohammed propone, con lo strumento tradizionale – Oud – che si è portato dalla Palestina, intermezzi musicali fra le letture di Mervat Alramli. Mohammed vive in Italia dal settembre 2024. È riuscito a fuggire da Gaza, insieme alla sua famiglia, che ora è in Egitto, pagando una cospicua somma agli egiziani che all’epoca gestivano il valico. Ora vive a Pesaro ma nella Striscia «Mohammed ha perso tutto». Ha lasciato il suo passato ed ha visto svanire il suo futuro.
A Gaza frequentava l’università dove studiava informatica. È difficile per noi – sommersi come siamo dalla narrazione distorta dei mass media – pensare a una vita “normale” a Gaza, anche prima del 7 ottobre.
Le parole di Mervat ci ricordano che, sino a poco tempo fa, la vita era ancora possibile a Gaza: una vita fatta di piccole cose – raccontata la ragazza palestinese attraverso la prima delle letture – come la gioia dei bimbi che corrono a tavola chiamati dalla nonna, oppure come le speranze di un ragazzo universitario che sognava un suo futuro.
«Non è facile essere allegri» – commenta Mervat a margine di uno dei brani – «penso che lo dobbiamo essere nello stare qui insieme, guardandoci negli occhi, senza fare finta che non stia succedendo niente».
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I testi proposti con Parlami di Gaza sono molto eterogenei. Ho provato a trovare un filo conduttore: in ognuno dei testi c’è un richiamo, diretto o indiretto, al tema dell’infanzia.
Nel primo brano Mervat esprime la gioia di quando, negli anni Novanta, passava le sue giornate coi nonni. Ricorda cose semplici: la nonna che chiamava a tavola i bimbi, l’altalena sulla quale arrampicarsi per rubare i datteri, il giro al mercato col nonno che, prima di tornare a casa, comprava sempre un giocattolo. Quella di Mervat è un’infanzia così lontana e così vicina. Anche a noi, che non siamo mai stati a Gaza, questo racconto scalda il cuore.
Evoca la nostalgia della gioia smarrita, quando eravamo bambini. E non conta che uno sia palestinese, l’altro ebreo, americano o europeo: viviamo tutti, allo stesso modo, una sorta di “diaspora” dalla nostra infanzia.
Il racconto che segue è una lettera che Mohammed, il giovane musicista fuggito da Gaza nel 2024, ha scritto poco dopo l’arrivo in Italia. Il testo è molto duro e invita a riflettere sulla condizione di un ragazzo che, dopo aver perso tutto, si trova a vivere una vita che non è la sua, racchiusa dentro alle etichette lessicali di “rifugiato” o di “profugo”.
Anche in questo c’è un richiamo all’infanzia. Nel testo, Mohammed racconta l’abbandono dalla protezione del letto materno. «Un bambino di solito non scorda mai il primo giocattolo», commenta Mervat leggendo la sua lettera, «ma un bambino di Gaza non scorda mai l’esplosione del primo missile»: quello spaventoso boato è un fragore che rimane nelle orecchie per tutta la vita.
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Mi è capitato spesso di pensare all’infanzia rubata dei bambini palestinesi. Anche quelli che sopravvivono, sono costretti – pensavo io – a passare istantaneamente all’età adulta. La vita, per noi che viviamo in pace, è scandita da fasi abbastanza precise: l’infanzia, l’adolescenza, l’età adulta, la vecchiaia. Per un palestinese non è così e Mohammed, in una sua toccante lettera, ci dice che «un bambino palestinese passa dall’infanzia alla vecchiaia dell’anima».
Durante Parlami di Gaza, in sala sono esposte le foto di Ahmad Jarboa, ma non solo quelle. Dietro, alle spalle di Mervat, ci sono le immagini di quattro bambini. «I loro nomi sono Yamen, Karmal, Kinan, Orkida» – commenta lei durante la lettura – «ma non ci sono più: sono stati costretti a rifugiarsi dentro la casa che poi è stata bombardata dall’esercito israeliano».
Questa parte dello “spettacolo” è, come ammette la stessa lettrice, una delle più strazianti. Sarà perché sono genitore anch’io, ma la storia di Alaa Alqatrawi, la mamma di queste quattro piccole vittime, mi ha scosso profondamente. L’idea di veder morire i figli è qualcosa di umanamente inconcepibile.
Questi due anni di guerra ci hanno insegnato che sono proprio i bambini le prime vittime. Padre Ibrahim Faltas, vicario della Custodia di Terra Santa, la scorsa primavera commentava così a Vatican News: «Troppe morti di minori nella Striscia: ammazzare degli innocenti, incapaci di fare del male, è una macchia che l’umanità non potrà cancellare dalla sua storia».
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A fine maggio l’UNICEF parlava di 50.000 bambini tra morti e feriti. La strage senza fine dell’infanzia a Gaza è qualcosa che va ben oltre il concetto di “effetto collaterale”. La giornalista Rula Jebreal, nel suo libro intitolato Genocidio, riporta la testimonianza di numerosi medici che, nel vano tentativo di soccorrere i bambini feriti, hanno notato qualcosa di strano.
Molti corpi arrivavano con un doppio foro di proiettile: uno alla testa ed uno al torace. La giornalista israelo-palestinese, alla luce delle e testimonianze, parla di vere e proprie esecuzioni ai danni dei più piccoli. D’altra parte, uccidere i bambini è il modo più sicuro per ammazzare il futuro di un popolo. Terribile.
Dopo aver visto e ascoltato Parlami di Gaza ho riflettuto a lungo ed ho pensato a quanto, per noi occidentali, sia difficile immaginare cosa si possa provare in quelle esperienze. Io sono europeo e, in un certo senso, posso dirmi “benestante” perché non mi manca nulla.
Ho avuto l’inestimabile fortuna di vivere in un contesto di pace. E le orecchie di mia figlia non hanno mai conosciuto lo spaventoso boato di un missile. Eppure, c’è un qualcosa nelle parole di Mervat e di Mohammed, e nelle foto di Ahmad, che riesce a raggiungere anche me, anche noi che siamo così diversi, lontani e molto più fortunati: il racconto dei bimbi palestinesi…
Pensavo: l’infanzia, con la sua purezza, innocenza e spensieratezza, è ciò che accomuna tutti gli esseri umani, a prescindere dalla razza, dall’etnia o dalla religione. Tutti, in ogni angolo del mondo, sono e siamo stati bambini e bambine; e in quella fase della vita, non c’erano ancora bandiere da sventolare o nemici da odiare.
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I pensieri portano, da sé, alle parole del Vangelo: In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli.
Gesù viveva in quella stessa Palestina che, allora come oggi, era abitata da una popolazione molto eterogenea: non c’erano solo ebrei, ma anche samaritani e gentili. Quel bambino che Gesù, nel vangelo di Matteo, ha chiamato a sé per metterlo in mezzo ai discepoli era come uno dei bimbi di Gaza oggi: prima ancora di essere un ebreo o un gentile, era semplicemente un bambino.
Il reading musicale Parlami di Gaza si conclude con un monito rivolto anche alla “democratica Europa” che ha consentito e consente questa strage senza fine.
Parlami di Gaza non dice solo di Gaza, ma anche di noi stessi: dell’innocenza dell’infanzia che abbiamo smarrito e, con essa, le parole di Gesù, che forse non abbiamo mai veramente capito per fede. Per fermare le guerre basterebbe seguire, in effetti, quell’invito a convertirsi per diventare come bambini nel cuore, perché ad essi – ai bimbi – come quelli di Gaza appartiene il Regno dei Cieli.





