XI Per annum: Contempleremo la spiga matura

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Abbiamo l’impressione di assistere a un rapido declino dei valori cristiani: vediamo l’uomo che tenta di liberarsi dell’idea di Dio, colloca se stesso come punto di riferimento assoluto, come misura di ogni cosa, si costituisce arbitro del bene e del male, assolutizza le realtà di questo mondo e ritiene la fede un aspetto ormai desueto della vita. È questo il secolarismo, fenomeno che ha radici storiche remote, ma che ha toccato il suo apogeo nel nostro tempo. Come mai?

Nella ricerca delle cause, c’è chi ne attribuisce la responsabilità ai preti che, sempre più pavidi, evitano di richiamare quelle verità che, in passato, quando le chiese traboccavano di fedeli, costituivano i temi ricorrenti della catechesi: il giudizio di Dio, la condanna eterna, il diavolo, i castighi.

La verità è un’altra: oggi stiamo pagando le conseguenze di una evangelizzazione e di una catechesi che – senza voler attribuire colpe ai volenterosi predicatori e catechisti del passato – era slegata dalla parola di Dio.

Il futuro è nelle nostre mani. La chiesa ha ripreso coscienza del tesoro che il Maestro le ha consegnato: la Parola, seme che attende di essere sparso nel mondo in abbondanza, perché la fede rifiorisca su basi nuove e su un fondamento sicuro.

Chi oggi, con fatica, va spargendo nel mondo questo prezioso seme, non contemplerà la spiga matura, ma almeno lo stelo, questo sì, può chiedere al Signore di poterlo scorgere.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Solo il chicco di grano che scompare nella terra produce molto frutto”

Prima Lettura (Ez 17,22-24)

Così dice il Signore Dio:
“Io prenderò dalla cima del cedro,
dalle punte dei suoi rami coglierò un ramoscello
e lo pianterò sopra un monte alto, massiccio;
23 lo pianterò sul monte alto d’Israele.
Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico.
Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno,
ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà.
24 Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore,
che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso;
faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco.
Io, il Signore, ho parlato e lo farò”.

Questa profezia è stata pronunciata da Ezechiele in un momento particolarmente drammatico della storia d’Israele: Ioiachin, l’ultimo rampollo della dinastia di Davide, è stato sconfitto, fatto prigioniero e deportato a Babilonia.

Il disastro nazionale ha fatto vacillare la fede di molti israeliti che si chiedono come ha potuto il Signore, che ha promesso a Davide una dinastia eterna, permettere che Ioiachin fosse strappato dal trono di Gerusalemme, come un albero viene sradicato dall’uragano e trascinato lontano dalle onde impetuose di un fiume. Dio è forse venuto meno alla fedeltà che ha giurato al suo eletto?

A questo angosciante interrogativo Ezechiele che si trova fra i deportati a Babilonia risponde con un’immagine. La famiglia di Davide – spiega – è un cedro rigoglioso che un taglialegna barbaro e spietato, Nabucodònosor, re di Babilonia ha troncato e fatto a pezzi.

Dio però non si smentisce, non rinnega mai le sue promesse. Ecco cosa farà: andrà a Babilonia e, dal cedro devastato della dinastia di Davide, coglierà l’ultimo germoglio e lo trapianterà su un alto monte della terra d’Israele (v. 22). Questo pollone fragile e quasi senza vita, si svilupperà fino a divenire un immenso cedro sotto il quale prenderanno dimora tutti gli uccelli del cielo (v. 23).

La promessa è, a dir poco, sbalorditiva. Con l’immagine degli uccelli del cielo, il profeta allude, infatti, nientemeno che ai regni vassalli dell’immenso impero assiro (Ez 31,6). Questi – assicura – un giorno passeranno sotto il dominio d’Israele, gli saranno tutti sottomessi, come al tempo di Davide.

Quando proferiva questa profezia, Ezechiele sognava probabilmente una rapida restaurazione della monarchia davidica, ma gli anni passarono e le sue attese andarono deluse.

In questa situazione venne delineandosi con sempre maggior chiarezza l’attesa di un messia, di un germoglio della famiglia di Davide, destinato a realizzare pienamente le promesse fatte dal Signore al suo popolo.

Nel tempo stabilito le profezie si adempirono in Gesù, il germoglio del grande cedro che Dio ha piantato sulla terra. È lui l’atteso discendente di Davide. Gli uccelli che trovano ristoro all’ombra dei suoi rami rappresentano tutti i popoli, prima sottomessi al potere del male che li rendeva schiavi. I rami, a loro volta, potrebbero indicare le braccia accoglienti della comunità cristiana.

Questa lettura è un invito a fidarsi di Dio, sempre, ma soprattutto quando le nostre attese sembrano vane e le speranze deluse. Egli è colui che è solito “innalzare l’albero basso” ed è capace di far “germogliare l’albero secco” (v. 24).

Le espressioni impiegate da Ezechiele ci ricordano il canto di Maria: “Ha deposto i potenti dai troni, ha innalzato gli umili” (Lc 1,52). Ci richiamano, soprattutto, la somma opera di Dio: la risurrezione di Cristo. Dal sepolcro dove regnava incontrastata la morte, egli ha fatto sorgere la vita. Se egli ha compiuto un simile prodigio, saprà trasformare in vittoria ogni sconfitta.

Seconda Lettura (2 Cor 5,6-10)

Fratelli, 6 siamo sempre pieni di fiducia e sapendo che finché abitiamo nel corpo siamo in esilio lontano dal Signore, 7 camminiamo nella fede e non ancora in visione. 8 Siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo ed abitare presso il Signore. 9 Perciò ci sforziamo, sia dimorando nel corpo sia esulando da esso, di essere a lui graditi.
10 Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene che in male.

Abbiamo già detto nelle scorse domeniche che Paolo, ormai avanti negli anni, cominciava a sentire la stanchezza. Le sofferenze che aveva sopportato, le persecuzioni, i tradimenti degli amici, l’incomprensione di tanti fratelli di fede lo avevano segnato nel corpo e nello spirito.

Nella prima parte del brano di oggi (vv. 6-8) paragona la sua condizione a quella dell’esiliato: in questo mondo si sente straniero, vive lontano dalla sua terra, con il pensiero sempre rivolto alla patria che lo attende. Desidera stare per sempre con Dio e con Cristo e sa che, per raggiungere questa vita piena e definitiva, deve passare attraverso la morte, ma questo pensiero non lo spaventa.

Nella seconda parte (v. 9) si rende conto che il suo desiderio di lasciare questo mondo potrebbe essere inteso come una fuga dalle difficoltà, dalle sofferenze, dalle sue responsabilità nei confronti delle comunità cristiane nate dalla sua predicazione. Allora conclude: fintanto che il Signore mi vorrà lasciare in questo corpo, darò il meglio di me stesso.

Nell’ultimo versetto (v. 10) richiama, ricorrendo all’immagine tradizionale del giudizio di Dio, il valore e l’importanza decisiva della vita in questo mondo. La vita futura non nascerà dal nulla, germoglierà da ciò che ognuno avrà seminato in questa vita. Nessuno verrà rifiutato dal Signore, ma la capacità di accogliere il suo infinito amore sarà diversa per ognuno e dipenderà dalla migliore o peggiore “gestazione” vissuta in questo mondo.

Vangelo (Mc 4,26-34)

In quel tempo, Gesù diceva alla folla: 26 “Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; 27 dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. 28 Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga. 29 Quando il frutto è pronto, subito si mette mano alla falce, perché è venuta la mietitura”.
30 Diceva: “A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? 31 Esso è come un granellino di senapa che, quando viene seminato per terra, è il più piccolo di tutti semi che sono sulla terra; 32 ma appena seminato cresce e diviene più grande di tutti gli ortaggi e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra”.
33 Con molte parabole di questo genere annunziava loro la parola secondo quello che potevano intendere. 34 Senza parabole non parlava loro; ma in privato, ai suoi discepoli, spiegava ogni cosa.

Si può accelerare la crescita del regno di Dio?

A questa domanda Gesù risponde con una breve parabola, un piccolo gioiello, conservatoci soltanto da Marco, che costituisce la prima parte del vangelo di oggi (vv. 26-29).

È divisa in tre parti di diversa ampiezza, che corrispondono ai tre momenti in cui si svolge il lavoro agricolo: la semina (v. 26), la crescita del seme (vv. 27-28), la mietitura (v. 29).

La prima e la terza, quelle cioè in cui si descrive il lavoro del contadino, sono ridotte al minimo: “Getta il seme nella terra” (v. 26) e “mette mano alla falce” (v. 29), null’altro.

Molto più sviluppata è quella centrale che occupa due terzi della parabola. Il narratore vuole chiaramente richiamare tutta l’attenzione sul tempo della crescita; per questo, con una certa forzatura, non solo evita di enfatizzare l’opera del contadino, ma ignora volutamente attività che questi è solito svolgere, anche dopo la semina: protezione, ripulitura, irrigazione dei campi. A Gesù preme mettere in risalto una sola cosa: la forza irresistibile del seme che, una volta gettato nella terra, cresce da solo.

Della prima parte della parabola (v. 26) rileviamo un dettaglio: l’evangelista non impiega il termine tecnico seminare, ma racconta di un uomo che getta il seme, rendendo quasi percettibile l’ampio gesto delle braccia del contadino che sparge ovunque, con gioia e senza risparmio, i preziosi chicchi. È così che deve essere diffuso il messaggio evangelico, a profusione, e va lanciato nella terra, non in un campo definito e ristretto, ma ovunque, nel mondo intero. È l’invito a superare qualunque esclusivismo; nessun popolo può considerare riservate a sé le benedizioni di Dio.

Dopo la stagione della semina viene per l’uomo il momento in cui cessa il lavoro (vv. 27-28). Giorni e notti si succedono e l’agricoltore dorme e veglia senza poter più intervenire nella crescita. È inutile che si dia da fare, che si inquieti o si preoccupi, il processo in atto ormai non dipende più da lui; se si agita, se entra nel campo, provoca solo guai, calpesta e danneggia i teneri germogli. Non deve fare altro che attendere. Infatti, nel silenzio e in modo quasi impercettibile, ecco che inizia il prodigio: dalla terra spunta il seme.

La descrizione della crescita è accurata: prima compare lo stelo verde e tenero, poi la spiga e infine il chicco maturo. Uno sviluppo che lascia stupefatti e incanta, ma che non può essere forzato, richiede tempo e pazienza.

L’assimilazione del messaggio evangelico non è immediata; l’opera di trasformazione interiore dell’uomo richiede giorni e anni. Tuttavia, una volta che è penetrata nel cuore, la parola di Cristo mette in atto un dinamismo inarrestabile, anche se lento. Chi l’ha udita non rimane più lo stesso.

Una delle tentazioni più comuni agli apostoli del vangelo è lo scoraggiamento. Spesso si abbattono se non notano subito qualche risultato concreto della loro predicazione.

Il messaggio della parabola è rivolto soprattutto a loro. Se sono certi di aver annunciato il messaggio autentico di Cristo, se non l’hanno confuso con la sapienza di questo mondo, se non ne hanno svigorito la forza dirompente con l’aggiunta di un pizzico di buon senso umano, devono coltivare l’intima certezza che i frutti saranno copiosi.

La stagione e l’abbondanza del raccolto non dipende da loro, ma dal terreno, più o meno fecondo, in cui il seme della parola è caduto.

Modello di predicatore è Paolo che ai corinti dichiarava: “Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere” (1 Cor 3,6).

Il processo di maturazione va rispettato. Chi vuole accelerarlo rischia di lasciarsi prendere dalla frenesia, si convince di poter sostituire la propria azione a quella dello Spirito e, se interviene, perde facilmente il controllo e ricorre anche a metodi scorretti, fa uso della coercizione, non rispetta la libertà, mette in atto ricatti psicologici.

Coloro che, fin dai tempi di Sant’Agostino, sono giunti a giustificare il ricorso alla spada per costringere alla conversione, stanno a comprovare a quali aberrazioni conduca la mancanza di rispetto dei tempi di crescita del seme.

La parabola interpella tutti, genitori, educatori, responsabili della comunità cristiana che, pur animati dalle migliori intenzioni, si lasciano a volte prendere dall’impazienza, dalla fretta, dall’efficientismo, ottenendo, come unico risultato, di apparire irritanti, aggressivi, intolleranti.

Gran parte delle raccomandazioni dei maestri di vita spirituale è costituita da pressanti inviti all’impegno, all’attività instancabile, al lavoro febbrile. Il vangelo di oggi richiama un altro aspetto, altrettanto importante. Ci sono momenti in cui è necessario “dormire”, cioè saper attendere, mantenere la calma e sedersi a contemplare stupiti il seme che germoglia e cresce da solo. I frutti andranno certo al di là di ogni previsione. Chi non è convinto di questo non ha fede nella forza prodigiosa della parola di Cristo.

Anche la seconda parabola (vv. 30-32) è tratta dall’esperienza della vita dei campi. Il contadino vede ogni giorno piccoli semi scomparire nella terra e rinascere per divenire steli, arbusti e anche grandi alberi.

È questo stupefacente contrasto fra la piccolezza degli inizi e la grandezza dei risultati che Gesù intende mettere in risalto con la parabola del granello di senapa che, secondo l’opinione popolare, era il più piccolo di tutti i semi. La meraviglia derivava dalla constatazione che, da un chicco quasi invisibile, germogliava e cresceva, in una sola stagione, un arbusto che anche oggi lungo le rive del lago di Galilea può raggiungere i tre metri di altezza.

Con questa parabola Gesù non intendeva far profezie sui futuri trionfi della chiesa che, sorta da alcuni poveri pescatori, sarebbe divenuta un’istituzione solida, influente, capace di incutere timore e rispetto anche ai detentori del potere politico. Lo sviluppo del regno di Dio non si valuta con le statistiche perché, come riferisce Luca, non lo si può vedere o quantificare, si trova infatti nell’intimo di ogni uomo (Lc 17,21).

Il seme del regno di Dio rimane sempre piccolo e privo della gloria di questo mondo; gli effetti che produce superano invece ogni attesa e nella parabola sono presentati attraverso immagini prese dall’Antico Testamento.

La crescita rigogliosa dell’albero evoca l’esuberanza di vita, la pienezza del successo. Ezechiele paragona l’Assiria, giunta all’apice del potere, a un “cedro del Libano, bello di rami, folto di fronde, alto di tronco; fra le nubi era la sua cima. Aveva superato in altezza tutti gli alberi dei campi” (Ez 31,3-5).

L’ombra che difende dai raggi ardenti del sole è una metafora della protezione offerta dal regno di Dio a coloro che vi entrano (Sl 91,1).

Anche l’immagine degli uccelli che nidificano si ritrova spesso nell’Antico Testamento (Ez 31,6); raffigura coloro che, avendo accordato piena fiducia alla parola di Dio, costruiscono il loro nido nella casa del Signore (Sl 84,4), cioè impostano la vita in sintonia con i valori evangelici. Costoro sperimenteranno la beatitudine, la pace, la pienezza dell’amore, al riparo dell’ombra offerta dall’Altissimo (Sl 91,1).

La parabola è un invito a considerare la realtà con gli occhi di Dio. Gli uomini danno valore a ciò che è grande e a ciò che appare, giudicano i successi e i fallimenti delle persone in base al denaro accumulato, alla posizione di potere raggiunta, ai titoli onorifici, al prestigio, alla notorietà. Gesù ha capovolto la scala dei valori: “Chiunque diverrà piccolo, sarà il più grande nel regno dei cieli” (Mt 18,4).

Solo chi si sarà fatto piccolo come un granello di senapa diverrà “come un albero piantato lungo corsi d’acqua, che darà frutto a suo tempo e le sue foglie non cadranno mai” (Sl 1,3).

La parabola vuole infondere gioia e ottimismo. Un giorno appariranno a tutti le meraviglie operate da Dio attraverso chi, come suo Figlio, si sarà fatto umile e mite servo di tutti.

Di tutto il messaggio cristiano, questa è certo la parte più difficile da assimilare, perciò non desta meraviglia che non tutti la possano capire. Per i più rimane un enigma irrisolto, non perché non ne comprendano il significato, ma perché è umanamente assurdo e inconcepibile che, facendosi piccoli, si appaia grandi davanti a Dio.

Il brano si chiude con una annotazione dell’evangelista: “In privato, Gesù spiegava ogni cosa ai suoi discepoli” (v. 34). Sono necessari riflessione, silenzio e preghiera; bisogna dedicare tempo al dialogo con Cristo, occorre creare un clima spirituale adatto se si vuole accogliere, dallo Spirito, la luce necessaria per assimilare e tradurre in scelte di vita il messaggio di questa parabola.

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Un commento

  1. Salvatore 9 giugno 2021

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