“Tocca le ferite!”

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In questa omelia-meditazione pasquale, tenuta in una chiesa vuota della Repubblica ceca, a causa dell’epidemia di coronavirus, l’autore commenta l’episodio dell’incontro di Gesù con l’incredulo Tommaso, il quale solo dopo aver toccato le ferite delle sue mani e del suo costato diventa credente. Tomáš Halík, sacerdote, professore e psicologo, nella sua pluriforme esperienza ha visto tante volte in faccia e toccato con mano le ferite fisiche e morali dell’umanità sofferente. In questa omelia sottolinea come solo toccando le ferite del nostro prossimo noi possiamo riconoscere Gesù e il Padre ed esclamare in tutta verità con san Tommaso: «Mio Signore e mio Dio». “Toccare” le ferite dei nostri fratelli e delle nostre sorelle è perciò la prova più sicura di una vita cristiana autentica. In caso contrario, come dice Gesù nel Vangelo, sarà vano ripetere: «Signore, Signore!». (A cura di Antonio Dall’Osto e Francesco Strazzari).

Dal vangelo secondo Giovanni (Gv 20,24-29)

Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».

Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».

Un orfanotrofio di Madras

Dopo aver letto questo Vangelo ho lasciato il pulpito e sono tornato al mio seggio. Era il secondo giorno della mia visita in India. Era mattina presto nella cattedrale di Madras, situata nel cuore del cristianesimo indiano, dove fin dai tempi antichi è venerata la tomba dell’apostolo Tommaso, patrono dell’India.

In quel momento comprendevo ancora quel brano del Vangelo di Giovanni come è stato ed è sempre generalmente interpretato, cioè che con questa sua apparizione Gesù aveva dissipato i dubbi del suo scettico apostolo circa la verità della sua risurrezione, e “l’incredulo Tommaso divenne immediatamente credente”.

Non immaginavo che, prima della fine della giornata, questo Vangelo mi avrebbe di nuovo parlato – in maniera diversa e più profonda – e che mi avrebbe persino rivelato sotto una nuova luce il più grande mistero della fede cristiana: la risurrezione di Gesù e la sua natura divina.

Inoltre questa nuova percezione mi guidò gradualmente a un percorso di spiritualità di cui non sapevo ancora nulla. Mi mostrò “la porta degli increduli Tommaso”, “la porta dei feriti”.

Nel caldo pomeriggio di quel giorno, il mio collega indiano, un prete cattolico e professore all’Università di Madras, mi condusse prima nel luogo in cui, secondo la leggenda, l’apostolo Tommaso fu martirizzato, e poi in un orfanotrofio cattolico nelle vicinanze.

Durante i miei viaggi in Asia, Africa e Sud America, sia prima che dopo, avevo visto in faccia la povertà, e ho familiarità con la miseria morale grazie al mio lavoro di psicologo e alla mia esperienza come confessore – con le sofferenze nascoste del cuore della gente e gli angoli oscuri dei destini umani. Ho visitato i Golgota dei nostri tempi, i luoghi dei campi di concentramento dei nazisti e comunisti, e anche Hiroshima e Ground Zero a Manhattan, luoghi che suscitano intensamente le ancor vive memorie della violenza criminale lì perpetrata – ma anche dopo tutte queste esperienze non dimenticherò mai quella dell’orfanotrofio di Madras.

Nelle culle – che assomigliavano più a gabbie per il pollame – giacevano bambini abbandonati, con il ventre gonfio per la fame, esili scheletri rivestiti di pelle nera, spesso infiammata. In corridoi che sembravano interminabili, i loro occhi febbricitanti mi fissavano da ogni dove e mi tendevano le loro mani. Nell’aria irrespirabile, con tutto quel tanfo e quel pianto, ho sentito una nausea mentale, fisica e morale. Ho provato un soffocante senso di impotenza e di amara vergogna, quella che si avverte quando si è confrontati con i poveri e i miseri, vergogna per la pelle sana, lo stomaco pieno e un tetto sopra il capo.

Volevo codardamente andar via il più presto possibile da quel luogo (e non solo da lì), chiudere gli occhi e il cuore e dimenticare. Mi sono ritornate alla mente le parole di Ivan Karamazov, il quale voleva “restituire a Dio il biglietto di ingresso” in un mondo in cui i bambini soffrono.

Ma proprio in quel momento è emersa dal mio profondo una frase: “Tocca le ferite!”, e ancora: «metti qui il dito; guarda le mie mani. Tendi la tua mano e mettila nel mio fianco».

 All’improvviso ho sentito nuovamente la risonanza dell’episodio dell’apostolo Tommaso che avevo letto nel Vangelo di Giovanni nella messa di quella mattina sulla tomba del “santo patrono degli increduli”. Gesù si è identificato con tutti coloro che sono piccoli e sofferenti. In altre parole, tutte le dolorose ferite e tutta la miseria umana sono “ferite di Cristo”. Io posso credere in Cristo e avere il diritto di esclamare “mio Signore e mio Dio” solo se tocco le sue ferite di cui il nostro mondo è ancora pieno. Altrimenti dico “Signore, Signore” semplicemente invano e senza alcun effetto (Mt 7,21).

Naturalmente nessuno di noi può considerarsi un messia in grado di guarire tutte le ferite del mondo. Del resto, nemmeno Gesù ha potuto farlo durante la sua missione terrena. Anche quando onestamente noi cerchiamo di fare tutto ciò che è in nostro potere e nelle nostre capacità, possiamo solo remare per un breve tratto contro le onde impetuose dell’oceano di povertà che sta diventando sempre più ampia nel nostro continente. Tuttavia, non dobbiamo fuggire dalle ferite del mondo, né voltare le spalle ad esse; dobbiamo almeno vederle, toccarle e lasciarci coinvolgere. Se rimango indifferente, non coinvolto, non ferito – come posso dichiarare la mia fede e il mio “amore a Dio, che non ho visto?”. Perché effettivamente io non lo vedo.

Davanti alla sofferenza

Sì, improvvisamente è diventato chiaro per me lì a Madras che non ho il diritto di proclamare la fede in Dio se non prendo sul serio la sofferenza del mio prossimo. Una fede che chiudesse gli occhi alla sofferenza degli altri è semplicemente un’illusione o un oppio; sia Freud che Marx avrebbero avuto ragione di criticare quel tipo di fede!

C’è tanta sofferenza nel mondo che ci circonda! Gesù va da Tommaso e gli mostra le sue ferite: nessuna sofferenza (di nessun genere) viene cancellata e dimenticata. Le ferite rimangono ferite. Ma colui che “ha portato le sofferenze di tutti” ha attraversato fedelmente le porte dell’inferno e della morte: ed egli continua ad essere qui con noi, per quanto ciò sia difficile da comprendere. Ha dimostrato che l’amore tutto sopporta (1Cor 13,7): «le grandi acque non possono spegnere l’amore, né i fiumi travolgerlo», «perché forte come la morte è l’amore» (cf. Ct 8,6-7); sì, è più forte della morte.

Alla luce di questo evento, l’amore è un valore che non possiamo lasciare in balìa del sentimentalismo. Rappresenta una forza, l’unica forza che sopravvive alla stessa morte e che travolge le sue porte con le mani perforate.

La risurrezione perciò non è un “lieto fine”, ma un invito e una sfida: noi non dovremmo, anzi non dobbiamo arrenderci davanti al fuoco della sofferenza, anche se non siamo in grado di estinguerlo qui e ora. In presenza del male non dobbiamo comportarci come se esso avesse l’ultima parola. Non dobbiamo avere paura di “credere nell’amore”, anche se è perdente secondo gli standard del mondo. Dobbiamo avere il coraggio di cogliere le nostre opportunità con la “follia della croce” di fronte alla “sapienza del mondo”! (cf. 1Cor 4,10).

Risvegliando la fede di Tommaso permettendogli di “toccare le ferite”, Gesù voleva forse dirgli proprio ciò che si è rivelato a me in un istante in quell’orfanotrofio di Madras: è dove tocchi la sofferenza umana, e forse solo lì che comprenderai che io sono vivo, che “sono io”. Mi incontrerai dovunque c’è gente che soffre. Non fuggire da me in nessuno di questi incontri. Non aver paura. Non essere incredulo, ma credente!

Il Dio dell’Antica Alleanza apparve a Mosè in un roveto ardente (Es 3). Suo Figlio unigenito, nostro Signore e nostro Dio, appare “nel fuoco della sofferenza” nella croce – e noi diamo un senso alla sua voce solo se portiamo la nostra croce e siamo disposti a portare i pesi degli altri, solo se le ferite del mondo – le Sue ferite – diventano una sfida per noi.

Tomma so e le ferite

La missione di Tommaso

A ciascuno degli apostoli fu affidato un compito: a Pietro di prendersi cura delle pecore del gregge di Cristo, a Paolo di viaggiare in nazioni lontane. Ma che dire di Tommaso?

«L’incredulità di Tommaso ha giovato di più alla nostra fede della fede degli altri discepoli», ha scritto papa san Gregorio Magno.
Essere “un credente” non implica liberarsi del peso dei problemi angosciosi. A volte significa prendersi la croce dei dubbi e seguire Gesù fedelmente. La forza della fede non consiste nelle “convinzioni irremovibili” ma nella capacità di far fronte anche ai dubbi e alle ambiguità, nel portare il peso del mistero conservando nello stesso tempo la fedeltà e la speranza.

Sì, forse era questa l’autentica missione di Tommaso: la fede che è nata quando egli ha toccato il costato di Gesù non è diventata un oggetto da “possedere”. Anche adesso la fede non cessa di essere un “viaggio per lui. Egli deve continuare a portare il peso dei suoi dubbi e delle sue tentazioni di scetticismo. La certezza della fede viene solo quando egli tocca Dio toccando le ferite del mondo – solo lì lo incontra. Egli sperimenta di nuovo il suo incontro con il Cristo crocifisso. Questa è la sua missione.

È precisamente la ragione per cui aprirà la strada ad una autorivelazione molto specifica di Dio nel nostro mondo per molti di coloro che attraversano la vita nel crepuscolo dei dubbi, a una “esperienza di Dio” inattesa. Coloro che hanno visto il Signore aprono la porta a coloro che non l’hanno veduto: essi possono incontrare Gesù – continuamente – nelle ferite del mondo.

Coloro che non riescono a trovare Cristo negli ambiti tradizionali offerti dalla Chiesa, nella sua predicazione, nei suoi servizi e catechismi, hanno ancora questa opportunità sempre a loro disposizione: incontrarlo dove le persone soffrono.

Si racconta che una volta quando a Pascal fu rifiutata l’eucaristia da un sacerdote che aveva dei dubbi sulla sua ortodossia, egli cominciò a prendersi cura in casa sua di un povero malato, così da “ricevere in quel modo il corpo di Cristo”.

Dal resto, non ha detto Gesù: «Tutto quello che avrete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me?» (Mt 5,40).

E noi possiamo incontrarlo persino nelle profondità del nostro dolore.

Se il mondo fosse perfetto, sarebbe già dio e non ci sarebbe più nessun problema riguardo a Dio. Un dio che guardasse narcisisticamente lo specchio senza macchie del suo mondo perfetto e del tutto armonioso in cui non ci fossero conflitti, né contraddizioni o misteri, non sarebbe il mio Dio, il Dio della Bibbia, il Dio della mia fede. La storia narrata dalla Bibbia non è un idillio affascinante, ma un dramma inquietante. Il mondo di cui parla la Scrittura (come il nostro mondo attuale) è un mondo di ferite sanguinanti e dolorose – e il Dio che invoca porta ugualmente queste ferite.

Nel racconto del Vangelo, Dio appare come un Dio ferito, non come il dio apatico degli stoici o come una proiezione dei nostri desideri, tanto meno come un simbolo delle ambizioni di potere di un uomo o di una nazione. È un Dio compassionevole, che sente con noi, che soffre con noi.

Le ferite di Gesù

A quanto pare, ci sono molti che hanno perso la fede in Dio solo per l’esistenza del male e della sofferenza nel mondo. Devo confessare di non avere mai avuto una simile tentazione. La mia comprensione e la mia esperienza sono state del tutto opposte: quasi nulla ha suscitato in me una sete di significato come le assurdità del mondo, e una sete di Dio come le ferite aperte delle sofferenze della vita.

Il racconto pasquale come è riferito dal Vangelo di Giovanni inizia e termina con due affermazioni, l’esclamazione di Pilato: «Ecco l’uomo», e quella di Tommaso: «Mio Signore e mio Dio». Entrambe si riferiscono a Gesù, entrambi i protagonisti guardano alle sue ferite – uno parla della sua umanità, l’altro della sua divinità. Si potrebbe dire che le due esclamazioni sono due diverse interpretazioni delle ferite di Gesù. Le sue ferite – in misura maggiore forse di ogni altra cosa, e forse solo esse – rivelano il legame tra l’umano e il divino che Gesù di Nazaret rappresenta. Ma ciò che sta in mezzo ad esse è il “mistero pasquale”: la morte e la risurrezione di Gesù.

L’esclamazione di Pilato «Ecco l’uomo», accompagnata dal gesto che indica un uomo trasformato in un ammasso di carne sanguinante dalla brutale flagellazione, è lo stesso uomo che era stato condotto quella mattina davanti alla corte del governatore come un pretendente al trono regale? È ancora un essere umano?

L’uomo coperto di ferite esprime una profonda verità circa la creatura umana e il suo destino. L’uomo è niente – questa è la verità del Venerdì Santo, senza la quale non c’è il mattino di Pasqua. Che cosa sappiamo dell’uomo finché evitiamo di guardare senza illusioni ai limiti assoluti del suo destino, se non indaghiamo le profondità e distogliamo la sguardo dall’abisso?

Se Gesù è la parola di Dio per noi, la parola che ha assunto l’umanità nella sua interezza, allora la sua umanità abbraccia non solo la grandezza e la perfezione dell’uomo come immagine ancora incontaminata di Dio (egli il nuovo Adamo, Adamo ancora indenne dalla caduta), ma anche la sua antitesi, l’aspetto oscuro, sfregiato, della sorte umana – la destituzione e lo squallore da cui preferiamo distogliere lo sguardo, le nostre orecchie e i nostri cuori.

Al termine del racconto pasquale di Giovanni, le ferite di Gesù sono nuovamente mostrate e l’apostolo che prima era lacerato dal dubbio esclama: «Mio Signore e mio Dio».

 La Pasqua è un esodo – il passaggio da una visione delle ferite di Gesù ad un’altra, un passaggio dall’“Ecce Homo” all’“Ecce Deus”! Ciò che la Chiesa tradizionalmente esprime con il linguaggio metafisico, delle “due nature”, noi lo possiamo definire “due modi di interpretare le ferite di Gesù”. Le ferite di Gesù considerate da due punti di vista suscitano due reazioni, espresse in due parole – “uomo” e “Dio”. E queste parole che indicano qualcosa di così radicalmente distinto (ma ovviamente profondamente unito) si possono riferire alla stessa persona.

Né Pilato né Tommaso fanno delle dichiarazioni teologiche sulle “nature” di Gesù. Sono dichiarazioni che esprimono un’improvvisa emozione o emozioni accompagnate dall’esperienza dell’incontro.

L’esclamazione di Tommaso è in genere intesa come l’espressione di stupore e di gioia da parte di un uomo i cui sensi l’hanno convinto della realtà fisica della crocifissione. Come ho lasciato intravedere, forse potrebbe esserci qualcosa di più.

La gioia di Tommaso, la sua “seconda conversione” è stata suscitata da qualcosa che sembra averlo colpito più degli altri apostoli: l’unità in Cristo – l’unicità di Gesù crocifisso e risorto. Le ferite di Gesù ne erano la prova.

Tommaso, vedendo le ferite di Gesù, può fare l’esperienza del compimento delle sue parole: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9). Egli vede Dio in Gesù e lo vede attraverso l’abisso delle sue ferite.

Si racconta che a san Martino apparve Satana in persona nelle sembianze di Cristo. Il santo tuttavia non fu tratto in inganno. Gli chiese: «Dove sono le tue ferite?».

Io non credo in “fedi senza ferite”, in una Chiesa senza ferite, in un Dio senza ferite. Solo il Dio ferito attraverso la nostra fede ferita potrebbe guarire il nostro mondo ferito.

Il testo qui ripreso – un’omelia tenuta nella chiesa vuota di S. Salvatore a Praga, durante la pandemia del coronavirus – è un estratto di due capitoli del libro di Halík Touch the wounds pubblicato in diverse lingue (ceco, tedesco, polacco, portoghese ecc.); sarà pubblicato in inglese dalla Notre Dame University Press.

Tomáš Halík (1948) è professore di sociologia all’università Carolina di Praga, presidente dell’Accademia Cristiana ceca e cappellano universitario. Durante il regime comunista fu attivo nella “chiesa sotterranea”. È un laureato del Premio Templeton e ha ricevuto un dottorato onorario presso l’università di Oxford.

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Un commento

  1. Luca Fiandri 19 aprile 2020

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