Personaggi in cerca di voce

di:

ricco

Enzo Riccò, già docente di religione e autore di articoli di didattica dell’insegnamento della religione, dopo il volume Ho avuto paura, Àncora 2019, ha recentemente pubblicato Testimoni senza voce, con la stessa editrice.

  • Enzo, ci spieghi il metodo con cui hai costruito questo libro, caratterizzato da sezioni diverse tra loro per forma?

Ho scritto un testo su alcuni personaggi dei Vangeli con lo sforzo di scoprire il messaggio di cui sono portatori e l’attualità dello stesso. Il libro presenta figure evangeliche che sembrerebbero di secondo piano perché non parlano, ma offrono altresì spunti stimolanti.

Ho dato loro voce immaginandone pensieri, emozioni e sentimenti. Poi ho attualizzato la loro testimonianza con riferimenti alla vita di tutti i giorni.

La struttura del libro è semplice. Dopo un’introduzione che spiega il senso della scelta, il testo presenta nove personaggi che compiono azioni, ma che non dicono nulla. Per ogni soggetto è riportato il brano evangelico di riferimento, c’è poi una parte narrativa ove ho immaginato i loro pensieri e le loro parole.

La terza parte di ogni capitolo presenta invece una riflessione spirituale sul significato delle scelte fatte. Infine, c’è un epilogo, sempre narrativo, con un intreccio e una mia conclusione.

  • Perché questa tua attenzione ai “senza voce” dei vangeli? Perché li ritieni comunque testimoni?

Credo che sia stato Paolo VI a dire, diversi anni fa, che oggi, più che di maestri abbiamo bisogno di testimoni. La testimonianza passa attraverso le parole dell’annuncio, ma soprattutto attraverso la veridicità delle azioni che si compiono.

È distruttiva, più di quanto si pensi, la dissonanza tra ciò che si predica e come ci si comporta. Quindi, senza rinnegare l’importanza delle parole, ho pensato come potevano essere testimoni anche coloro che gli evangelisti non fanno parlare.

  • Nel libro, sembra che, a varie riprese, tu voglia sottolineare la crisi odierna delle parole e quindi di una comunicazione umana inefficace. È così?

Gli uomini a volte si illudono di essere in continuo contatto attraverso le parole dei social. La parola sembra avere una grande importanza nella nostra cultura, ma è una parola falsata da una virtualità che nega la vera conoscenza del “faccia a faccia”. Certi “scrittori” che hanno migliaia – anche centinaia di migliaia – di contatti follower restano nell’inganno semplicistico di avere degli amici.

La domanda più usuale oggi è: «Sei connesso?». Le connessioni informatiche sono una risposta falsa alla grande paura di ogni uomo: la solitudine. Quindi è interessante recuperare il senso dei rapporti di vicinanza reale, dove entra in gioco anche la fisicità., dove si compiono dei gesti. Dobbiamo ricordarci che il gesto è sempre, insieme alla parola, portatore di un valore. Se c’è disarmonia tra parola e gesto non esiste nessuna educazione dell’uomo.

  • Nelle tue riflessioni ricorrono spesso termini specifici del linguaggio psicologico. Per quale ragione?

Due maestri contemporanei di spiritualità come Enzo Bianchi e Anselm Grün affermano che, senza un reale sforzo di conoscenza di sé, non è possibile una coerente vita cristiana. Addirittura, il secondo autore ha scritto un libro dal titolo significativo: Gesù il terapeuta.

È quindi possibile che, quando si parla di una spiritualità veramente incarnata nell’oggi, si usino termini che possono appartenere al linguaggio psicologico. Anche perché le discipline devono interagire per avvicinarsi ad una verità che coinvolga l’uomo nella sua totalità. Basti pensare quanto la psicologia abbia illuminato il pensiero della teologia morale su un tema difficile come il suicidio.

Ma, se stiamo attenti, ci accorgiamo che anche la stessa psicologia usa riferimenti simbolici religiosi per far luce sui meandri della psiche umana. Massimo Recalcati, psicoterapeuta e autore di molti saggi – penso agnostico – usa, spesso, brani biblici, perché questi vanno al di là della storia ben raccontata ed entrano negli archetipi dell’esperienza quotidiana. Non bisogna psicologizzare il Vangelo, ma occorre conoscere l’uomo che è invitato ad accogliere la vita nuova proposta da Gesù.

  • Gli autori hanno spesso un personaggio – tra quelli rappresentati – a cui sono più affezionati. Quale, tra i testimoni silenziosi da te tratteggiati, ritieni ti sia più vicino?

È un po’ difficile scegliere perché il mio primo sforzo, dopo la lettura evangelica, è stato quello di immedesimarmi completamente nei nove personaggi, riflettendo su cosa stessero vivendo in quel momento specifico del racconto. Poi ho pensato quale potesse essere il messaggio spirituale dei loro gesti. Quindi, tutti mi sono stati vicini, o forse è meglio dire che io sono stato “vicino” a loro.

Comunque, io sono particolarmente attirato dalla figura di Giuseppe d’Arimatea, perché è quello che mostra una totale conversione. Una vera metanoia. E poi perché è pieno di paure: la paura è un tema che mi interessa, tanto che vi ho dedicato il mio primo libro. Giuseppe è un seguace di Gesù, ma di nascosto; partecipa al suo processo, ma non spende una parola per difenderlo. Non è proprio un temerario. Ma, alla fine, ha un riscatto straordinario.

Quando tutti fuggono, lui si espone: chiede il corpo di Gesù, lo prepara per la sepoltura, lo depone nella sua tomba. Il discepolo pauroso si rivela il più coraggioso, non tenendo conto delle conseguenze che sarebbero sicuramente arrivate. Non scordiamo che Pietro, che voleva morire con il suo maestro, nascosto nel buio della notte, rinnega di conoscere Gesù per tre volte e la terza volta – pochi ci badano – lo fa persino imprecando.

  • Hai dedicato la tua vita lavorativa all’IdR nella scuola pubblica, nel liceo. Hai pensato ai tuoi ragazzi – magari ormai cresciuti – scrivendo?

Non ho scritto pensando a lettori particolari. È vero che si parla di personaggi dei vangeli, ma all’inizio di ogni capitolo è riportato il brano riferito al personaggio stesso. Dunque, anche chi non è pratico di ricerca di passi biblici può benissimo affrontare la lettura. Le riflessioni proposte riguardano valori non unicamente riferiti ai credenti, anche se il percorso, almeno nel terzo momento, è di taglio spirituale.

La parte narrativa e l’epilogo sono invece frutto della mia immaginazione e immedesimazione: qualcuno potrebbe anche non condividerle. Mi piace pensare che, trattando di personaggi che potremmo definire “non primari”, lo scritto possa far nascere una certa curiosità.

Sono stato contento di vedere, durante la presentazione del libro, miei ex studenti che sono venuti a salutarmi. Ma questo non è certamente un manuale per l’Insegnamento della Religione. È un testo rivolto a chi si vuole porre domande su gesti che sono veicolo di atteggiamenti per il convivere quotidiano.

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