
Abiti, spacchi, look. È soprattutto questo per molti Venezia; il red carpet, le modelle, i grandi attori. Ma questa volta è successo che in sala, al momento della proclamazione dei vincitori, è comparso sugli schermi, quindi invitato dagli organizzatori, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme. Ho sentito più volte la registrazione del suo intervento, per me decisivo. Eccone una sintesi:
«Questa guerra deve finire quanto prima, lo sappiamo. Non ha più senso continuare, è tempo di fermare la deriva. Ma sappiamo che la fine della guerra, che auspichiamo, non sarà la fine del conflitto, non segnerà la fine delle ostilità e del dolore che queste ostilità causeranno. Per cui dovremo lavorare molto, soprattutto noi credenti, e tutti coloro che creano o fanno cultura, per creare una narrativa diversa. Abbiamo soltanto una narrativa radicale, estremista, da una parte e dall’altra […] Dobbiamo avere il coraggio di una narrativa, di un linguaggio diverso che apre orizzonti, strade nuove. Abbiamo bisogno di nuove prospettive, di nuove strade, di nuove idee. Innanzitutto nel mondo della cultura e del linguaggio, che poi possono arrivare anche alla società e alla politica, e questo è il mio augurio. Io ci credo, è possibile perché ci sono tante persone qui che sono impegnate in questo e abbiamo bisogno del vostro aiuto. Mi auguro che anche da Venezia possa arrivare un contributo positivo in questo senso, che ci siano ancora persone nel mondo che ci aiutino a pensare in maniera diversa. Portandoci parole e immagini che costruiscono anziché distruggere».
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Le differenze ovviamente permangono, non è nato il Festival del cinema cattolico di Venezia. I temi che allontano certe produzioni dal più comune «sentire ecclesiale» potrebbero essere elencati, illustrati, dibattuti. Ma l’invito ha segnato un momento di presa di consapevolezza di qualcosa di più rilevante e l’intervento del patriarca di Gerusalemme mi ha ricordato qualcosa del messaggio che Paolo VI indirizzò agli artisti alla fine del Concilio vaticano II, l’8 dicembre 1965. Paolo VI vi scrisse:
«A voi tutti la Chiesa del Concilio dice con la nostra voce: se voi siete gli amici della vera arte, voi siete nostri amici!
Da lungo tempo la Chiesa ha fatto alleanza con voi. Voi avete edificato e decorato i suoi templi, celebrato i suoi dogmi, arricchito la sua liturgia. L’avete aiutata a tradurre il suo messaggio divino nel linguaggio delle forme e delle figure, a rendere comprensibile il mondo invisibile.
Oggi come ieri la Chiesa ha bisogno di voi e si rivolge a voi. Essa vi dice con la nostra voce: non lasciate che si rompa un’alleanza tanto feconda! Non rifiutate di mettere il vostro talento al servizio della verità divina! Non chiudete il vostro spirito al soffio dello Spirito Santo!».
Come siano andate le cose in questi 60 anni non ha senso riassumerlo qui, ma arrivano momenti in cui bisogna scegliere: e il cardinale Pizzaballa ha saputo rispondere a un invito così insolito e significativo indicando l’esigenza di respingere l’odio, avere il coraggio di una narrativa, di un linguaggio diverso per aprire orizzonti. Come? C’è un modo per dirlo? Per me è tutto nella frase che scrisse papa Francesco nel suo messaggio alla città e al mondo di Pasqua, cioè in punto di morte e che io trovo essere il suo lascito: «non venga mai meno il principio di umanità come cardine del nostro agire quotidiano».
Queste parole, che ritrovo come sfondo del discorso del cardinale Pizzaballa, mi sembra che fondino l’altro discorso, l’altro linguaggio, l’altra visione, quella che parla all’uomo smarrito tra gli estremismi che emergono da una realtà estrema, angosciante. È questo il discorso che apre orizzonti.
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Oggi l’alleanza di cui parla Pizzaballa è indispensabile perché siamo ormai passati dai cambiamenti epocali al cambiamento d’epoca. La frase di Francesco che cito per me dice che si parte da noi, e dalla nostra reazione a ogni abbandono dell’uomo, cioè dell’umanità e quindi del cardine del nostro agire quotidiano. Non è questo il motivo del successo straziante del film «La voce di Hind Rajab» anche in molti che ancora non lo hanno neanche visto?
Ma la passione va indirizzata verso la costruzione di nuovi orizzonti, non nel radicalismo onnivoro che si è visto anche contro Leone XIV, che per alcuni non avrebbe dovuto ricevere il presidente israeliano. Che strano… La Chiesa, confermato il valore storico dei rapporti tra Santa Sede e Israele, come è scritto nel comunicato ufficiale, ha chiesto di dare un futuro ai palestinesi «ribadendo da parte della Santa Sede la soluzione dei due Stati, come unica via d’uscita dalla guerra in corso».
In precedenza, come è noto, si legge: «Si è auspicata una pronta ripresa dei negoziati affinché, con disponibilità e decisioni coraggiose, nonché con il sostegno della comunità internazionale, si possa ottenere la liberazione di tutti gli ostaggi, raggiungere con urgenza un cessate-il-fuoco permanente, facilitare l’ingresso sicuro degli aiuti umanitari nelle zone più colpite e garantire il pieno rispetto del diritto umanitario, come pure le legittime aspirazioni dei due popoli». Bisogna fare attenzione.
Il discorso ci riguarda tutti, perché è possibile che se non si fonda un nuovo linguaggio l’esperimento di Asch ci dica che rischiamo grosso. Solomon Asch fece un esperimento molto semplice ma anche geniale. Organizzò dei gruppi di 8 persone in cui uno solo era ignaro dell’inganno, gli altri 7 erano dei complici. Semplificando il discorso: dopo dei casi in cui tutto si svolgeva in modo ordinario e tutti rispondevano correttamente, lui riproponeva a questi gruppi il disegno dove da una parte c’era una riga diciamo di 5 centimetri, dall’altra tre, di 4, 5 e 6 centimetri. A questo punto alla domanda su quale delle tre equivalesse a quella nell’altro riquadro i 7 rispondevano in modo sbagliato, concordemente, e l’unico ignaro del trucco, tenuto per ultimo, in moltissimi casi si uniformava all’evidente risposta sbagliata data dagli altri sette.
Essere membri di un gruppo condiziona. Se i gruppi propongono evidenti falsità molti di noi potrebbero facilmente omologarsi, per il bisogno di sentirsi parte del gruppo. Il discorso può essere esteso. Ritengo funzioni anche con le narrative, cui si è riferito il cardinal Pizzaballa. Serve l’arte e serve la testimonianza per creare un linguaggio fatto di storie, di uomini e donne, di nomi e di volti: sorprese per un racconto del mondo reale.
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L’invito al card. Pizzaballa e il suo intervento a Venezia rompono gli schemi, forzano le porte, chiamano tutti alla comune responsabilità di uscire dal pensiero completo, usando l’umana inquietudine e l’immaginazione. Gli artisti, i pittori, i poeti, i registi, non possono che essere i protagonisti di questo nuovo modo di raccontare il mondo.
Oggi Gaza vuol dire rifiuto del progetto della destra messianica israeliana, quindi rifiuto del progetto iraniano e di Hamas, come di quello di chi investirebbe in riviere. Forse il nome del pensiero che il cardinale vorrebbe proporre è «complessità», che è un orizzonte e si oppone a ogni semplificazione rigida. Questo si può fare unendo arte e testimonianza. Chi dipinge ovunque figli del bene e figli del male ha un linguaggio. Ora ne serve un altro, un linguaggio che sappia parlare al cuore dell’uomo, esaltando il principio di umanità, che vale per tutti, e dunque che faccia intravedere una «Santa Alleanza» tutta nuova, alternativa a ogni «guerra santa».





