
L’attuale contesto sociale e culturale chiede un modo nuovo, adeguato al tempo, di concepire le strutture delle comunità: patronati, cinema, scuole materne, canoniche… Le comunità parrocchiali stanno infatti vivendo un profondo mutamento che investe anche i loro beni immobili; d’altra parte, il cammino sinodale delle Chiese in Italia ha affrontato, tra gli altri, anche il tema della gestione economica delle parrocchie e degli enti ecclesiastici.
In quest’ambito la Facoltà teologica del Triveneto, con l’Istituto superiore di Scienze religiose di Vicenza, ha svolto un seminario di studio dal titolo “Beni della Chiesa e futuro delle comunità” (Vicenza, febbraio-marzo 2025), i cui esiti sono ora pubblicati da Triveneto Theology Press, marchio editoriale della Facoltà, con il titolo Beni della chiesa e futuro delle comunità. Un laboratorio di ricerca e progettazione e i contributi di Alessio Dal Pozzolo, Davide Lago, Francesca Leto, Leopoldo Sandonà, Assunta Steccanella, Davide Viadarin. Il libro è open access, scaricabile gratuitamente dal sito www.fttr.it
Non un percorso concluso e definito, piuttosto un avvio di riflessione e di discernimento che contamina alcune buone pratiche presenti nei territori con spunti provenienti dalla dimensione biblica, ecclesiologica e liturgica. Non risposte “magiche” e definitive, ma il suggerimento di passi da sottoporre costantemente a verifica e a integrazione, sia sul piano degli obiettivi che si vogliono raggiungere sia su quello degli intenti con i quali tali passi si erano costruiti.
Imparare dalla storia: un secolo e mezzo di sperimentazioni nell’innovazione sociale
Con la messa a terra dell’enciclica Rerum novarum di Leone XIII (1891), per circa un secolo e mezzo le parrocchie venete sono state un unico immenso cantiere: caseifici sociali (il primo in Italia nacque a Canale d’Agordo, in provincia di Belluno), cooperative di consumo, cantine sociali e teatri sociali, casse rurali.
Agli inizi del Novecento vennero gli asili infantili, «che rappresentarono per molti piccoli paesi la garanzia di un’educazione di base capillarmente diffusa e sostenibile in un ambito, quello della prima infanzia, non presidiato dallo Stato» spiega Davide Lago nel suo saggio.
Una nuova tappa, nel secondo dopoguerra, vide fiorire case della dottrina cristiana, patronati e centri giovanili, campi sportivi e sale teatro. Queste strutture a scopo formativo-sociale-educativo «non solo hanno sostenuto la catechesi di massa ma hanno permesso ai nostri paesi, capoluoghi o frazioni che fossero, di sperimentare l’emancipazione derivante dalla formazione, di riannodare il legame sociale, di continuare il fiorire di iniziative di mutuo aiuto tipico del mondo contadino e di quello operaio».
Venendo a oggi, appare importante interrogarsi sulle ricadute pratiche riguardanti i tanti beni immobili costruiti dalle comunità cristiane nell’ultimo secolo e mezzo e ora in evidente difficoltà. «Alcune parrocchie hanno visto un rifiorire delle loro strutture, soprattutto le parrocchie “capofila” di una nuova unità pastorale – afferma Lago –. Altre hanno sperimentato la strada dell’affidamento a gruppi più o meno organizzati che le mantengono in vita a fini sociali. Altre, ancora, hanno messo a disposizione alcuni locali per esperienze innovative di accoglienza. Altre, infine, mantengono i locali chiusi: per mancanza di idee o di volontari, per cause di forza maggiore (basti pensare alle onerose pratiche di messa a norma)».
Dalle buone pratiche ai principi
Il libro investiga alcune delle numerose e ancora poco conosciute innovazioni sociali che si stanno sperimentando in alcune realtà comunitarie parrocchiali o legate a congregazioni religiose.
Il patronato della parrocchia di San Carlo a Padova, ad esempio, ha risposto a un bisogno comunitario, l’esigenza di aule studio, e ha rilanciato un’attività ormai esausta; Villa Angaran San Giuseppe a Bassano del Grappa, inizialmente casa dei gesuiti per esercizi spirituali, è oggi un centro con molteplici servizi formativi, sociali e ricreativi proposti alla città e al territorio; l’esperienza di progettazione partecipata è promossa dalla Collaborazione pastorale di Vedelago (Diocesi di Treviso), ispirata al concetto di “comunità patrimoniale”); il Centro della Famiglia di Treviso, una Srl impresa sociale che si colloca dentro il mondo dell’impresa ma senza scopo di lucro, investe, invece, gli utili nell’oggetto sociale.
Ad accomunarle, il fatto di avere adottato criteri che aprono prospettive feconde: la formazione di persone dedicate nelle comunità, la mappatura dei beni, la costruzione di tavoli di dialogo per un discernimento delle e nelle comunità. Ma non solo.
«La dimensione etica nella gestione economica appare non accessoria ma necessaria – evidenzia Leopoldo Sandonà nel suo scritto –. Gli strumenti etici sono originariamente inseriti nell’attività economica di una comunità cristiana che non può viversi in modo staccato dal contesto sociale e che quindi deve fare propri i valori dell’etica nell’impresa. Detto in altri termini, l’eticità economica non è fattore esterno ma è fattore che riguarda la responsabilità dei singoli che assumono delle competenze etiche radicate che divengono prassi consolidate. L’etica può diventare, in questo senso, un luogo di mediazione tra le difficoltà di chiarimento giuridico-canonico-fiscale-economico, le logiche interne dell’organizzazione sia diocesana che parrocchiale e, infine, le logiche esterne del mercato e del contesto in cui ci si trova a operare».
In questo contesto appare fondamentale precisare che, pur nel riconoscimento di gerarchie e di competenze, in un passaggio epocale così importante «tutti i soggetti coinvolti devono sentirsi parte integrante di questa crescita di coscienza comunitaria, rispetto al sentirsi puramente degli ingranaggi rispetto a scelte definite altrove».
Inoltre, va notato che «a volte ingenuamente il deficit di criteri economici propri del mondo ecclesiale ha finito per porsi nelle mani di tecnicalità le quali magicamente dovrebbero definire una novità sul piano economico ma finiscono per non comprendere fino in fondo la realtà in cui sono inseriti».
È urgente formare le comunità ad adeguati processi di discernimento, «che sono cosa diversa dal semplice discutere e confrontarsi: implicano, infatti, l’impegno per tenere insieme spiritualità e pragmatismo, criteri evangelici ed esigenze del territorio, chiamando in causa diverse competenze professionali (nel nostro caso, economisti e professionisti del territorio/dell’edilizia per l’oggetto da valutare, pedagogisti e teologi per il metodo di lavoro e l’ecclesiologia, pastori e collaboratori per la voce delle comunità…)» sottolinea Assunta Steccanella.
Formazione procedurale e formazione contenutistica vanno di pari passo con la mappatura dei beni, imprescindibile proprio per dare avvio a meccanismi di discernimento condiviso e di decisioni partecipate all’interno delle comunità e con gli attori, anche civili, dei territori.
Il problema della gestione economica non può comunque diventare la ragione preponderante delle scelte che vengono fatte. «In gioco c’è proprio la nostra idea di comunità – si legge nelle conclusioni –. Le strutture di molte parrocchie si trovano quasi sempre al centro dei nostri paesi e possono ricoprire ancora a lungo un’importante dimensione sociale, ma con formule tutte da reinventare. La sfida rimane quella di chiedersi “di cosa hanno bisogno le persone oggi?”. Se guardiamo alla storia delle diocesi venete dell’ultimo secolo e mezzo, qui la Chiesa ha realizzato opere che rispondevano ai bisogni della gente: casse cooperative, sindacati, leghe bianche, cooperative agricole, scuole… È così che le persone sentivano la Chiesa vicina e scoprivano che ciò che veniva fatto era espressione di un Dio che si è fatto vicino all’umanità».
Un ultimo elemento, fondamentale per una buona gestione dei beni ecclesiali, è la trasversalità o intersezionalità, cioè il fatto che questo percorso può partire da singole istituzioni ma deve trovare un ascolto condiviso a livello diocesano e interdiocesano: più le pratiche si diffonderanno più ci saranno punti di riferimento per ipotizzare sviluppi futuri.






Sono contento che da qualche parte in Italia si inizi a parlare di una questione che toccherà la Chiesa nel punto in cui è più scoperta: i soldi detta in maniera semplice e diretta.
Il problema esiste ed è molto avvertito; purtroppo non viene sempre gestito nei modi consigliati per la scarsa lungimiranza dei responsabili e delle loro comunità. Poi si fanno passi più lunghi della gamba, si impegnano le parrocchie in spese eccessive e inutili che gravano per decenni, non si vede oltre il proprio naso e si dimentica che la Chiesa è chiamata ad evangelizzare e non a essere una società che eroga servizi gratuiti.
Questa pubblicazione merita certamente un plauso per aver reso di pubblico dominio l’oggetto al quale è dedicata e che abitualmente, nella discussione sociale ed ecclesiale, rimane sottotraccia, non detto e non discusso, nonostante la sua urgenza, di giorno in giorno più acuta. In gioco non sono soltanto i beni ecclesiastici ma anche il modo di stare della chiesa nella società. Le molte perplessità e controversie che segnano questo rapporto, fra chiesa e società italiana, si riflettono direttamente sullo stato e sull’uso dei beni, sulle loro gestioni e sulle differenti destinazioni d’uso o riconversioni o cessioni alle quali si pensa. E non sempre in maniera positiva. Talvolta a decidere la riconversione o l’alienazione è la mancanza di risorse finanziarie, altre volte la mancanza di risorse umane, ma non poche volte incide l’ansia di non riuscire a reggere la gestione dei beni oppure l’assunto – che meriterebbe di essere verificato nella sua reale portata più che ripetuto automaticamente – che in Italia la cristianità è finita, la chiesa è minoranza, quindi occorre alleggerirsi delle strutture “pesanti” dei secoli scorsi, a partire dagli edifici non di culto e a finire con le chiese chiuse. Questa postura mentale è fatta propria dal vertice ecclesiastico italiano che scrive: “La missione richiede strumenti adeguati, cioè leggeri e flessibili….. Alcune delle strutture materiali …. si dimostrano sovradimensionate o sorpassate rispetto alle esigenze….. Rischiando l’impopolarità ….. è necessario che tali strutture vengano adeguate, verificandone la possibilità di una riconversione o affidandone la gestione ad altri o anche alienandole» (in Lineamenta, Roma, 15-17 novembre 2024, n. 57). E’ l’incipit di linee guida che Conferenze episcopali di altri Paesi hanno già trasmesso alle loro chiese, così come probabilmente farà l’episcopato italiano. Tuttavia, per evitare che si costituiscano quali linee guida fuorvianti, occorrerebbero ulteriori riflessioni previe e orientamenti più ponderati e congrui. La chiesa è presente con edifici di culto e case canoniche nelle città ma anche nelle migliaia di piccoli comuni italiani e nelle piccolissime frazioni, dove è al tempo stesso riferimento spirituale e presidio territoriale. Questa presenza capillare implica una responsabilità non solo ecclesiale ma anche sociale. Non basta dire mancano preti, fedeli e soldi per chiudere chiese e canoniche. Le cose, per effetto di variabili intervenienti non previste, potrebbero cambiare rapidamente, e la domanda territoriale di chiesa, spiritualità e socialità anziché diminuire potrebbe aumentare e rendere ancora utili e forse persino necessari gli edifici parrocchiali. Occorre prepararsi a scenari diversi da quelli che stancamente si ripetono per pigrizia mentale. La guerra con il carico di morte e distruzione che comporta, la povertà profonda con il carico di ingiustizia e degradazione che implica, la disperazione sociale diffusa, ecc. sono variabili intervenienti che possono mutare la domanda religiosa e spirituale e costringere la chiesa cattolica ad aprire le porte di chiese e canoniche dappertutto. Una chiesa con una presenza più che millenaria sul territorio, anziché ripiegare su sé stessa con l’alibi della missione leggera e flessibile, deve assumersi la responsabilità storica, sociale e spirituale della sua azione e della sua missione in tutto il territorio italiano, persino nelle più minuscole frazioni. E perché ciò diventi nuovamente possibile si dovranno infrangere due tabù: il primo è l’intangibilità dell’8×1000 e il secondo la xenofobia clericale. In forza del carattere di presidio territoriale delle parrocchie occorrerebbe negoziare con il Governo italiano il finanziamento statale degli edifici di culto e delle annesse case canoniche al di fuori dell’8×1000. Altri Stati, più laici di quello italiano, agiscono in questo modo. L’Italia può fare lo stesso. Contemporaneamente occorrerebbe rimuovere pregiudizi e diffidenze del clero italiano verso il clero straniero. Sono tali pregiudizi e diffidenze, plasticamente rappresentati nelle considerazioni dell’Ufficio CEI dedicato allo scambio missionario, il maggiore ostacolo a dotare ogni parrocchia di un prete residente. Rimosso tale ostacolo la chiesa italiana potrebbe avere preti residenti in tutte le parrocchie del territorio nazionale, provenienti da diocesi straniere. Così facendo salverebbe non solo gli essenziali beni ecclesiastici diffusi sul territorio, che sono le chiese parrocchiali e le case canoniche, ma addirittura la presenza stessa della chiesa, destinata altrimenti più che alla missione alla propria autodistruzione.