Chiesa-Ebrei: il documento ritrovato

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Diversi giornali hanno riportato la notizia di un workshop svoltosi presso il Museo della Shoah di Roma il 7 settembre u.s. con il titolo Salvati. Gli ebrei nascosti negli istituti religiosi di Roma (1943-44).

Vi si è presentato il risultato di un gruppo di ricerca, composto da studiosi cattolici e ebrei e coordinato da due gesuiti, Dominik Markl, professore di esegesi dell’Antico Testamento al Pontificio Istituto Biblico, e il rettore dello stesso Istituto, Michael Kolarcik. L’apporto conoscitivo più rilevante del lavoro condotto viene dal ritrovamento di una documentazione che si riteneva perduta.

De Felice: ebrei sotto il fascismo

Nel 1961 Renzo De Felice, che sarebbe poi diventato famoso per la poderosa biografia del Duce – il primo volume, Mussolini il rivoluzionario, usciva infatti quattro anni dopo -, pubblicava il libro che segnava uno snodo decisivo nel suo itinerario storiografico.

Si trattava della Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, esito di una ricerca che gli era stata commissionata dall’Unione delle comunità israelitiche. L’opera comportava, infatti, il suo passaggio dalle investigazioni sul giacobinismo settecentesco – cui si era inizialmente dedicato su impulso del suo maestro, Delio Cantimori – agli studi sul regime fascista.

Nella prefazione al volume del 1961 Cantimori, pur nel quadro di un caloroso apprezzamento complessivo, non mancava di ricordare che, nella ricostruzione dello studioso reatino, non mancava la sovrapposizione dell’ideologia alla storia. Nella premessa alla riedizione del 1988 De Felice, sottolineando che quelle osservazioni acquisivano particolare valore in una storiografia contemporaneistica che in quel torno di tempo egli vedeva, non a torto, fortemente condizionata dalle opzioni politico-ideologiche degli autori, notava che aveva deciso di cancellare alcuni passi dell’opera. Presenti nella sua versione iniziale, li aveva mantenuti anche nella ristampa del 1972.

Oggi possiamo dire che la ripulitura di diverse espressioni polemiche, senza dubbio rivelatrice dell’onestà intellettuale dello storico, non aveva del tutto eliminato giudizi e considerazioni non sufficientemente fondati su base critica. Eppure, quel libro tuttora costituisce un’inesauribile miniera di dati e di informazioni cui gli studiosi dell’argomento continuano, con frutto, ad attingere.

Tra i tanti suoi meriti va annoverata anche la pubblicazione di una ricca appendice documentaria, composta di quarantuno testi, che occupano circa centocinquanta pagine in corpo minore.

Tra questi documenti figurava un “Elenco delle case religiose di Roma che ospitarono ebrei”. Vi si riportavano i nomi di 155 istituti romani – 100 femminili e 55 maschili -, per ciascuno dei quali era indicato il numero dei rifugiati. De Felice contava circa 3.700 persone, aggiungendo che esse costituivano solo una parte di quanti erano stati accolti dall’ampia e articolata rete assistenziale costruita dalla Chiesa a Roma.

In nota ricordava poi che il documento gli era stato trasmesso dal gesuita Robert Leiber, Segretario particolare di Pio XII. Il religioso si stava allora impegnando in una strenua difesa pubblica del pontefice in relazione alle accuse sui suoi silenzi in merito alla Shoah, poi culminate nel 1963 con la rappresentazione de Il vicario di Rolf Hochhut.

Pur avanzando dubbi sull’apologia del pontefice svolta dal gesuita, De Felice vedeva in quel documento una prova inequivocabile dell’imponente opera assistenziale messa in campo dal mondo cattolico verso gli ebrei.

Il successivo montare delle polemiche sull’atteggiamento della Chiesa verso la Shoah rendeva quel documento di particolare interesse. Veniva spesso citato e, talora, contestualizzato. Ad esempio, qualche studioso notava che si trattava di 155 case religiose sulle circa 750 allora presenti nell’Urbe. Tuttavia l’originale non era mai stato ritrovato.

Il documento ritrovato

Nemmeno suor Grazia Loparco, coinvolta nel gruppo di ricerca che ha tenuto il workshop al Museo della Shoah, era riuscita a recuperarlo, nonostante le pazienti ricerche archivistiche alla Radio vaticana e in diverse sedi della Compagnia svolte per i suoi saggi sulla rete assistenziale dei religiosi romani.

Nell’incontro del 7 settembre si è invece annunciato che è stato rinvenuto nell’archivio del Pontificio Istituto Biblico. Si sono anche formulate le prime acquisizioni conoscitive scaturite da tale ritrovamento.

In primo luogo, è stato individuato l’autore del documento. Il p. Leibner – in un articolo su Pio XII e gli ebrei pubblicato nel 1961 su La civiltà cattolica – ne aveva attribuito la paternità a Beat Ambord, il gesuita svizzero locutore delle emissioni in lingua tedesca alla Radio vaticana, che aveva diretto assieme al colonello Ulrico Ruppen un’opera di assistenza agli ebrei.

Ora sappiamo, invece, che il documento è stato compilato tra il giugno 1944 e la primavera 1945, poco dopo la liberazione di Roma, dall’economo del Pontificio Istituto Biblico, il p. Gozzolino Birolo, a sua volta legato all’ufficio romano della Delasem, la rete internazionale di assistenza agli ebrei.

In secondo luogo, il p. Leibner, nell’articolo prima citato, asseriva che, nel trasmettergli nel 1954 il documento, la signorina Iris Rub-Rothenberger, un’impiegata della Radio vaticana, gli aveva assicurato di aver verificato l’esattezza della cifra complessiva «con una ricerca nelle singole case».

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Il gruppo di lavoro, attraverso un puntuale confronto con i documenti conservati negli archivi della Comunità ebraica, ha potuto stabilire che sulle oltre 4.300 persone citate nell’elenco, 3.200 risultano con certezza ebrei.

Gli studiosi hanno anche reso noto che «per motivi di tutela della privacy» l’accesso pubblico alla documentazione ritrovata non è al momento consentito. La notizia può apparire a prima vista sconcertante, ma i ricercatori da tempo conoscono le limitazioni cui il loro lavoro è sottoposto da un’ottusa legislazione in materia archivistica, che si mostra del tutto incapace di distinguere tra le esigenze della ricerca scientifica e la rincorsa mediatica allo scoop sensazionalistico. Non sappiamo, quindi, se il documento in questione è inserito all’interno di un dossier dal quale sia possibile ricavare ulteriori elementi.

In ogni caso, possiamo avanzare un’osservazione complessiva. Come si è visto, il rinvenimento del documento fornisce utili precisazioni sull’assistenza cattolica agli ebrei nella Roma sottoposta al nazifascismo. Con ogni probabilità, ulteriori approfondimenti sui materiali ci aiuteranno a meglio definire i contorni di una questione su cui, per l’ovvia riservatezza di operazioni caritatevoli rischiose per la vita stessa di chi le metteva in atto, non possediamo molte informazioni.

Discriminazione non persecuzione

Ma, al contempo, va chiarito che queste acquisizioni conoscitive, per quanto importanti, non mutano il giudizio complessivo che la storiografia – almeno quella più criticamente sorvegliata – ha negli ultimi anni formulato sul rapporto tra Chiesa ed ebrei.

La posizione con cui la comunità ecclesiale italiana – non il solo Pacelli, come in fondo suggeriva De Felice – affronta le leggi razziali del fascismo è ben chiarita dagli articoli apparsi La civiltà cattolica: discriminare è lecito, anzi opportuno, dal momento che gli ebrei costituiscono una minaccia per la società cristiana. Ma a condizione che la discriminazione non arrivi alla persecuzione.

L’antisemitismo di fondo che pervade la cultura cattolica dell’epoca prevede, insomma, che si possa (anzi, almeno in certi casi, si debba) privare gli ebrei dei diritti politici e civili, purché non si arrivi a togliere loro i fondamentali diritti naturali, a partire da quello alla vita.

Dopo il 1943

Ma, dopo l’8 settembre 1943, il mondo cattolico si trova davanti a una situazione in cui non regge più la linea con cui aveva potuto mantenere, nonostante le riserve derivanti dal vulnus al Concordato in materia matrimoniale, un sostanziale appoggio alle leggi razziali del regime. Il nazifascismo trasforma infatti la discriminazione in persecuzione. Anche il diritto alla vita viene ora messo in questione.

Di qui l’attivazione delle forme di assistenza che il nuovo documento ci aiuta a meglio definire. Ma ciò non vuol dire che la pratica assistenziale, per quanto ampia e diffusa, cancelli i sedimentati schemi mentali che si radicano sugli antichi stereotipi antigiudaici rinnovati dal moderno antisemitismo politico. Il mondo cattolico, pervaso dalla nostalgia della cristianità, si è mostrato tutt’altro che insensibile alle sue prospettive.

Ci vorrà tempo per far maturare quel nuovo atteggiamento di cui la dichiarazione conciliare Nostra aetate (1965) è testimonianza. Ciononostante, la documentazione ora ritrovata sollecita nuove domande. È noto il ruolo centrale di Augustin Bea nella redazione di quel documento conciliare.

Il Biblico di Roma

menozzi4Ora, al tempo in cui l’economo del Pontificio Istituto Biblico redigeva l’elenco delle case religiose che avevano accolto gli ebrei perseguitati, Bea ne era il rettore.

Conosciamo anche il suo impegno per ottenere, nella riforma della Settimana santa promossa da Pio XII, la cancellazione di quei richiami alla “perfidia giudaica” che erano stati uno dei più incisivi vettori dell’antisemitismo nella cultura cattolica.

Negli anni Cinquanta gli sforzi del futuro cardinale non ottennero risultati. Ma indagare gli atteggiamenti assunti, durante la guerra, all’interno del Pontificio Istituto Biblico davanti alla persecuzione antiebraica è una pista di ricerca assai interessante. Potrebbe aiutarci a capire gli itinerari con cui i più avvertiti ambienti cattolici giungono ad abbandonare il radicato pregiudizio antisemita.

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Un commento

  1. Luciano Badesso 11 settembre 2023

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