
Vi siete mai imbattuti in una chiesa vuota, non utilizzata più per quello per cui era stata costruita? Vi siete mai imbattuti in un edificio che ha tutte le sembianze di una chiesa, ma che in modo esplicito ospita funzioni diverse da quelle di ospitare i culti e le attività parrocchiali?
Molto probabilmente sì e, quasi sicuramente, questo ha creato disappunto e imbarazzo, ma non ha prodotto una riflessione più generale su questo aspetto della dismissione degli edifici sacri. Bene, dopo precedenti vari tentativi di indagare il problema, almeno nel mondo della cattolicità italiana, la Fondazione Cardinale Giacomo Lercaro di Bologna con il suo Centro Studi per l’architettura sacra e la città «Dies Domini» lo fa con un seminario come sempre ben organizzato, fortemente partecipato e ricco di informazioni e ancor di più capace di offrire stimoli su un argomento che suscita perplessità e dubbi, ma che, contemporaneamente, individua argomenti di confronto e discussione ovvero, costringe ad affrontare un impegnativo futuro, molto molto prossimo.
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Stiamo sì parlando del problema, meglio del fenomeno, della dismissione delle chiese cattoliche che si sta amplificando (secondo il censimento CEI in Italia ci sono 67.700 chiese), che sta toccando luoghi e anche confessioni diverse da quella cattolica. Se è vero che ormai esiste una urgenza per affrontare questo tema, è anche vero che il seminario non vuole indagare su una «fase critica» del mondo attuale, quanto piuttosto pretende, spiegando tutte le energie possibili, di individuare operativamente nuove metodologie. Per questo motivo fondamentale e centrale, si allarga l’indagine ad una analisi territoriale che comprenda il fenomeno, riconoscendo il ruolo che l’edificio religioso ha avuto e conserva all’interno del contesto urbano e non solo.
Ecco il perché del titolo del seminario «Territori di chiese in trasformazione» e non più come precedenti sullo stesso tema che ponevano il problema col titolo «Dio non abita più qui». Il seminario infatti propone come metodologia di lavoro un approccio «teologico», anche storico, che spazierà, diremmo disinvoltamente, ma con profondità, tra il concetto di edificio destinato al culto, il valore e la distribuzione delle parrocchie per finire con i monasteri. A questa prima fase viene fatta seguire una seconda che, con dovizia di informazioni e immagini, sposta il problema su esempi concreti di monasteri e chiese riadattate, in tutta Europa e non solo, facendo intervenire direttamente professionisti e/o responsabili degli interventi stessi.
Dopo un saluto iniziale con una bella introduzione sul significato ecclesiale e missionario della Chiesa, mons. Ottani indica un percorso concreto per lo sviluppo dei lavori. Infatti, tra i primi oratori la arch. Manenti, organizzatrice del convegno, propone uno sguardo «territoriale» centrato sulle forme materiche che la comunità produce. Citando Sequeri e la fascinazione della bellezza, pone l’accento o meglio, un grosso punto di domanda, sugli spazi non funzionali nell’architettura sacra moderna e ancor di più sul fatto che ormai conviviamo con almeno 50 chiese in via di dismissione o già chiuse.
Lo sforzo per trovare una nuova utilizzazione, senza dimenticare la memoria, compare anche nell’intervento di Frabegoli, architetto responsabile dei Beni culturali della Diocesi di Rimini, che sottolinea come le dismissioni non siano e non debbano essere una incombenza che sottrae energie alle altre funzioni della Chiesa, ma che è vero che purtroppo la chiesa locale ha difficoltà a recepire e applicare questo nuovo compito.
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Nel successivo intervento si passa dagli architetti alle teologhe e la Serena Noceti non ha fatto molti sconti sul problema partendo dalla visione ecclesiologica del Concilio Vaticano II per arrivare, passando attraverso l’importanza della città, al concetto della forma della fede. Concentra in modo fortemente critico l’attenzione sul modello Tridentino della parrocchia definendola una formula standardizzata della realtà, chiusa ai cambiamenti e che nemmeno il Concilio Vaticano II è riuscito a scalfire mantenendo una limitata revisione del concetto di parrocchia. Nel proporre una riarticolazione delle parrocchie a partire da comunità ermeneutiche di base, introduce una logica della responsabilità che riguarda il «consumatore religioso» e, diciamo che conclude, con una citazione di Roland Barthes sul corpo come figura in movimento.
Fa seguito Diotallevi, sociologo, che individua come caratteristica di questo tempo quella di aver agitato le acque attorno alla struttura parrocchiana e diocesana. Per lui la contestualizzazione del fenomeno delle dismissioni ha a che fare con la rappresentazione delle alternative passando dal «privilegio dell’offerta» religiosa al «privilegio della domanda» del consumatore religioso. Occupandosi di Sociologia della Religione punta il dito sulle differenze sociali intervenute negli ultimi decenni, un po’ ovunque, che hanno trasformato il tessuto del popolo religioso.
Longhi, che insegna Storia dell’Architettura al Politecnico di Torino, indica norme introdotte dal Pontificio Consiglio riguardanti la pianificazione e le Linee guida per la dismissione e il riuso il cui valore è parzialmente intaccato dal senso di colpa che la Chiesa ha in merito alle dismissioni. Il teologo tedesco Gerhards descrive lo scopo e anche i risultati di alcuni progetti territoriali in Germania, mentre l’arch. Novelli, esperto in tutela e conservazione del patrimonio architettonico religioso mostra alcuni interventi realizzati a Torino citando proprio il precedente convegno sul medesimo tema dal titolo «Dio non abita più qui».
Gli e le architette continuano con la prof. Giammetti che insegna a Napoli e parla degli architetti, dei progettisti come «facilitatori» della trasformazione, sottolineando come la globalizzazione del pensiero non funzioni. Porta infatti come esempio un intervento fatto al Rione Sanità di Napoli dove le chiese sono in numero esuberante. Parla anche del Museo Diocesano diffuso e della chiesa come spazio gratuito all’interno della città.
Significativamente diverso il contenuto dell’intervento dell’arch. Romagnoli, ricercatore a Firenze, che sposta a nord lo sguardo indagando la situazione danese delle chiese luterane. Interessante notare che rispetto alla proposta vescovile di dismettere 17 edifici la/le comunità siano state capaci di ridurre a 6 il numero intervenendo soprattutto in una riqualificazione urbana di tutto il contesto nel quale era inserito il tempio inutilizzato.
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Come vedete il contenuto di due giorni di lavori esprime livelli numericamente e qualitativamente elevati, davvero capaci di ampliare gli spunti, fortemente organici, per una riflessione profonda. L’architetta Manea si concentra sulle dinamiche sociali e sui processi partecipativi che ovviamente non possono lasciar distinto il patrimonio ecclesiastico dalla forma urbana e ambientale. La Direttrice della Fondazione Casa Lucca Micheletti ci ha parlato del riuso delle canoniche, anche separato dalla chiesa di competenza, e ha portato interventi di co-housing che sono stati capaci di ridare nuova vita a edifici in via di abbandono.
Il secondo giorno di lavori è stato aperto da Juan Rego, Docente di Teologia Liturgica Fondamentale, estetica Liturgica e altro all’Istituto di Liturgia della Università della Santa Croce. Ci ha parlato dell’edificio chiesa perpetua, dell’aspetto simbolico che esprime, delle forzature all’uso per il solo culto parlando anche di «riduzione mono-eucaristica», senza tralasciare una denuncia di risorse latenti e l’incapacità dei corpi intermedi della Chiesa a intervenire sulla riqualificazione del territorio. Partendo da una riduzione delle chiese ad aula liturgica ha portato esempi che contengono una visione più inclusiva e relazionale come qualche caso in Germania ci offre dove l’interno della chiesa non è solo per il culto, ma è il luogo dell’incontro dell’assemblea.
Si ritorna ai tecnici con l’intervento dell’arch./ing. Sterken che presenta un panorama vastissimo di interventi di tutti i tipi concentrati nelle Fiandre e zone limitrofe. Ci mostra un suo libro che tratta di 140 chiese ristrutturate che contiene schede che individuano fino a 19 possibili soluzioni per ogni edificio. Rimaniamo al Nord con l’ing. Bellucci, esperto di storia dell’architettura dell’Otto/Novecento in Svezia che ci mostra i passaggi avvenuti negli edifici religiosi, quasi tutti in stile neogotico, in un paese protestante dove, fino al 2020 il re era il capo della chiesa.
Un intervento molto documentato di Sacconi sulla trasformazione della chiesa cattolica di St. Agnes a Berlino pone l’attenzione su un ottimo prodotto dell’architettura sacra contemporanea che non ha però funzionato rispetto alla comunità a cui era destinata ed è stata trasformata nello spazio espositivo di una galleria privata. Nel passaggio da chiesa a galleria d’arte si è cercato di salvaguardare le geometrie e i grandi spazi che avevano contraddistinto il progetto di quella nuova chiesa simbolo anche della Berlino rinata.
Si coinvolge poi nel dibattito il caso, presentato dalla dott.ssa Grandis, pedagoga e ricercatrice riguardo l’architettura della Chiesa valdese, del tempio valdese di san Giovanni in Abruzzo che, una volta non più utilizzato come edificio religioso, con molta tranquillità è stato «passato» all’Amministrazione comunale che, con altrettanta semplicità, lo ha trasformato in un piccolo museo sulla presenza valdese in quelle zone.
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Nella parte finale ci si è concentrati su vari monasteri europei rispetto ai quali la problematica principale deriva dal tipo di proprietà che comporta più facilità di intervento e trasformazione, ma anche più difficoltà dovute proprio alla non appartenenza ad una Chiesa con grandi numeri. In Europa poi, in modi diversi, il passaggio di Napoleone ha prodotto cambiamenti radicali e irrimediabili per questi complessi che, obbligatoriamente dismessi come edifici religiosi, sono passati direttamente di proprietà del Demanio.
Il monaco Gianni Bernardo ci illustra il caso della conservazione e trasformazione del millenario monastero di san Miniato al Monte, così come l’arch. Mira ci ha presentato la storia e la rinascita dell’abbazia di Morimondo. L’arch. Zoran sposta il problema nei paesi dell’Est mostrandoci un monastero divenuto un albergo di lusso, mentre edifici religiosi della costa croata sono sopravvissuti a Napoleone prima e al regime socialista poi, per recuperare ora una dignità sociale anche se non più destinata ai culti. L’avv. Angeli ci presenta invece una serie di interventi trasformativi nella zona di Lucca su edifici o parti di edifici religiosi che hanno assunto ruoli importanti all’interno di percorsi di politiche sociali ed educative.
Uno sguardo un po’ diverso è quello che Suor Klara Antons del monastero di Bingen ha portato ai partecipanti. Sostanzialmente ha dimostrato una certa concretezza di idee affermando che nel pensiero di una trasformazione del grande convento si stanno orientando non su una dismissione dell’immobile, quanto piuttosto sulla ricerca di collaboratori esterni che possono partecipare con altre funzioni senza stravolgere né contenuti né architetture.
Una conclusione volutamente non esiste perché appunto il convegno era impostato nella declinazione delle problematiche della Chiesa/e in trasformazione. Una presa di coscienza, organizzata e impostata concretamente su tutti gli aspetti, che non sono più meramente religiosi, è l’unica strada per non trasformare una evoluzione necessaria in una perdita






Trovo ottimo il suggerimento di un lettore di adibire ad altro culto le chiese dismesse. Non è giusto lasciare edifici vuoti e inutilizzati, abbandonati alla rovina o peggio a delinquenti che li deturpano. Pertanto, se c’è una religione con tanti fedeli che hanno bisogno di un luogo per pregare e sono disposti a curarne la manutenzione, ben venga questa possibilità! D’altronde le religioni sono tutte uguali, in quanto tutte sono creazioni dell’uomo, quindi è giusto e doveroso il riutilizzo di edifici dismessi da una religione non più praticata a favore di un’altra che conta, invece, numerosi seguaci.
Molte Chiese dismesse in realtà non vengono riutilizzate per altri culti, ma (almeno nel nord più secolarizzato) adibite a fini più prosaicamente commerciali. Se va bene teatri se va male bar o attività commerciali. Fedez ad esempio, ha la sede e gli uffici della sua società in una ex Chiesa.
Anche l’Islam, sotto la crosta dei vari regimi fondamentalisti, si sta secolarizzando.
Molto bello e attuale questo articolo; oggi nella chiesa nella quale mi sono recato per la messa domenicale eravamo in dieci persone su un paese di mille abitanti. Fatico a pensare che tra qualche anno l’unica chiesa parrocchiale venga chiusa al culto e adibita ad altro uso.
L’articolo evidenzia la vastità degli argomenti trattati durante il convegno. In tal senso è da sperare che effettivamente sia stato così
Mi permetto di evidenziare in questa sede due aspetti riguardo all’utilizzo (brutta la parola riutilizzo) degli edifici sacri (a parere mio, quello di sacro è un concetto più vasto di quello liturgico).
Queste riflessioni nascono da una constatazione, ovvero l’esigenza di rimanere ancorati alla realtà e a quella, comunque, di servizio all’evangelizzazione che questi edifici possono continuare a garantire.
Su queste due parole, sacro ed evangelizzazione, non so se il convegno ha avuto modo di soffermarsi.
Bene, venendo a noi. si cita la frase “Dio non abita più qui.”.
Può anche avere un fondo di verità questa frase, ma occorre chiedersi se, con lo stravolgimento violento che è stato fatto degli edifici sacri, nelle loro componenti (altare, presbiterio, posizione del clero e dei fedeli, custodia eucaristica, per evidenziare alcuni aspetti) a seguito delle cosiddette riforme di fine anni ‘60, falsamente accreditate come previste dalle decisioni del Concilio Vaticano II, siamo sicuri che in taluni edifici sacri, costruiti o più o meno rimaneggiati da cinquant’anni a questa parte, la presenza di Dio sia così facilmente percepibile, come invece era chiaramente possibile negli edifici sacri di sempre?
La seconda riflessione richiama alcune iniziative per le quali si era speso tale cardinale Bergoglio, durante il suo ministero di arcivescovo di Buenos Aires, ovvero quello della costruzione di piccole cappelle nei posti più disparati, e frequentati ordinariamente dalla gente. Il richiamo alla esperienza del rione Sanita’ di Napoli, mi fa proprio pensarea questo; è vero, siamo di fronte a cambiamenti di carattere urbanistico e, collegati con questo, di carattere sociale indubbiamente rilevanti, ma si è stati capaci di intercettare adeguatamente questo cambiamento dando forza di decisione e di gestione anche ad un laicato, ovvero a soggetti intermedi (penso al caso delle confraternite, in particolare in Puglia che gestiscono numerose chiese direttamente e “autonomamente”), valorizzando, come accadeva -visto l’esempio fatto – con le diffusissime confraternite o i patronati vari, lo stesso laicato, il popolo di Dio e tantissimi edifici sacri?
Grazie e buona giornata!
Tutto passa, come insegna il buddismo. Ma non è un male, è una realtà che va semplicemente accettata. Al mondo esistono tantissimi resti delle antiche religioni che oggi non si praticano più: antichi templi, edifici sacri, piramidi, tombe… E spesso sulle rovine degli antichi templi delle religioni “sconfitte” furono eretti i nuovi edifici di culto delle religioni “vittoriose”. In questo il cristianesimo non ha fatto eccezione, anzi ha spesso utilizzato i templi degli antichi dèi romani per costruire le sue chiese, con notevole mancanza di rispetto per la religione sconfitta e i suoi fedeli. Se in Europa prevarrà l’islam accadrà la stessa cosa: chiese cristiane trasformate in moschee in una sorta di contrappasso: ciò che si fa si paga. Giustissimo.
Visto che la prossima religione dominante in Europa sara’ quella musulmana ,perche’ non trasformare le chiese cattoliche ormai vuote di fedeli cattolici in moschee di cui i numerosissimi fedeli islamici hanno bisogno? Sarebbe un gesto ecumenico e sancirebbe una volta per tutte l’ uguaglianza di fronte a Dio di tutte le religioni ,come affermato nella Fratelli Tutti .