Francesco e l’arte: profezia involontaria

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Anselm Kiefer: The Fertile Crescent.

L’incontro e il discorso del papa ai 200 artisti convocati nella Cappella Sistina il 23 giugno segnano l’avvio di una nuova consapevolezza del rapporto fra cattolicesimo e arte. Da un impianto metafisico e neoplatonico a un dialogo sulle prassi, intenzioni e contraddizioni dell’arte contemporanea.

Si passa dalla bellezza dell’ordine cosmico, riflesso della bellezza di Dio, al gesto, all’evento, al manufatto che, nell’imperante estetismo del mercato, mantiene uno spessore critico di protesta (di profezia), un’iniziale apertura al senso. Si salta dall’armonia cosmica e dalla “totalità” teologica ai singhiozzi e ai contrasti della fenomenologia concreta.

Nella cappella Sistina si amalgama l’arte “alta” e quella popolare: dal pittore A. Kiefer e dal pianista L. Einaudi, al cantautore L. Ligabue e al musico A. Rieu.

Papa Francesco agli artisti

Lontano dalla sensibilità estetica di Paolo VI, dalla pratica letteraria di Giovanni Paolo II e dalla competenza musicale di Benedetto XVI, Francesco entra in dialogo con una cultura artistica che non ha bisogno di un dio e neppure della bellezza e dei suoi canoni.

Sulla scorta di R. Guardini, il papa identifica l’artista come fanciullo e veggente, come bambino e profeta. Chiamato alla creazione e alla fecondità, porta alla luce l’inedito. Partecipe della passione generatrice di Dio suggerisce di vedere quello che sogniamo. Assomigliate ai profeti, dice Francesco «chiamati a sottrarvi al potere suggestionante di quella presunta bellezza artificiale e superficiale oggi diffusa e spesso complice dei meccanismi economici che generano disuguaglianze».

Capaci di umorismo e ironia, talora feroce, anche nei confronti del religioso, gli artisti sono chiamati ad una alleanza non sulla base dell’appartenenza confessionale, ma sulla difesa dell’umano comune e della sua apertura al trascendente. «Vi sento alleati per tante cose che mi stanno a cuore, come la difesa della vita umana, la giustizia sociale, gli ultimi, la cura della casa comune, il sentirci tutti fratelli. Mi sta a cuore l’umanità dell’umanità».

L’arte e la bellezza anche quando «seducono la carne» non producono solo emozioni, ma provocano la mente. Riflettono il nichilismo della nostra cultura. In parte lo denunciano rimanendone talora prigioniere. In parte si aprono all’incognito, all’altro a cui non danno nome.

Qui il papa diventa propositivo. Si può andare oltre l’incognito per un’apertura al trascendente. Sperimentare lo squilibrio non significa rinunciare all’armonia da raggiungere, dove le differenze non sono solo conflitti. «Lo Spirito è quello che fa armonia», a partire dalle molte differenze. Inoltre, gli artisti devono essere consapevoli che «anche i poveri hanno bisogno dell’arte e della bellezza». «Voi potere farvi interpreti del loro grido silenzioso».

In un contesto in cui la merce è diventato senso e il senso è diventato merce, in cui «sei quello che compri e quello che guardi perché senza quello che compri e senza quello che guardi non saresti niente» (J. Braudrillard), l’invito del papa agli artisti è di non accontentarsi di denunciare il vuoto, diventando funzionali al naufragio, di non subire la dissoluzione dell’arte nell’onnipotente strapotere dell’estetica, ma di accettare l’incontro con lo Spirito creatore e l’alleanza con la Chiesa per il futuro dell’umano.

È saggio accettare le provocazioni. Un coccodrillo appeso in verticale al centro del battistero di Cremona provoca sconcerto, ma apre anche l’intelligenza ad «una meditazione efficace e plastica sul tema della voracità dell’Ego che, come animale dalle fauci insaziabili, ha bisogno di essere placato da una grazia che può venire solo dall’alto» (G. Zanchi, SettimanaNews, qui).

Due casi recenti aprono il confronto su due possibili derive dell’arte. Il suo uso ideologico e distorto è presente nel trasferimento dell’icona della Santa Trinità di Rublëv dal museo Tretyakov alla cattedrale di Mosca e poi alla lavra della Santa Trinità di San Sergio. La concessione di Putin, come l’entusiasmo di Cirillo rispondono all’esigenza politica del consenso in tempi di guerra.

Il secondo caso è il dibattito sulle opere dell’artista Marko Rupnik. Allontanato dalla Compagnia di Gesù in seguito a processi causati dall’accusa di abusi, ha esposto la sua opera, soprattutto musiva, alla polemica sulla rimozione o meno dei suoi mosaici da prestigiosi luoghi liturgici.

Rublëv: l’arte per la guerra.

Il 12 luglio è stato firmato a Mosca l’accordo per trasferire l’opera di Andrei Rublëv alla lavra di San Sergio, luogo originario della sua creazione e presentazione. Il patriarca Cirillo e il ministro della cultura O. B. Lyubimov si sono accordati per la nuova collocazione la cui durata è di 49 anni (rinnovabili). La firma è stata celebrata da Cirillo come la definitiva chiusura dei tempi della persecuzione comunista e delle violenze su persone e manufatti allora perseguiti.

Più esplicito il 3 giugno scorso, il giorno prima della collocazione dell’icona nella cattedrale di Mosca, quando ha detto: «Un evento così fatidico, come il ritorno dell’immagine miracolosa della Santissima Trinità, dipinta da Andrei Rublëv, è di particolare importanza storica, e non è un caso che tali eventi si verifichino proprio in questo momento. Prendiamolo come un segno della misericordia di Dio verso il nostro popolo, il nostro paese, ed eleveremo fervide preghiere sia per la nostra patria che per la nostra Chiesa, affinché, con la forza della divina Provvidenza, il Signore protegga sia il popolo che il nostro paese dall’invasione straniera, dalle lotte intestine e da ogni male».

È la guerra d’invasione all’Ucraina e il suo esito disastroso che spingono Cirillo, del tutto supino al potere, e Putin a ricorrere all’icona per impedire la disgregazione civile. Ciò che resta dell’intelligenza laica nel paese ha protestato per la scarsa capacità di custodia della Chiesa circa opere d’arte di straordinario valore e grandemente fragili e, soprattutto, per la dimissione dello stato dai suoi compiti (anche il prezioso sarcofago di Alexsander Nevky è passato alla Chiesa).

Una giornalista molto attenta come Anna Zafesova attribuisce alla «componente di religiosità arcaica», al limite della superstizione, di Putin il trasferimento (cf. qui).

Un testimone interno alla vita ecclesiale e ora in esilio, S. Chapnin, rafforza il giudizio di religiosità primitiva e superstiziosa del presidente. L’icona diventa un idolo. Del resto, nel 2014, al momento dell’occupazione della Crimea, Putin voleva far risorgere nel Cremlino l’antico monastero che solo la resistenza passiva degli architetti, convinti dell’impossibilità dell’operazione, ha fermato (cf. qui).

I temi storici (fine delle persecuzioni) e politici (sostegno alla guerra) tornano nelle parole di Cirillo. Sono assenti le ragioni teologiche che, nella tradizione ortodossa, riconoscono all’icona una realtà quasi sacramentale. Testimone di una potenza che può agire sempre di nuovo per il devoto orante. «L’icona è dunque strumento di partecipazione e di trasformazione, è il mezzo grazie al quale, come dice Gregorio di Nissa “essendosi avvicinata alla luce, l’anima si trasforma in luce”, ciò permette all’uomo di diventare pneumatoforo, “portatore dello Spirito”, tempio dello Spirito, fino a partecipare alla natura di Dio» (S. Tagliagambe, SettimanaNews, qui).

Il governo ha stanziato 60 milioni di rubli per fornire di piccole icone i territori occupati. Putin nella sua visita alle truppe ha portato e distribuito icone dedicate alla Risurrezione.

Rupnik: damnatio memoriae?

«La mosaistica di Rupnik si è ritagliata uno spazio nel rinnovamento complessivo dell’arte liturgica e ha rappresentato una delle risposte dell’arte visiva capace di ridare alle immagini “devote” l’intenzionalità vitale delle icone. Lo stilema orientale, la rinuncia consapevole alla prospettiva, la convivenza fra citazioni dell’iconografia orientale e i “segni” della modernità, il prevalente ricorso al mosaico con la necessità di pietre originali e l’aggiunta della foglia d’oro, sono tutte finalizzate ad esprimere una teologia consapevole del moderno e radicalmente critica dello stesso» (qui).

Le reiterate accuse nei confronti di M. Rupnik sul tema oggi sensibilissimo degli abusi ha avviato il dibattito su cosa fare delle opere, su come rispondere alle domande delle vittime.

Alcuni hanno azzerato i programmi futuri, altri si sono limitati a cancellare i video e le pubblicazioni con le sue immagini, altri si interrogano sul da farsi. Come emblematico cito un dibattito ospitato da La Croix fra Arnaud Join-Lambert, professore di teologia a Lovanio, e p. Paul Valadier, professore emerito alla facoltà dei gesuiti a Parigi (apparsi rispettivamente il 20 e il 22 giugno).

«La gloria e i soldi di Rupnik – scrive Arnaud Join-Lambert – derivano dalle sue opere. È la Chiesa che ha permesso il suo successo, pur meritato da un punto di vista artistico. È dunque lì che bisogna agire. Bisogna far scomparire le sue opere. Così si farà memoria efficace delle vittime. Rifiuto gli argomenti speciosi di quelli e quelle che mirano a distinguere l’artista dall’opera. Nel suo caso i mosaici sono opere collettive. L’atelier di Rupnik e i suoi cantieri erano luoghi di manipolazione, di plagio e di abusi.

Queste opere sono blasfeme. La bestemmia è un peccato contro lo Spirito. È quanto vi è di peggiore nella vita di un credente o di una credente che abbiano sperimentato l’amore di Dio». (La lavanda dei piedi nella cappella Redemtoris Mater) «è toccante e magnifica, ma vomitevole e perverso è intuire il contrario di ciò che è rappresentato». «Ora è il momento favorevole per mostrare al mondo che la Chiesa ha fatto la scelta dei deboli e delle vittime e non dei potenti perversi… Siamo profetici. Smontiamo i mosaici e lasciamo il vuoto. Il vuoto sarà un omaggio alle vite distrutte dal predatore che ha manipolato tutte debolezze strutturali della Chiesa. Un vuoto che diventerà preghiera per essere colmato dalla misericordia di Dio nella forza dello Spirito».

Altrettanto diretta la risposta di Paul Valdier: «Non si vede in che cosa la distruzione di opere d’arte, a prescindere dal giudizio sul loro valore estetico e ancora meno sull’uomo che le ha fatte, possano apportare la minima soddisfazione a persone ferite a vita e alle quali nessun rimedio saprà liberare da traumatismi che non si cancellano. Solo le giuste riparazioni potranno forse compensare i disastri, ma è poco probabile che cancellino un passato che non passa».

La distruzione delle opere diventa irreparabile per l’arte. «È bene ricordare che i vari totalitarismi si sono accaniti per “far scomparire” le opere che li disturbavano: dai Budda distrutti dai talebani, fino alle chiese e alle statue devastate dai rivoluzionari francesi, dai bolscevichi in Unione Sovietica ecc». «Si tratta di un nascosto purismo ideologico, di una concezione del bene e del male che si manifesta, di una incipiente visione politica manichea (si pensi ai disastri del “realismo socialista”). In base a un tale purismo, preso sul serio, si dovrebbe eliminare dai nostri musei il Caravaggio che fu ladro e assassino, ma anche censurare e cancellare dalle nostre biblioteche un Gide che, in Marocco e altrove, si divertiva con giovani ragazzi, o una Colette, al suo tempo scandalosa per le sue audaci provocazioni, o un Celine, grossolanamente antisemita e sostenitore di un regime collaborazionista con il nazismo».

«Si tocca qui il delicato problema della relazione fra arte e morale. Non bisogna sacrificare la prima alla seconda. Se un artista commette dei crimini, va da sé che la responsabilità è sua e che deve occuparsene la giustizia». Le sue opere «possono essere immorali per lo spettacolo che rappresentano o per i personaggi che mettono in scena, ma vogliamo condannare il Fedro di Racine col pretesto che le sue opere teatrali mettano in scena degli amori più che equivoci, dobbiamo forse togliere dalla chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma le splendide tele del Caravaggio perché ha commesso un crimine?».

«È bene diffidare dei puristi che, sotto buoni pretesti, rinnovano tradizioni ostili alle arti, ostilità che purtroppo la Chiesa cattolica ha conosciuto, anche se non ha mancato di sostenere l’omosessuale Michelangelo, affidando a lui le pareti da affrescare della cappella Sistina».

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