Santa Sede alla Biennale di Venezia

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La misericordia ha occhi per vedere,
orecchi per ascoltare,
mani per risollevare…
(Papa Francesco Udienza Giubilare del 30 giugno 2016).

Da pochi giorni è aperto al pubblico il Padiglione della Santa Sede alla sessantesima Biennale d’arte di Venezia, che rappresenta un «evento» per più ragioni, specialmente quella di essere la prima biennale che vedrà la presenza di un pontefice; papa Francesco, infatti, sarà nella città lagunare la prossima domenica 28 aprile.

Quello della Santa Sede, però, non si presenta affatto come un “padiglione” nel classico senso in cui lo si intende, trattandosi, in realtà, del Carcere femminile nell’isola della Giudecca di Venezia, tuttora nel pieno delle sue funzioni di casa di detenzione.

Di questa sezione espositiva si è parlato molto, ancor prima che venisse inaugurata, e alcuni critici hanno già potuto sostenere che quella della Santa Sede si preannuncia come la più interessante dell’intera mostra. È possibile, volendo, ascoltare o leggere le varie presentazioni ufficiali di questo «non-padiglione» e le diverse interviste ai curatori, Chiara Parisi e Bruno Racine, e al cardinal José Tolentino de Mendonça, commissario vaticano per questo progetto di cui ha personalmente seguito la costruzione. Inoltre, sono già visibili in rete alcune significative immagini delle opere.

Con gli occhi di chi?

Titolo del progetto artistico con sede alla Giudecca è Con i miei occhi, che già dà molto da pensare. Infatti: sono gli occhi di chi? Chi guarda chi, tanto più che si tratta di un carcere? Sono i miei occhi di visitatore, o sono quelli delle donne che quel carcere lo abitano? Sono quelli delle guardie o di qualche entità sorvegliante più astratta? Oppure si tratta dello sguardo degli artisti?

Cioè di coloro che Francesco, nel discorso ad essi rivolto lo scorso 23 giugno, ha descritto in questo modo: «Siete alleati del sogno di Dio! Siete occhi che guardano e che sognano. Non basta soltanto guardare, bisogna anche sognare». Allora, però, c’è da pensare che tra le concrete possibilità vi sia quella che quei miei occhi possano essere quelli dello sguardo di Dio. Di un Dio che sogna per noi, con noi e in noi.

In ogni caso penso che, come spesso accade per le questioni legate all’arte, sia un interrogativo destinato a restare senza una risposta univoca e che, anzi, la forza di un gesto artistico stia nel librarsi sul crinale dell’ambiguità. È parte del suo mistero, dopotutto. Tuttavia si potrebbe anche scommettere sul fatto che, tramite l’arte e con l’aiuto dello Spirito –  sempre Francesco dice infatti che «l’artista ricorda a tutti che la dimensione nella quale ci muoviamo, anche quando non ne siamo consapevoli, è quella dello Spirito» -, proprio lì, nello spazio interstiziale tra il carcere e il «fuori» a cui dà accesso l’arte, si crei una situazione altra nella quale si incontrano gli sguardi e i sogni viventi di tutti: il mio, il tuo, quello delle detenute, delle guardie, degli artisti e anche quello di Dio.

E che possa allora accadere che tutte queste differenze di sguardi si compongano in una visione e un sogno comune. Che facciano misteriosamente comunione, insomma, in modo che attraverso un gesto creativo si arrivi a rompere tanto l’invisibilità sociale che quella visibilità di controllo alle quali in primo luogo le carcerate sono sottoposte come per un “raddoppiamento” della pena. Allora, forse, si può dire pure di chi non sono quegli occhi: non sono gli occhi di chi se ne serve per giudicare, condannare, scartare.

Tra tutte quelle presenti vorrei comunque soffermarmi sulle opere di una sola artista, ovvero sulle due installazioni che Claire Fontaine ha posto nel carcere, sia perché conosco e seguo da molto tempo il suo lavoro, sia perché la contemplazione di queste opere ha un’impercettibile potenzialità di smuovere qualcosa nell’interiorità, suggerendo una modalità di pensiero «lungo», il quale produce una riflessione inattesa mentre attiva un affetto troppo spesso dormiente. Quelle cose che, tutto sommato, sono ciò che ci si attende da un’opera d’arte che non sia del tipo usa-e-getta.

Claire Fontaine: sovvertire il regime di visibilità

Bisogna ricordare che Claire Fontaine, «artista collettivo» e «ready-made» come si autodefinisce, formato da Fulvia Carnevale e James Thornhill, oltre a partecipare direttamente a quello che ci piace chiamare il non-padiglione vaticano, ha dato anche il titolo, tramite una sua celebre installazione, all’intera Biennale d’arte di Venezia di quest’anno: Stranieri ovunque.

Il tema della stranierità, dell’alterità comunque declinata, è infatti uno dei grandi topoi del lavoro di Claire Fontaine, a partire dalla sua riflessione sullo statuto delle persone che qui, in Europa, vengono spesso chiamate “clandestine”, per non dire invisibili: sono quegli indesiderati, come vengono descritti dal collettivo artistico, che ricordano da molto vicino gli scartati così presenti nei discorsi di Francesco.

Scrive infatti Claire Fontaine: «Dove vanno gli indesiderati quando spariscono dalla nostra vista? I termini impiegati la dicono lunga: sono “trattenuti” in campi, subiscono un’“espulsione”, il vocabolario fecale non inganna: non solo il capitalismo non ha risolto il problema dei rifiuti, ma sempre più rapidamente lo statuto di rifiuto si applica a ciò cui fino a ieri non s’addiceva, questo vale sia per le cose che per le persone» (“Stranieri ovunque” [2005], in Claire Fontaine, Lo sciopero umano e l’arte di creare la libertà, DeriveApprodi, p.42, corsivo mio).

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Perciò, uno degli effetti ricercato da Claire Fontaine è quello di creare con le loro opere delle situazioni attraverso cui sia possibile attivare una visione nello spirito di questi scarti, di queste indesiderabili che per la società-così-com’è sono anche le persone abitanti il carcere della Giudecca. Di più: creare opere che spingano a percepire l’estraneità come un attributo di ciascuno e di tutti in una società alienata e alienante.

E il carcere è ovviamente la punta d’iceberg di questa fabbrica sociale dell’alienazione. Tramite l’affetto attivato dall’opera si tratta quindi di diventare estranei all’estraneità imposta, di fare esodo dalle rappresentazioni dominanti, per ritrovare e riconoscere sé stessi e gli altri. Come è facile intuire, non è altro che la traduzione artistica di un classico movimento della filosofia, a partire da Hegel e Marx, ma anche della spiritualità, basti pensare alla xeniteia praticata dal primo monachesimo.

Carcere, carcerate e carcerieri dunque, con i quali è stato costruito un non-padiglione perché, come hanno spiegato i curatori stessi, in questo caso non si è trattato di allestire una sorta di museo nel penitenziario e nemmeno di trasformare questo in una galleria d’arte, che sarebbero state operazioni sicuramente piene di glamour ma posticce e anche di dubbio gusto, ma di permettere alle prigioniere e agli artisti di lavorare insieme e fare un’esperienza comune di libertà, poiché se l’arte non si fa tramite di libertà non è niente, per poi proporla al pubblico: gli artisti con le loro opere, le detenute guidando i visitatori alla loro scoperta (loro le opere, loro le detenute, loro gli stessi visitatori, loro gli indesiderati tutti).

D’altronde, il dirsi «artista collettivo» per Claire Fontaine ha anche questo senso, cioè quello di produrre gesti artistici che siano pubblici, comuni e perciò abitabili, appropriabili o quanto meno attraversabili da una moltitudine di «singolarità qualunque», come l’artista ama ripetere appropriandosi di un concetto coniato da Giorgio Agamben. I suoi famosi neon, infatti, solitamente espongono frasi, espressioni, enunciazioni spesso ritrovate sui muri o nella «pattumiera della storia» – Claire Fontaine lavora un po’ con il fare poetico/profetico del rigattiere dei Passages di Walter Benjamin – le quali, una volta passate attraverso il lavoro artistico, prendono un senso differente oppure approfondiscono e dilatano quello che già contenevano ma che, in ogni caso, si propongono come speciali dispositivi alteranti la visione.

D’altra parte da sempre l’arte, quando è veramente tale, trasforma o sovverte i regimi di visibilità e dicibilità che sono permessi in una data epoca. A tal proposito, papa Francesco nel discorso agli artisti citava Romano Guardini, il quale li paragonava a dei «veggenti», e diceva: «Siete un po’ come i profeti (…) come sentinelle che stringono gli occhi per scrutare l’orizzonte e scandagliare la realtà al di là delle apparenze (…) Come i profeti biblici, ci mettete di fronte a cose che a volte danno fastidio, criticando i falsi miti di oggi, i nuovi idoli, i discorsi banali, i tranelli del consumo, le astuzie del potere».

Una delle due opere di Claire Fontaine presenti nel carcere della Giudecca è un’installazione luminosa composta da un grande occhio sbarrato posto in un angolo della casa di detenzione, proprio sul muro sotto una delle torri di guardia. Come tutti percepiscono facilmente, si tratta di quell’occhio sbarrato che appare sui media digitali insieme a scritte quali “contenuti sensibili” “disturbanti” o “violenti” e che in tal modo nasconde un’immagine, spesso immagini di violenza o comunque immagini che si crede possano turbare la sensibilità del pubblico. Ma quell’occhio sbarrato sta anche a dire che, tramite la scelta del singolo, è possibile cliccare sulla funzione «show me», mostramela, far aprire l’occhio e quindi vederla.

biennale1Come alcuni commentatori hanno osservato, quest’opera di Claire Fontaine potrebbe significare l’impossibilità per le detenute di vedere l’esterno del carcere, come anche quella di chi sta fuori e non può percepire il dentro. In effetti, parrebbe la spiegazione più logica, ma anche la più scontata.

Certo, essendo l’installazione attaccata alla torre di guardia, per e dalla quale le detenute sono costantemente sorvegliate, rappresenta sicuramente il significante di uno sbarramento a entrambe le visioni di cui sopra. Tuttavia, se riportiamo quell’occhio stilizzato alla sua funzione originale, significa anche e specialmente che vi è una possibilità di vedere, se lo vogliamo.

Quell’installazione funziona più come una preghiera e un incitamento a superare la sbarra, che in quanto rappresentazione di un semplice divieto: «Signore, apri i suoi occhi, perché vedano» (2Re, 6, 17).

In questo senso l’opera acquisisce quantomeno una doppia possibilità d’uso che dipende dalla nostra scelta. Possiamo infatti coincidere con la non-visibilità, prevista e voluta dal regime epistemico dominante, che ci porta a non sapere e non voler dire nulla su di una determinata situazione, quindi a «passare oltre», ma potremmo anche scegliere di fermarci, seguire un altro percorso e forzare quello sbarramento per vedere/sentire che cosa e chi c’è dietro.

Ovvero delle persone che, in ogni caso, soffrono la violenza di una detenzione ma che pure hanno una vita: sono donne che sognano, che ricordano, che raccontano, che pregano e che cercano di guardare oltre. E per le detenute vale lo stesso, seppur in senso inverso, cioè possono scegliere di aprire quell’occhio, attraversare quello sbarramento e sentire/guardare alle vite di chi sta al di là di quel recinto. In entrambe i casi, il risultato è quello della «destituzione» della funzione astratta della torre panottica e della «restituzione» alle detenute e ai visitatori di un uso differente, non superficiale, del vedere.

Cioè quello dell’esperienza di un vedere e vivere oltre e nonostante i muri e i pregiudizi, come fossimo tutte e tutti delle potenziali sentinelle di speranza. Speranza anche nelle cose che non si vedono immediatamente e che pure hanno una loro sostanza che sappiamo esserci perché ci tocca. Con un «click» sull’anima, allora, tutta una dinamica di sguardi e di reciproco desiderio si mette in movimento. Per i cristiani, d’altronde, tramite la liturgia e i sacramenti, questo modo del «vedere e vivere oltre», fino a poter gustare già oggi qualcosa del regno che deve venire, è oltretutto ben familiare.

«La notte in cui tutte le singolarità sono qualunque»

Così scriveva Claire Fontaine in un suo scritto del 2007 sullo «stato d’eccezione» promosso dallo stato di guerra permanente (Lo sciopero umano, p.82) e continuava riflettendo sul come fare a trovare in questa notte del mondo una «persona veramente umana», proprio qui, in mezzo ad anonimi soldati mandati al macello e cittadini integrati che credono di essere unici e differenti da tutti, mentre sono «unicità insignificanti» nella rete delle relazioni produttive.

E rispondeva che solamente l’amore è capace di farlo, perché: «L’esperienza, per impoverita che sia, ci insegna che l’amore non aderisce a un soggetto predefinito, che insomma quel che amiamo o ciò a cui ci leghiamo nell’altro è la sua singolarità in quanto tale (…) una singolarità amata è qualunque e non intercambiabile, mentre una singolarità produttiva è isolata e individualizzata, eppure in ogni istante sostituibile» (p.82-83).

Mi sembra che questa sia una buona chiave introduttiva all’altra opera di Claire Fontaine presente nel cortile del carcere della Giudecca, un grande neon blu luminescente che dice Siamo con voi nella notte. Questa frase è stata ripresa da una scritta che apparve sui muri delle città negli anni ’70 in solidarietà con i prigionieri politici, una maniera per chi era fuori dalla prigione di comunicare ai detenuti che, anche nel momento più oscuro della prova, forte era la solidarietà, che insomma gli si stava vicino, che li si amava in fin dei conti.

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Ora, però, nella nuova collocazione della scritta datagli da Claire Fontaine, sembra che la direzione del messaggio sia invertita. È come se le detenute dicessero a chi sta fuori: siamo con voi, anche in questo momento oscuro per tutti, perché ci importa di voi e vi amiamo per come siete, ognuno e ognuna nella sua singolarità. Non tocca forse il cuore questo povero neon accesso nella notte?

Scriveva, «illuminante», padre David Maria Turoldo: «Pure Cristo ha scelto la notte per dire a te quello che forse non riusciva a dire agli uomini di giorno (…) Sì, tutte le cose decisive avvengono di notte e nel deserto (…) È la notte come tempo del delitto e della grazia» (La mia vita per gli amici, Mondadori, p.152-153).

Il cardinal Tolentino ha detto in un’intervista a proposito della mostra che, con l’aiuto dell’arte, la vita, i sogni, le sofferenze delle donne detenute sono diventate «una parabola» che racconta anche le nostre vite, i nostri sogni e le nostre sofferenze, anzi di più, «i sogni di quest’epoca della storia».

Ed è così che un gesto artistico, attraversabile da tutti, può diventare un’opera di misericordia corporale e spirituale, la quale permette, diceva Francesco durante il Giubileo della Misericordia, di «mirare all’essenziale (…) guardare Gesù nell’affamato, nel carcerato, nel malato, nel nudo, in quello che non ha lavoro e deve portare avanti una famiglia (…) Guardare Gesù in loro, in questa gente. Perché? Perché così Gesù guarda me, guarda tutti noi».

In questo incrociarsi degli sguardi si svela forse il significato «notturno» di quel titolo perturbante: Con i miei occhi. Ed arriva anche il momento di usare le «mani per risollevare».

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