Sinodalità tra realtà e recitazione

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chiesa italiana

Negli ultimi anni, la Chiesa cattolica ha posto al centro della propria autorappresentazione la categoria di sinodalità, definita da papa Francesco come «il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio»[1].

È ormai acquisizione comune nella letteratura ecclesiologica riconoscere che la sinodalità rappresenta una dimensione costitutiva della Chiesa. Su questo tema si è scritto moltissimo e non sono mancati convegni e approfondimenti teologici.

Non ci si può certo illudere che la questione della sinodalità resti confinata a un livello puramente teorico, come fosse un argomento tra i tanti nei manuali di ecclesiologia.

Uno stile ecclesiale

La sinodalità, almeno sul piano teorico, dovrebbe incarnare uno stile ecclesiale fondato sull’ascolto reciproco, la corresponsabilità e la partecipazione di tutti i battezzati. Tuttavia, non pochi osservatori notano una significativa distanza tra la retorica sinodale e le sue concrete forme di attuazione.

Resta pertanto aperta una questione cruciale: una volta accolta tale consapevolezza nell’autocoscienza ecclesiale, come tradurre, sul piano organizzativo e strutturale, ciò che viene definito come “costitutivo” della Chiesa?

Per rendere concreto questo intento resta aperta una domanda decisiva: quali sono oggi gli strumenti di partecipazione realmente capaci di sostenere un tale sistema? Un sistema che, in verità, non dovrebbe neppure dirsi “nuovo”, se davvero la sinodalità è una dimensione costitutiva della Chiesa.

La sinodalità, nelle sue forme attuali, sembra oscillare tra intenzionalità riformatrice e rischio di vuoto performativo. Numerosi processi sinodali si sono tradotti in consultazioni popolari (questionari, assemblee locali, momenti di ascolto). Tuttavia tali pratiche rischiano di ridursi a una “liturgia della partecipazione” [2], in cui le voci dei fedeli vengono raccolte senza incidere realmente sui processi decisionali. È la dinamica della “partecipazione senza potere reale”.

La teologia conciliare ha indicato la necessità di superare un modello clericale e verticale della Chiesa. Tuttavia, in molte prassi sinodali attuali, la leadership rimane saldamente concentrata nei vertici episcopali, i quali si presentano come interpreti della voce del popolo di Dio, senza rinunciare a un controllo centralizzato.

L’attenzione mediatica rivolta ai grandi eventi sinodali e ai loro linguaggi simbolici (assemblee mondiali, riti di apertura e chiusura, narrazioni ufficiali) produce una sorta di consenso rappresentato, piuttosto che realmente elaborato.

In questa dinamica la sfera pubblica si riduce a spazio di legittimazione simbolica, non di autentica deliberazione[3]. Tutto viene poi esposto sui social. Siamo in presenza della categoria di “società della trasparenza” elaborata da Byung-Chul Han che descrive un contesto politico-mediatico in cui tutto appare esposto e condiviso, ma proprio questa sovraesposizione produce l’illusione della partecipazione, mentre il potere resta concentrato e invisibile[4].

L’esercizio del potere

Si registra nell’ambito ecclesiale quello che l’analisi politologica e filosofica evidenzia a riguardo delle democrazie odierne che tendono a trasformarsi in democrazie spettacolari, dominate da logiche mediatiche e da un esercizio del potere che si avvicina a ciò che Alfred Jarry, in chiave satirica, chiamava “ubuismo”[5]: un potere deformato, autoreferenziale e teatralizzato.

Nella politica l’ubuismo descrive il carattere caricaturale e autoreferenziale della leadership. Il concetto di ubuismo applicato alla Chiesa evidenzia una sinodalità che assume la forma del dialogo e dell’ascolto, ma mantiene le logiche clericali e centralizzate: un palcoscenico ecclesiale dove la partecipazione è rappresentata, non esercitata.

Tale configurazione si accompagna a una progressiva teatralizzazione della leadership: i leader non sono più mediatori delle istanze comuni, ma attori che mettono in scena la propria figura, esercitando un potere autoreferenziale, “performativo”, che non rende conto a nessuno.

Può risultare sorprendente per l’accostamento del termine democrazia a un istituto della Chiesa, la cui essenza è e rimane gerarchica.

Anche se, come afferma Papa Leone XIV, «non si tratta di trasformare la Chiesa in una specie di governo democratico», sinodalità e democrazia sono piante diverse che crescono in un terreno comune, con punti di contatto soprattutto nella sfera della rappresentanza e del consenso.

La sinodalità – cioè il “camminare insieme” (syn-odos) – non è un metodo deciso dall’alto o dal basso, ma uno stile di vita che appartiene alla stessa natura della Chiesa e alla sua missione: la salvezza dell’uomo avviene infatti lungo un cammino comunitario, segnato dai sacramenti e dall’amore verso Dio e verso i fratelli.

Intesa come carattere che riguarda tutta la Chiesa, la sinodalità si può facilmente avvicinare all’idea di democrazia, o almeno a un metodo democratico basato sulla rappresentanza.

La Chiesa sinodale “si offre, in particolare, come diaconia nella promozione di una vita sociale, economica e politica dei popoli nel segno della giustizia, della solidarietà e della pace’”. La sinodalità incoraggia tutti a riconoscersi come “fratelli, interdipendenti, bisognosi dell’ascolto e dell’accoglienza reciproca” e mette in luce come ogni persona abbia “un contributo singolare da offrire”; e ciò si contrappone all’“individualismo”[6].

Il processo sinodale rappresenta una nuova forma di partecipazione e ascolto che, come una piramide rovesciata, parte dal basso e trova il suo compimento – come già accadeva negli ultimi decenni – nelle decisioni del Papa all’interno del Sinodo. Ne risulta una dinamica più viva di consultazione e discernimento nella Chiesa, che esprime in modo più autentico il suo essere comunità.

Preoccupa però che l’intento riformatore di questa stagione sinodale si possa iscrivere in quella che è stata definita “democrazia recitativa”. Nell’importante volume di Emilio Gentile, Il capo e la folla[7], campeggia il concetto di democrazia recitativa. Con questa espressione, Gentile indica una forma di democrazia priva di sostanza, in cui i cittadini, formalmente aventi diritto a partecipare alla vita politica, sono in realtà ridotti a spettatori: non hanno autentica voce in capitolo, mentre il potere si concentra nelle mani di un ristretto numero di leader. Questi ultimi, esercitando funzioni di guida sia all’interno della propria formazione politica sia nel contesto nazionale, non rappresentano davvero i governati, ma agiscono in modo autoreferenziale e teatralizzato, creando un rapporto di tipo plebiscitario tra capo e folla.

Questo non è un tempo favorevole per la democrazia, eppure la democrazia stessa ha bisogno di aria nuova, di finestre spalancate, di dialogo e disponibilità a confrontarsi. Per vivere pienamente, deve saper attraversare i conflitti culturali usando le parole, mai la violenza. I conflitti non vanno negati né nascosti sotto facili coperture: vanno invece affrontati con consapevolezza, riconoscendone la realtà e la necessità, perché solo così la democrazia resta viva e autentica.

Il rischio della recitazione

Questo clima sembra essersi riversato anche in ambito ecclesiale: oggi la sinodalità, pur essendo pensata come espressione di partecipazione e corresponsabilità all’interno della Chiesa, rischia di evolversi in una vera e propria “sinodalità recitativa”.

Analogamente alla democrazia recitativa descritta da Gentile, i fedeli possono ridursi a una moltitudine ascoltante, incapace di incidere sulle decisioni, mentre la potestà deliberativa resta concentrata nelle mani di pochi responsabili ecclesiali.

Stiamo assistendo oggi una forma di sinodalità che porta con sé il rischio di una deriva dal tanto auspicato sistema partecipativo ad una modalità puramente recitativa. Lo sviluppo di questa componente recitativa, all’interno del cammino sinodale, è favorito dall’esercizio di leadership capaci di svuotare di significato i contenuti e i processi, concentrando su di sé l’attenzione e il consenso, facendo leva su dinamiche che non appartengono propriamente al discernimento ecclesiale. Spesso i processi decisionali vengono resi semplicemente irrilevanti una volta che la scelta del leader è stata fatta.

Questo fenomeno rischia di trasformare la sinodalità in una sinodalità recitativa, dove i protagonisti diventano un vescovo-decisore e una moltitudine che ascolta. Il primo si ritrova con sempre maggiore libertà di movimento e potere decisionale, mentre la seconda si riduce a semplice “moltitudine ascoltante”, plaudente e acclamante, ma del tutto priva di reale incidenza sul discernimento e sulle scelte, poiché non dispone degli strumenti canonici per vigilare, valutare e, se necessario, correggere o riequilibrare il potere di colui che guida.

La sinodalità recitativa non nega formalmente la possibilità di esprimere pareri e contributi da parte del popolo di Dio: semplicemente li rende irrilevanti per le decisioni del vescovo una volta assunta la guida del processo. Simile alla sinodalità ridotta a mera consultazione, criticata nei secoli come svuotamento della corresponsabilità, la sinodalità recitativa si configura come una sottile forma di clericalismo, che pretende di far apparire la sinodalità del capo e della moltitudine come la migliore fra le forme di partecipazione ecclesiale.

Così la sinodalità perde la sua forza vitale: diventa un rito vuoto, in cui l’apparenza di partecipazione sostituisce la vera corresponsabilità. Insomma la sinodalità recitativa è ancora concentrata sul modello storico della Chiesa o della guida ecclesiale centralizzata, visto come capostipite di un rapporto plebiscitario e fideistico tra il vescovo o guida e la moltitudine dei fedeli, in cui questi ultimi si affidano completamente alla volontà del leader senza più esercitare una reale voce nel discernimento comunitario.

Basti notare la riduzione degli organismi di partecipazione ecclesiale a meri strumenti di comunicazione di decisioni già prese. Ciò costituisce una distorsione significativa della loro natura e finalità. Tale prassi, infatti, contraddice la logica sinodale che dovrebbe caratterizzare la vita della Chiesa e impoverisce la qualità della partecipazione del popolo di Dio.

Gli organismi di partecipazione – quali i consigli pastorali diocesani e parrocchiali, i consigli presbiterali, i consigli per gli affari economici diocesani e parrocchiali – non sono concepiti come canali di trasmissione di direttive predisposte altrove, bensì come luoghi di comunione e corresponsabilità.

In essi i fedeli, ciascuno secondo il proprio carisma e ministero, sono chiamati a contribuire alla costruzione della comunità ecclesiale, prendendo parte attiva al discernimento e alle decisioni che riguardano la missione comune.

La prassi che svuota tali organismi del loro valore, genera diversi effetti negativi. In primo luogo, produce una mancanza di dialogo, poiché i fedeli non sono realmente coinvolti nei processi decisionali e vengono privati della possibilità di esprimere proposte o di collaborare nella definizione delle linee pastorali.

In secondo luogo, alimenta un paternalismo ecclesiale che riproduce schemi di subordinazione, nei quali il clero si configura come unico soggetto attivo mentre i laici rimangono meri destinatari delle decisioni.

Infine, tale dinamica comporta un danno alla missione ecclesiale, poiché la partecipazione attiva e inclusiva non è un optional, ma un elemento costitutivo della vitalità della comunità. La negazione di tale principio indebolisce la capacità della Chiesa di testimoniare il Vangelo nel mondo contemporaneo.

Il discernimento condiviso e il Codice

Pare che in molti casi la situazione non sia molto diversa da quella che denunciava negli anni ’60 don Lorenzo Milani circa lo stile di esercizio dell’autorità nella chiesa:

Per esempio un episodio come quello Bonanni in cui un rettore dopo sei anni di servizio viene sostituito per motivi che non sono stati comunicati, urta la sensibilità del mondo d’oggi di cui facciamo parte e che è ormai abituato a non accettare provvedimenti non motivati. Perché un importante provvedimento che non sia stato pubblicamente motivato è infamante per chi ne è l’oggetto. Offende poi la dignità di quanti sono direttamente o indirettamente interessati al problema. Li tratta come animali inferiori cui non si deve spiegazione e da cui non s’accetta consiglio. Dare, togliere, accettare e tenere le cariche come se le cariche fossero solo onori alla persona, problemi di carriera e non luoghi di servizio per i quali non si può pensare di servire senza una specifica competenza! I laici d’oggi restano a bocca aperta di fronte a questo settecentesco modo di concepire l’autorità. La possibilità di ricorrere contro le decisioni dell’amministrazione è stata introdotta in Italia da quasi un secolo, la motivazione obbligatoria delle sentenze, il diritto di difesa ecc. appartengono ormai al patrimonio di tutta l’umanità civile. Possiamo rinunciarci noi sacerdoti per una esigenza di ascetica personale, ma i laici d’oggi, cristiani e non cristiani, non possono capire perché solo noi non vogliamo tendere l’orecchio ai «segni dei tempi», adeguarci a esigenze così universalmente accettate (…). Quel che ci proponiamo è solo di creare una qualsiasi forma di dialogo tra noi e lui, un’usanza di parlargli, un nuovo stile di rapporto (…). Chiediamo all’Arcivescovo che risparmi ai nostri popoli lo scandalo di un assolutismo abbandonato ormai anche dal Papa e perfino dai comunisti (…). Chiediamogli di parlare anche con noi dei motivi della sostituzione del rettore. La nostra qualità di figli maggiorenni e di corresponsabili ce ne darebbe quasi un diritto. Ma non lo avanziamo. Lo chiediamo per piacere”[8].

Quando gli organismi di partecipazione vengono ridotti a semplici strumenti di comunicazione, si assiste a un tradimento della loro identità teologica e pastorale. Ne consegue un indebolimento della corresponsabilità, della sinodalità e della stessa missione della Chiesa, la quale rischia di smarrire la sua forma comunitaria e di ridursi a una struttura gerarchica autoreferenziale.

La sfida, pertanto, è recuperare il senso autentico di tali organismi come spazi di discernimento condiviso e di costruzione sinodale, in cui la comunione diventa esperienza concreta e non mera dichiarazione di principio. Ma è ancora molta la strada da fare.

Torno alla domanda iniziale: quali sono oggi gli strumenti di partecipazione realmente capaci di sostenere un tale sistema sinodale? A tal proposito desidero soffermarmi sull’aspetto giuridico del principio di sinodalità, che in parte sembra rivelare un volto nuovo della Chiesa, ma che non risulta ancora ben definito dal punto di vista del diritto canonico.

Papa Francesco ha introdotto i cosiddetti “processi sinodali”, un’espressione divenuta emblematica della dimensione ecclesiale intesa come ascolto dei “segni dei tempi”. Tuttavia, mentre sul piano pastorale la sinodalità viene fortemente valorizzata, sul piano canonistico resta un vuoto: questi “processi sinodali”, infatti, non trovano attualmente riscontro nel Codice di Diritto Canonico.

Al momento si registra una tensione: da un lato, la sinodalità come modus vivendi del Popolo di Dio; dall’altro, un sistema normativo che concentra potere decisionale e legislativo nella gerarchia (vescovi, parroci).

Il Codice, riflettendo la logica gerarchica, non sviluppa strutture reali di corresponsabilità decisionale. Ne deriva che la sinodalità rischia di rimanere “consultiva” e non “deliberativa”. Il Codice stesso riconosce ampie possibilità di partecipazione dei laici a funzioni di insegnare, governare, santificare[9].

Tuttavia, queste aperture restano eccezioni e non vengono valorizzate come espressione strutturale di corresponsabilità. Qui si apre la possibilità di una riforma che trasformi margini giuridici in diritti effettivi.

Il vescovo oggi concentra i tre poteri: legislativo, giudiziario, esecutivo. L’assenza di contrappesi giuridici (un tempo questa funzione la svolgeva i Capitoli!)  lo rende figura assoluta nel governo della diocesi.

Una Chiesa sinodale dovrebbe pensare a meccanismi di corresponsabilità vincolante, superando il modello puramente monarchico. Senza questo, il rischio è che i sinodi diocesani e i consigli pastorali restino puramente simbolici.

Perché questa stagione non sia un vapore che si dissolve al primo soffio di vento, ma un coraggioso esodo verso una terra nuova di Chiesa, non un capriccio di stagione, ma un segno che spinge a varcare la soglia di una conversione ecclesiale autentica, dove la rotta non si aggiusta per convenienza ma per obbedienza allo Spirito, è necessaria una riforma sinodale del Codice che includa:

  • Riconoscere giuridicamente la corresponsabilità del Popolo di Dio nei processi decisionali, non solo in forma consultiva.
  • Limitare la concentrazione dei poteri (vescovo/parroco) introducendo strumenti di controllo e verifica comunitaria (accountability).
  • Dare valore normativo ai consigli pastorali e presbiterali, affinché le loro decisioni non siano solo consigli ma assumano vincolatività.
  • Ampliare il ruolo dei laici in ministeri e uffici ecclesiali, riconoscendoli come ordinari, non straordinari.
  • Superare il clericalismo normativo, trasformando l’attuale gerarchia in una rete di ministerialità differenziate ma integrate.

Il cammino sinodale, se non si accompagna a una riforma canonica, rischia di rimanere una prassi pastorale fragile. Il diritto canonico, infatti, fissa ciò che conta nella vita ecclesiale: se la sinodalità resta fuori dal Codice, sarà sempre subordinata alla discrezionalità del singolo pastore.

Perciò il vero banco di prova della sinodalità sarà la capacità della Chiesa di tradurre in norme vincolanti la corresponsabilità dei battezzati, ridimensionando l’impostazione gerarchico-clericale.

Attualmente il Codice di Diritto Canonico prevede due principali “istituzioni sinodali”: il Sinodo dei Vescovi (cann. 342-348) e il Sinodo diocesano (cann. 460-468). Entrambe rappresentano modalità di governo strettamente legate all’esercizio dell’autorità episcopale.

In questo senso, sinodalità e collegialità sono due aspetti complementari che rimandano alla stessa potestà dei vescovi, esprimendo funzioni sia consultive sia legislative. I “processi sinodali”, invece, introducono un diverso riferimento normativo: non si limitano alla tradizionale potestà legislativa, ma si collegano anche a una forma di decisione che coinvolge l’intero popolo di Dio.

Ci troviamo davanti a una formulazione concettuale nuova, che mette in relazione in modo diverso sinodalità, collegialità e diritto, dando attuazione concreta al paradigma già delineato da Giovanni XXIII nel 1959. Egli, infatti, vedeva nell’aggiornamento della Chiesa la necessità di valorizzare la sinodalità, la comunione tra i vescovi e la riforma del diritto canonico. In questa prospettiva, la revisione del diritto canonico urge per poter diventare un motore di rinnovamento.

Il caso italiano

Finora i vescovi italiani hanno cercato con attenzione di ridurre al minimo la portata normativa del Sinodo nazionale, mostrando in modo più o meno evidente la loro preoccupazione per l’imprevedibilità di alcuni processi partecipativi.

Queste resistenze derivano dal fatto che la sinodalità si sta sviluppando con dinamiche diverse da quelle istituzionali. Oggi il termine “Sinodo” non si lega più principalmente all’idea di organo consultivo, ma a quella di partecipazione; allo stesso modo, la parola “comunione” non rimanda soltanto all’ambito episcopale, ma si apre a tutta la comunità ecclesiale.

I cammini sinodali possono rappresentare un segno di speranza per ricostruire un rapporto d’amore con la Chiesa, ma ciò richiede un cambiamento di prospettiva. È necessario guardare al futuro, non limitarsi al passato, e avere il coraggio di sperimentare forme nuove che permettano al Vangelo di essere annunciato con più efficacia.

Il diritto deve essere inteso come uno strumento a servizio di questo processo. Solo con questa consapevolezza sarà possibile agire con libertà e aprirsi a una visione di lungo respiro. In caso contrario, la sinodalità resterà soltanto parola d’ordine, slogan ripetuto nei documenti e nelle assemblee, ma privo di carne e di respiro. Sarà recita senza vita, retorica senza profezia, rito che non genera comunione né missione.

È sempre più facile rivendicare un potere che condividerlo. Ma ecco la domanda che ci inquieta come fuoco sotto la cenere: quanti tra coloro che invocano la sinodalità, quando essa resta parola scritta nei documenti o sogno proclamato nei convegni, saranno davvero pronti a riconoscerla quando bussa alla loro porta? Quando un fratello vescovo chiederà ascolto, quando un sacerdote domanderà di essere accolto come compagno e non come suddito, quando una consacrata o un consacrato, una donna laica o un uomo laico, alzeranno la voce per condividere non solo il cammino ma anche il discernimento e la decisione, ci sarà spazio per loro? O scopriremo che la sinodalità è tollerata solo finché non intacca la comoda solitudine del comando?


[1] Francesco, Discorso per la commemorazione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, 17 ottobre 2015.

[2] Cfr. G. Ruggieri, Chiesa sinodale. Una prospettiva ecclesiologica, Queriniana, Brescia 2017

[3] Cfr. Habermas, J., Nuovo mutamento della sfera pubblica e politica deliberativa, a cura di M. Calloni, trad. di L. Corchia e FL Ratti, Milano, Raffaello Cortina, 2023.

[4] Cfr. Han, B.-C., La società della trasparenza, Nottetempo, Milano 2014.

[5] «Ubuismo» (da Padre Ubu di Alfred Jarry): cfr. S. Zizek, Living in the End Times, London-New York 2010, 322-327.

[6] https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2025-06/grech-sinodo-sviluppo-economico-alfonsiana.html

[7] E. Gentile, Il capo e la folla. La genesi della democrazia recitativa, Laterza, Roma-Bari 2016.

[8] Milani L. Borghi B., Lettera a tutti i sacerdoti e per conoscenza all’arcivescovo Florit, 1.10.1964, in https://www.donlorenzomilani.it/al-clero-fiorentino/

[9] Cfr. cann. 129 §2; 1421 §2; 517 §2; 1112; 228; 460-463.

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6 Commenti

  1. Paolo 13 ottobre 2025
  2. Mauro Mazzoldi 10 ottobre 2025
  3. Giuseppe 10 ottobre 2025
  4. Aquini Massimiliano 10 ottobre 2025
  5. 68ina felice 9 ottobre 2025
  6. Fabio Cittadini 9 ottobre 2025

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