
Non di rado i generi letterari finiscono per porsi come gabbie, peraltro inadeguate a definire la varietà e mutevolezza delle forme d’espressione e dei relativi contenuti. Così il libro dello psicopatologo e fenomenologo Giovanni Stanghellini, Alle cose stesse. Monologhi sulle forme del corpo e dello spazio (Quodlibet, pp. 120, € 16), infrange ogni barriera, anche quella fra prosa e poesia.
Di monologhi si tratta, appunto, da leggere tutti d’un fiato; monologhi che però danno da pensare e dai quali, dunque, possono nascere mille dialoghi: con l’autore, con se stessi, con l’altro/a, con l’Altro e l’altrove.
Proviamo a porci in ascolto del prologo: «Sempre rivolto all’altro e alle cose, e mai installato in essi, non ho avuto – se non per svista – attorno a me, neanche per un giorno, lo spazio puro dove sbocciano i fiori a non finire. […] Io, nel sacrificio del comprendere l’altro, mi sono immaginato Sisifo infelice. Ordinare il suo mondo e vederlo franare. Riordinarlo e vedere franare me, la mia coscienza interpretante, insieme ad esso. Essere nell’aperto, invece, è come ribaltare una conchiglia. Io e l’altro siamo le due valve di questa conchiglia. Ogni cosa che accade, ogni cosa sentita, conosciuta e raccontata, è contenuta come la polpa, il frutto della conchiglia. Ogni volta che la conchiglia si apre, è l’evento di questo accoppiamento. Essere nell’aperto è comprendere che io sono il risvolto dell’altro, l’altro il mio, come lo sono il concavo e il convesso della medesima conchiglia».
E se la difficoltà che l’autore percepisce a rendersi partecipe di tale evento dipendesse, almeno un po’, dal proprio modo di intendere l’amore? Un modo assai sfaccettato, e ciascuna faccia ci interpella e ci accomuna: esperienze condivise, che ci caratterizzano come umani, nel godimento e nel tormento.
Un passaggio del monologo intitolato “Penetralia”, tuttavia, mi sembra dirimente, a proposito dell’amore cannibale: «Lusinga mangiandoti con gli occhi, mangiandoti di baci; ma per digerirti, assimilarti, cioè per renderti simile alla fonte del suo stesso desiderio. Questo è il lato meschino dell’amore: ridurre l’altro ad alimento del mio Io, nutrimento delle mie cellule, delle fibre di cui sono fatto, del mio essere come sono, della mia volontà. […] Resto comunque malato di nostalgia, e l’unico modo per curare questa vertigine sembra, almeno all’inizio, esacerbarla. Lasciarmi andare a questa vertiginosa attrazione per l’alieno. Lasciarmi risucchiare dal vuoto. Cercare me stesso nell’Altro: nelle energie impersonali dell’estasi sessuale, o in qualche droga. La mia coscienza cerca il proprio senso nell’incoscienza. L’altro è per me una purificazione, per quanto rischiosa, del mio Sé. Ma al tempo stesso il mio Sé si affanna a colonizzare tutti i domini strani dell’esperienza, tutti i suoi vuoti».
Ecco, se le due spinte in balia delle quali Stanghellini si sente – «arrendermi al vuoto o domesticarlo, arrendermi all’estraneo o fagocitarlo» – venissero rimpiazzate dall’idea dell’amore, e di Eros, come orizzonte, speranza, come luogo di una Promessa che anela all’infinito, forse l’aporia si scioglierebbe.





