
Quasi per caso mi sono trovato ad ascoltare dei brani dello scorso anno della cantautrice Angelina Mango, a cui di recente ho dedicato varie poesie. Ecco, ella è l’esempio forse più vicino a noi di un’artista che si dona anima e corpo al proprio talento e al proprio pubblico, fino allo sfinimento psicofisico.
Così mi sono ricordato del filosofo e teologo André Neher che, subito dopo aver composto il suo capolavoro – L’esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz –, oggetto del mio primo volumetto, ha un grave attacco cardiaco, nel 1970, finendo nella sala di rianimazione dell’ospedale di Strasburgo. Gli è accanto Renée, la moglie, che corregge le bozze. E André parla della fatica che la stesura dell’opera aveva comportato; un vero corpo a corpo con la carta e l’inchiostro, con l’argomento trattato, con se stesso. Come ricorda Elena Cecchi ne L’ineliminabile silenzio, di «tutti i miei scritti», egli dirà, «è questo l’essenziale. Perché è scritto sul non-scrivibile. È detto sul non-detto», avendo provato a porsi come «il rabdomante del Silenzio».
Ed è proprio la sensazione di un estenuante corpo a corpo, di una gestazione seguita dal travaglio che, nel mio piccolo, ho vissuto scrivendo quel volumetto.
Tre esempi, fra innumerevoli altri, di quella grande linea interpretativa dell’umano che Maria Teresa Catena, in Breve storia del corpo, rifacendosi a un libro di Renato Barilli, chiama del corpo presente. L’altra grande linea interpretativa, ovviamente, è quella del corpo assente. Si tratta, ella aggiunge, «di due prospettive sul corpo e sulla sua vita sensibile che coesistono, generando intrecci di diversa forma ed entità, capaci di intrattenere rapporti di aperta belligeranza o di collaborazione, di giustapporsi e, insieme, coesistere, interloquire o restare nell’indifferenza reciproca». Tanto che, per dirne una, come accade a tantissimi studenti o studiosi, impegnato nella stesura del mio testo, mi capitava di dimenticare di mangiare o di bere.
Il corpo-a-corpo con il pensiero o con l’arte, i vissuti somatici che accompagnano l’estro artistico o “la fatica del concetto”, dunque, spesso e volentieri fanno tutt’uno con una sorta di atteggiamento ascetico. Mentale e corporeo, direi, vivono, insieme o separati, mille vite diverse, non soltanto due, e neppure soltanto il flusso bidirezionale, o la circolarità, degli influssi reciproci. Eremitaggio e socialità, dolore fisico o sofferenza psicologica, stanchezza e slancio passionale rappresentano alcuni dei volti dell’attività intellettuale e, in senso lato, spirituale.
Potremmo anche affermare che talora è come se fossimo il nostro corpo, talaltra è come se non lo avessimo. E anzi, spesso, esso, nello stesso tempo, c’è e non c’è, è assenza e presenza.
Una domanda in apparenza ingenua, per comprendere meglio: nei versi di Giacomo Leopardi è presente il corpo dell’autore? Sì e no, contemporaneamente: è forse l’unica risposta sensata. E nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci? Di nuovo, no e sì.
Vi è quasi, a volte, un urto, una collisione, potremmo dire un corpo a corpo, se non si generasse un bisticcio di parole, fra i paradigmi del “corpo presente” e del “corpo assente”, e, potremmo ipotizzare, le opere scientifiche, artistiche, filosofiche, letterarie ne costituiscono alcuni dei possibili esiti.
Parafrasando Aristotele, insomma, mente e corpo si dicono in molti modi.





