IRC, è necessario cambiare

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A quarant’anni dall’introduzione dell’attuale modello di Insegnamento della religione cattolica (IRC) nelle scuole italiane, appare evidente che l’obiettivo di offrire agli studenti una solida conoscenza della cultura religiosa e delle radici cristiano-cattoliche del nostro Paese non può dirsi raggiunto. Al contrario, si assiste da tempo a un crescente analfabetismo religioso e biblico.

Un dato particolarmente significativo è offerto dal Rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia, secondo il quale neppure un italiano su tre conosce il nome dei quattro evangelisti, né è in grado di collocare in ordine cronologico figure centrali come Noè, Abramo, Mosè e Gesù. Ancora più esiguo è il numero di coloro che, pur avendo frequentato l’ora di religione, possiedono una conoscenza minima dei testi evangelici o della storia del cristianesimo.

L’importanza dell’IRC

L’attuale configurazione dell’IRC è frutto della revisione del Concordato tra la Santa Sede e la Repubblica Italiana del 1984, elaborata in un contesto storico e culturale profondamente diverso da quello odierno. All’epoca, il mondo era ancora diviso tra i due blocchi della Guerra Fredda, non esistevano smartphone o social network e in Italia la società era ancora ampiamente omogenea dal punto di vista religioso e culturale.

Oggi il contesto sociale è radicalmente mutato, e con esso sono cambiati anche i bisogni educativi ai quali la scuola è chiamata a rispondere.

L’insegnamento della religione conserva un’importanza significativa per la comprensione del patrimonio culturale del popolo italiano: la tradizione cristiana permea infatti letteratura, arte, filosofia e storia del nostro Paese. Tuttavia, negli ultimi decenni si sono imposte nuove e urgenti esigenze formative.

Anzitutto, la religione continua a essere un attore centrale nello scenario politico globale, come dimostrano i conflitti tra Russia e Ucraina o tra Israele e Hamas. Essa assume un ruolo sempre più visibile nelle politiche internazionali – dall’America di Trump all’India di Modi, dalla Turchia di Erdoğan all’Ungheria di Orbán – e diventa spesso uno strumento di legittimazione simbolica per politiche identitarie o nazionalismi di varia natura.

In questo contesto, acquisire una competenza religiosa di base rappresenta un requisito essenziale per comprendere le dinamiche del mondo contemporaneo e la complessità del nostro presente. Conoscere le religioni, in altri termini, significa possedere un “alfabeto” fondamentale per interpretare la realtà.

Un contesto mutato

In secondo luogo, nei quarant’anni che ci separano dalla revisione del Concordato, la società italiana si è fatta progressivamente più plurale sul piano religioso. Accanto alla maggioranza cattolica, sono cresciute in modo significativo le presenze di musulmani, cristiani ortodossi e evangelici, buddhisti, induisti e sikh. A queste si aggiungono fasce crescenti di persone che si dichiarano non credenti – soprattutto tra i più giovani – o che, pur nutrendo una qualche forma di spiritualità, non si riconoscono in alcuna religione istituzionalizzata.

Questo scenario impone alla scuola un ripensamento profondo: educare al pluralismo religioso non è più un’opzione, ma una necessità. La conoscenza delle religioni altrui – così come un approfondimento della propria – è essenziale per superare stereotipi e pregiudizi che ostacolano la coesione sociale e rallentano i processi di integrazione.

In altri termini, occorre formare cittadini capaci di riconoscere e valorizzare le differenze, all’interno di una cornice condivisa di convivenza laica e democratica. Per questa ragione, è oggi cruciale che l’insegnamento della religione si orienti verso una prospettiva interculturale e interreligiosa.

L’attuale assetto dell’IRC, tuttavia, non sembra in grado di rispondere in modo efficace a queste esigenze. Le criticità sono molteplici, ma convergono su un nodo centrale: la natura confessionale dell’insegnamento religioso nella scuola pubblica (e laica).

La facoltatività

Un primo effetto problematico è rappresentato della facoltatività. Infatti, se, da un lato, essa garantisce il diritto di non avvalersi, dall’altro, rischia di svuotare l’insegnamento della religione della sua portata formativa, dal momento che consente di eludere la conoscenza di un patrimonio storico-culturale che dovrebbe appartenere a tutti.

Attualmente, circa l’84% degli studenti italiani sceglie di avvalersi dell’IRC. Ma, anche ammettendo che il restante 16% possa essere ignorato (il che, in sé, sarebbe già discutibile), questo dato richiede comunque alcune riflessioni più approfondite.

Anzitutto, la media nazionale nasconde profonde differenze tra i vari ordini di scuola e le diverse aree geografiche del Paese. Nella scuola primaria, per esempio, la percentuale di avvalentisi si avvicina, per ovvie ragioni, al 90%, mentre nella secondaria di secondo grado si attesta intorno al 78%.

Ancora più marcate sono le differenze territoriali: in Basilicata o in Calabria i non avvalentisi rappresentano circa il 3% degli studenti, mentre in regioni come la Valle d’Aosta superano il 30%; in Emilia-Romagna e Toscana la percentuale è superiore al 27%. In molte zone d’Italia, in altre parole, una parte significativa dei futuri cittadini non riceve alcuna educazione alla conoscenza del fatto religioso da parte della scuola.

Si rileva inoltre, all’interno degli istituti superiori, una marcata differenza tra licei e istituti professionali, dove l’IRC viene spesso evitata da un numero crescente di alunni. In questi casi, la facoltatività risponde sempre meno alla legittima tutela della libertà religiosa e sempre più alla logica opportunistica di “saltare” un’ora di lezione.

Un ulteriore effetto distorsivo della facoltatività è il progressivo abbassamento del livello dei contenuti proposti. Per trattenere in aula gli studenti, molti insegnanti di religione sono spinti ad alleggerire i programmi, a renderli “piacevoli”, rinunciando all’approfondimento delle competenze religiose fondamentali e trasformando la disciplina in uno spazio indefinito, spesso sospeso tra l’educazione civica, la psicologia e la spiritualità.

La confessionalità

Anche l’educazione alle differenze risulta compromessa dall’attuale assetto concordatario e confessionale. Se conoscere le religioni – che per milioni di persone costituiscono ancor oggi un elemento identitario decisivo – è condizione imprescindibile per abitare in un mondo plurale, la facoltatività rischia di escludere proprio quelle differenze che la scuola dovrebbe invece valorizzare.

Quando una classe viene divisa tra avvalentisi e non avvalentisi, si perde l’occasione di un confronto comune su credenze, simboli, feste e narrazioni religiose che attraversano la vita quotidiana di studentesse e studenti.

Inoltre, si normalizza una forma di separazione tra maggioranze e minoranze religiose: i cattolici “dentro”, gli altri “fuori”, privando così parte degli studenti di un contesto in cui poter essere riconosciuti interlocutori a pieno titolo.

In tal modo si rischia di creare uno spazio chiuso, autoreferenziale, dove prevale l’omogeneità anziché il confronto, che ostacola l’acquisizione di quelle competenze dialogiche trasversali ormai centrali nelle Indicazioni nazionali e nei profili di competenza europea.

La confessionalità dell’IRC ha anche prodotto una carenza strutturale sul piano della valutazione. L’Insegnamento della religione cattolica resta infatti disciplinato dalla legge n. 824 del 1930, che, all’articolo 4, stabilisce la sostituzione dei voti con una «speciale nota riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento», redatta dal docente e comunicata inserita nella pagella scolastica.

Ne consegue che l’IRC, nella scuola secondaria, a differenza delle altre materie scolastiche, non prevede una valutazione numerica, e che il giudizio espresso non incide sulla media finale degli alunni.

Lo stesso vale per l’esclusione dell’IRC dall’esame di Stato nelle scuole superiori, che, di fatto, sottrae l’insegnamento della religione a una verifica pubblica dell’apprendimento degli studenti e dell’operato degli insegnanti.

Il messaggio implicito che ne deriva è chiaro: la religione è una materia accessoria, marginale, e non un sapere culturalmente rilevante. Gli effetti di tale messaggio sugli studenti sono facilmente immaginabili.

Un insegnamento “plurale”

Oggi il tempo sembra ormai maturo per un nuovo statuto dell’insegnamento religioso nella scuola pubblica italiana. Occorre pensare un insegnamento delle religioni – al plurale – che affronti il fenomeno religioso nella molteplicità di tutte le sue espressioni, offrendo a tutti gli studenti e le studentesse strumenti critici per interpretarne il ruolo nella storia e nell’attualità. Un insegnamento realmente rivolto a tutti, superando l’ambiguità della facoltatività e la dubbia commistione tra insegnamento e pastorale.

Un insegnamento gestito autonomamente dallo Stato, come già accade in molti Stati europei, anche con l’apporto alla riflessione e alla pratica educativa delle Facoltà di teologia e degli Istituti di Scienze religiose. Questo consentirebbe di valorizzare la grande ricchezza culturale e sociale costituita dalle religioni presenti oggi nel nostro Paese.

Solo così l’ora di religione potrà diventare uno strumento di educazione alla cittadinanza, al confronto alla convivenza e alla pace, rispondendo pienamente ai bisogni formativi della società contemporanea.

  • Gruppo di ricerca per un nuovo insegnamento della religione a scuola, presso l’Istituto Studi ecumenici di Venezia: Filippo Binini, docente IRC; Giuseppe Bizzi, docente IRC; Marco Campedelli, docente IRC; Marco Dal Corso, docente di IRC e docente di dialogo interreligioso presso l’ISE di Venezia; Maria Chiara Giorda, docente di Storia delle religioni Università Roma Tre; Giovanni Lapis, Marie Skłodowska Curie Research Fellow Università Sapienza; Carlo Macale, docente di Pedagogia Generale e Sociale Università degli Studi “Niccolò Cusano”; Patrizia Menozzi, docente IRC; Alessandro Saggioro, docente di Storia delle religioni Università Sapienza; Brunetto Salvarani, docente di Missiologia e Teologia del dialogo Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna; Marco Zambon, docente di Storia del cristianesimo Università di Padova. Questo progetto di ricerca è finanziato dalla Conferenza Episcopale Italiana.
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45 Commenti

  1. Franco Pignotti 30 ottobre 2025
  2. Giorgio Bellieni 3 ottobre 2025
  3. Alessandro 1 ottobre 2025
  4. Targo 28 settembre 2025
  5. Maria Laura Innocenti 24 settembre 2025
  6. Samuela Boschi 23 settembre 2025
  7. Barbara 22 settembre 2025
  8. Giacomo 22 settembre 2025
  9. Francesca 22 settembre 2025
  10. Chiara 22 settembre 2025
  11. Giacomo 22 settembre 2025
  12. Noemi 21 settembre 2025
  13. Marco 21 settembre 2025
  14. Emilio 21 settembre 2025
  15. Stefano 21 settembre 2025
  16. Francesco 21 settembre 2025
  17. Francesco Sandroni 21 settembre 2025
    • Massimo Pieggi 21 settembre 2025
      • Francesco Sandroni 22 settembre 2025
        • Massimo Pieggi 22 settembre 2025
  18. Francesco Camattini 20 settembre 2025
  19. Giovanni Salmeri 19 settembre 2025
    • Massimo Pieggi 20 settembre 2025
    • Samuela Boschi 24 settembre 2025
  20. Massimo 19 settembre 2025
  21. Piotr Zygulski 19 settembre 2025
    • Massimiliano 19 settembre 2025
  22. Massimiliano 18 settembre 2025
  23. Massimiliano 18 settembre 2025
  24. Beatrice Iacopini 18 settembre 2025
  25. Giovanni Ircano 18 settembre 2025
  26. Costanza 18 settembre 2025
    • Giuseppe 19 settembre 2025
      • Costanza 19 settembre 2025
  27. Paola 18 settembre 2025
  28. Salvatore 18 settembre 2025
  29. Giuseppe 18 settembre 2025
  30. Massimo Pieggi 18 settembre 2025
  31. Giampaolo Sevieri 18 settembre 2025
  32. Dora Bagnulo 18 settembre 2025
  33. Stefano Fanelli 18 settembre 2025
  34. Sara Mainardi 18 settembre 2025
  35. Fabio Cittadini 18 settembre 2025
  36. Marzia 18 settembre 2025
  37. Giuseppe 18 settembre 2025

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