Kafka e la sua disperata speranza

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Al cuore dell’opera di Franz Kafka – e, nel centenario della sua morte (3 giugno 1924), mi pare un fatto di giustizia affermarlo – vi è una meditazione ininterrotta sulla speranza.

Mi rendo conto che questa affermazione potrebbe a tanti sembrare bizzarra, considerando che il nome dello scrittore praghese è divenuto nella cultura di massa, anzi meglio, nello «spirito del mondo», sinonimo del contrario, cioè di una disperazione assoluta e feroce.

La speranza, potenza di un altro tempo

Ma una simile sentenza, emessa anonimamente, perché la massa non ha nome, è esattamente quel genere di giudizio con il quale Kafka si è scontrato frontalmente nel corso di tutta la sua vita che, nel suo caso, si confonde interamente con la sua scrittura. Veramente disperante è questo mondo, questa massa anonima e giudicante, non Kafka.

In questo senso non si tratta mai, per lui, della speranza intesa come un fatuo ottimismo, cioè precisamente la falsa speranza mondana che Kafka si è preoccupato di distruggere pezzo a pezzo, ma di quella compresa come la potenza di un altro tempo, di un futuro tremendamente liberatorio contro l’avvenire stantio di una triste storia prigioniera di sé stessa.

Il lavoro di Kafka è consistito nel cercare di spazzare via, mostrandocela, tutta la coltre di menzogna e di illusione che soffoca il respiro di questa speranza palpitante di felicità.

La lotta di Kafka, perché di una lotta si tratta e fin dal principio – Descrizione di una battaglia è difatti il titolo del suo primo racconto che, a mio avviso, si può intendere come il programma di tutto ciò che scriverà –, è dunque un combattimento per la speranza.

In questo suo racconto, il quale si svolge nella notte tra città e foresta, fiumi e rocce, chiese e viottoli oscuri, salotti chic e osterie maleodoranti, cioè nel «deserto» che Kafka scelse di attraversare, la speranza è percepibile nell’attesa fiduciosa dello spuntare del nuovo giorno: il personaggio-narratore, pur nella sua sfinitezza, nell’incomprensibilità dell’esistenza e nella contrarietà della storia, sente l’approssimarsi dell’alba radiosa della resurrezione dell’uomo e della trasfigurazione cosmica. Ma, nel frattempo, sa che deve lottare, contro l’assurdo e anche contro l’ombra di «mondo» che porta dentro di sé, pur se non sa bene perché, come e fin dove farlo. È solo una questione di fede.

Noto solamente – a proposito della lotta nelle tenebre e dell’attesa dell’alba come inizio di una nuova vita – che il protagonista di quel racconto, a un certo punto, si accorge di essere stato ferito al femore, nello stesso punto in cui venne ferito Giacobbe nella sua lotta notturna con l’Angelo.

Ritrovare le chiavi giuste

Gershom Scholem, il grande storico della mistica ebraica, nelle prime pagine del suo libro sul simbolismo della kabbala, cercando di indicare la situazione attraverso cui far comprendere che cosa fosse questa disciplina mistica, la quale si concentra sulla ricerca di un modo per accedere al contenuto della Rivelazione, e, allo stesso tempo, indicando la crisi spirituale della modernità, non trova di meglio che ricorrere a Kafka.

E, per spiegare questo riferimento, ricorre ad un altro autore, antico e cristiano questa volta, cioè Origene, il quale, iniziando il commento al Salmo 1, riferisce il pensiero di un altro sapiente, un rabbino precisamente.

Insomma, Scholem disegna quasi la catena di una tradizione parallela a quella ufficiale, quella dell’esilio nel mondo, che va dall’antico rabbino di Cesarea fino a Kafka, passando per Origene e i kabbalisti.

Il rabbino aveva detto a Origene che la Scrittura è simile a un grande palazzo in cui vi sono moltissime stanze e davanti a ciascuna di queste c’è una chiave, solo che non è quella giusta: le chiavi si sono confuse e quindi il compito dell’esegeta o del mistico è di ritrovare le giuste chiavi per ogni porta.

Questa dispersione, che priva di senso una Legge che tuttavia resta vigente, è il drammatico significato teologico dell’esilio in cui vive ormai l’umanità secolarizzata e – secondo Scholem – questa è esattamente la situazione messa in luce dall’opera di Kafka che, specificava lo storico, non ha in sé nulla di negativo, ma anzi indica la profondità non solo esistenziale ma spirituale, che è cosa diversa da “religiosa”, della sua opera.

Le cose “leggermente spostate”

Dunque, il problema kafkiano è dato dal disperdersi della Tradizione e quindi dalla confusione di ogni cosa: tutto nel mondo si trova diabolicamente fuori-posto.

Lo spostamento, in effetti, rimanda al peccato originale e, dunque, al male: si può dire che tutti gli aforismi kafkiani detti “di Zürau” non parlano che di questo. Di questo e del paradiso che, insinua Kafka, forse non abbiamo mai veramente lasciato ma, a causa del peccato, siamo incapaci di riconoscere e perciò tutto ci appare deviato, inappropriato, assurdo.

Infatti – ricordano ancora dei sapienti ebrei – la venuta del Messia consisterà in un piccolissimo spostamento di tutte le cose del mondo che le riporterà al loro giusto posto, quello dell’origine edenica. Ricordo che Walter Benjamin, il quale ha scritto forse il più bel saggio di sempre su Kafka, aveva ben presente questa interpretazione del gesto messianico.

Non so davvero se qualcuno lo abbia mai notato, ma proprio all’inizio del Processo, il romanzo più celebre di Kafka, vi è un piccolo ma importante segnale della catastrofe che sta per abbattersi sul personaggio della novella, ovvero che tutte le cose nell’appartamento di K. sembrano uguali, anzi sono proprio le stesse del giorno prima, ma leggermente spostate.

Kafka ci mostra così il rovescio della leggenda rabbinica, mostra il suo lato negativo, tutto quello che il Messia deve redimere. È in questo modo, con questa chiave, che è possibile entrare nel labirinto dell’opera di Kafka senza perdersi.

Il mondo che lui descrive è il negativo del Regno messianico, perciò appare sudicio, malizioso, incomprensibilmente complicato, malvagio fino all’omicidio insensato.

Il mondo è un paradiso deformato dalla caduta ma – ricorda Benjamin nel suo saggio su Kafka – «le deformazioni che il Messia verrà un giorno a correggere» non riguardano esclusivamente lo spazio, esse sono «deformazioni del nostro tempo». Un ordine apparente, quello del «mondo», rimanda a un vero disordine, mentre un disordine apparente, quello «messianico», rimanda a un vero ordine.

Tutta la disperazione e la vergogna per la disumanità di questo disordine porta Kafka a un incessante corpo a corpo spirituale ed esistenziale con l’ingiusta disposizione delle cose del mondo in un tempo sbilenco ma, allo stesso momento, tutta la speranza e il coraggio di Kafka è nella certezza di un giusto ordine cosmico che attende solamente di essere ri-conosciuto, ri-cordato, ri-lodato in un altro spazio-tempo, quello della Redenzione.

Fino ad allora è come se nulla fosse veramente successo, dirà parlando dei movimenti rivoluzionari spirituali.

Come accedere a quest’altra temporalità? Come sperare contro ogni speranza? Questi sono i dilemmi di Kafka, e anche i nostri evidentemente.

La chiave che apre la Porta di tutte le porte

Più volte mi è capitato di ricordare una conversazione di Kafka con il suo amico Max Brod, in cui questo gli domanda se, infine, vi fosse una speranza. Kafka, con la sua consueta ironia dolorosa, rispose che certo che vi è una speranza, una grandissima speranza, solamente «non per noi».

Personalmente non intendo questo «non per noi» in un senso di chiusura e condanna definitiva, che è la banale e alla fine confortevole interpretazione che ne darebbe il «mondo», ma come un “non per noi così come siamo”, ovvero che è necessaria una discontinuità, una rottura, una metamorfosi, un cambiamento radicale, ovvero quello spostamento esistenziale che, nella tradizione cristiana, siamo abituati a chiamare «conversione». È solo questa destituzione dell’ego che ci farebbe vedere le cose diversamente, come veramente sono o dovrebbero e potrebbero essere, e non più come ci appaiono nello specchio deformante del «mondo».

Scholem, forse comprensibilmente dal suo punto di vista, non raccontò tutto ciò che disse Origene, e che a noi invece dovrebbe interessare (cf. PG 12, 1079-1080), ovvero che il palazzo ha una chiave esterna per aprire la Porta centrale e quindi raggiungere le varie stanze di cui le chiavi sono state gettate alla rinfusa. Questa chiave principale è – secondo Origene – lo Spirito Santo e, per corroborare questa sua ipotesi, cita san Paolo: «Di queste cose noi parliamo, con parole non suggerite dalla sapienza umana, bensì insegnate dallo Spirito» (1Cor 2,13).

Insomma, senza l’aiuto dello Spirito non è nemmeno possibile entrare nel Palazzo, tanto meno quindi ritrovare la giusta chiave per ciascuna delle sue stanze. Ma se lo Spirito è amore, allora questa è la sola chiave che permette di aprire la Porta di tutte le porte; amore che è esattamente ciò che per tutta la sua esistenza Kafka ha cercato, lottando e sperando contro ogni speranza. Per convincersene, è sufficiente leggere i suoi Diari, le sue lettere a Milena e persino la sua terribile Lettera al padre.

La Porta – ci ha detto Gesù – è Lui stesso ed è attraverso di Lui, guidati dallo Spirito, che possiamo accedere alla verità del Regno. Kafka credo percepisse più di qualcosa di questo mistero, ad esempio quando, rispondendo a una domanda del suo giovane amico Janouch, disse: «Cristo è un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi».

Bene allora, mentre salutiamo e ringraziamo nostro fratello Franz Kafka, non ci rimane che domandare allo Spirito di aprire i nostri occhi.

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Un commento

  1. Tano D'Amico 3 giugno 2024

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