Mediterraneo: tomba dell’umano

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Oltre alle motivazioni riguardanti la cura comune del Creato e l’attenzione ai deboli e ai migranti, c’è una profonda ragione culturale per ricordare il messaggio di papa Francesco a Bartolomeo I, Patriarca ecumenico di Constantinopoli e ai partecipanti al Simposio sull’ambiente, che si è tenuto ad Atene all’inizio del mese di giugno del 2018, letto dal cardinale Peter Turkson, prefetto del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale.

Il mito e la storia

Nelle parole di allora del papa, il Mediterraneo è un mare meraviglioso trasformatosi in «una tomba per uomini, donne e bambini che in gran parte cercavano solo di sfuggire alle condizioni disumane delle loro terre».

Questa situazione, tragica di per sé, si carica di un significato ancora più amaro e paradossale se, oltre alla sua intrinseca bellezza marina, richiamata dal pontefice, si prende in considerazione ciò che storicamente è stato questo luogo, oggi diventato il simbolo dell’ecatombe di migliaia di persone e della cinica indifferenza nei confronti della loro sorte.

A farcelo capire è la profonda e documentata riflessione sul rapporto tra la mitologia e la filosofia proposta dal teologo, filosofo e matematico russo Pavel Florenskij nelle sue magistrali undici lezioni tenute nel 1909 presso l’Accademia teologica di Mosca, tradotte in italiano da Andrea Dezi e pubblicate da Mimesis in un volume da lui curato, uscito due anni fa con il titolo Primi passi della filosofia. Lezioni sull’origine della filosofia occidentale.

Nel suo corso, Florenskij si vale di quanto aveva rivelato già allora l’archeologia nell’arco dei tre decenni che vanno dalle prime scoperte di Schliemann a Troia, che risalgono agli anni settanta-ottanta del XIX secolo, ai lavori di scavo a Delo, intrapresi da Homolle e Holleaux nel terzo anno del XX secolo, passando per le ricerche di Evans a Creta, iniziate nel primo anno del XX secolo.

I risultati di questi scavi hanno rivelato l’esistenza di più di venticinque secoli di cultura antica prima dell’inizio della filosofia a Mileto – dunque prima del VI sec. A. C. – e questa rivelazione, sottolinea Florenskij, si è compiuta in maniera così vertiginosamente rapida che ancora non sappiamo come comportarci con la storia della filosofia.

Ciò che si può comunque affermare con certezza è che quello che era considerato il terminus a quo della storia stessa si è rivelato il terminus ad quem di un percorso di quasi tremila anni. A essere dilatato non è però soltanto il tempo, ma anche lo spazio, perché la civiltà cretese, misteriosa, plurivoca, densa di significati, culla della cultura greca e di molteplici culti greci, è l’espressione di un pensiero che appartiene all’intero bacino del Mediterraneo, come dimostrano, ad esempio, l’antichità e l’intensità dei rapporti tra Creta e la Sardegna, documentati dalla presenza, a partire dal XIV secolo a.C. in varie parti di quest’isola, di ceramica micenea, in parte di produzione nuragica, e di ceramica nuragica del XIII secolo a.C. a Creta, presso il porto di Kommos.

A corroborare queste relazioni oggi è la paleogenetica, nobilitata dall’attribuzione, l’anno scorso, del premio Nobel per la medicina a uno dei suoi fondatori, il biologo e genetista svedese Svante Pääbo, «per le sue scoperte sul genoma degli ominidi e sull’evoluzione umana».

Di particolare rilievo è lo studio di un team di ricercatori guidati da Francesco Cucca, professore di genetica medica dell’Università di Sassari, Johannes Krause del Max Planck Institute di Jena, e John Novembre della Chicago University, dal titolo Genetic history from the Middle Neolithic to present on the Mediterranean island of Sardinia, pubblicato il 24 febbraio 2020 dalla rivista ‘Nature Communications’, basato sui risultati delle analisi effettuate a livello dell’intero genoma sul DNA estratto da resti ossei preistorici di 70 individui, provenienti da più di 20 siti archeologici sardi su un periodo che parte dal Neolitico Medio e arriva fino al Medioevo.

I suoi risultati sono così sintetizzati da Cucca: “I primi individui neolitici sardi mostrano una forte affinità genetica con le popolazioni coeve del Mediterraneo occidentale. Inoltre, nell’isola si registra una sostanziale continuità genetica fino al periodo nuragico (II millennio a.C.). Comparando i risultati ottenuti dal DNA antico con quelli di migliaia di sardi contemporanei si osservano, a partire da individui dei siti fenicio-punici (I millennio a.C.), segnali di flusso genetico da altre popolazioni, provenienti principalmente dal Mediterraneo orientale e settentrionale.

Per questo i sardi odierni evidenziano un più elevato grado di somiglianza genetica con i campioni di DNA estratto da resti preistorici provenienti dallo stesso territorio ma anche da siti neolitici (tra 10.000 e 7.000 anni fa) e pre-neolitici (oltre 10.000 anni fa) dell’Europa continentale. Lo studio conferma che queste somiglianze sono più marcate nelle aree storicamente più isolate quali l’Ogliastra e la Barbagia”.

Il divino e il mare

Il pensiero mitologico, elaborato congiuntamente dai popoli dell’intero bacino del Mediterraneo, è caratterizzato da aspetti che, secondo Florenskij, sfatano il modo in cui esso viene tradizionalmente presentato.

In primo luogo, da uno stretto e inscindibile rapporto tra Terra, Cielo e Mare, abitati non da divinità diverse, ma dalla stessa divinità che si presentava, metamorfosicamente, in forme diverse. A questo riguardo egli rammenta che il filologo tedesco Hermann Karl Usener, nel suo lavoro capitale del 1896 sui nomi degli dèi, dal titolo Götternamen (Versuch einer Lehre von der religiösen Begriffsbildung), in cui ha dimostrato che tali nomi sono comuni, generali; essi non indicano in alcun modo delle divinità particolari, determinabili secondo funzioni rigorosamente definite.

Il mondo antico, conclude pertanto Florenskij, non conosceva la personalità individuale e non esisteva, di conseguenza, l’unica limitazione in grado di distinguere l’integra unità degli dèi, ovvero di segnarne l’emergenza quali atomi spirituali, individuali, monadi. Per l’antichità non esistevano, in sostanza, né gli dèi, né gli uomini.

Esisteva piuttosto il divino e l’umano, l’uno come l’altro, a seconda della specifica rifrazione, dava luogo a un fantasma, a un’illusione d’individualità. Al mutare della rifrazione, tutto si spostava, tutto poteva mescolarsi. Ed è in questa natura del divino che troviamo il germe della successiva dottrina dell’elemento, dottrina che a sua volta darà origine al concetto filosofico di sostanza. Qui viene posto il problema – lasciato certo insoluto, tuttavia mai trascurato dalla filosofia antica – della relazione tra le cose singole e la sostanza generale.

Nel pensiero mitologico antico, pertanto, le “personalità” potevano scomporsi nelle parti costitutive, oppure fondersi in nuove combinazioni della chimica divina e umana. Il divino senza volto e senza personalità si mostrava in volti diversi, ora nell’uno, ora nell’altro.

Ciò che in un caso è l’epiteto di un dio, in un altro diventa una divinità autonoma. Ciò che ora è un dio può divenire non più che una proprietà, una funzione, una qualità, un epiteto di un altro dio. Gli epiteti si ipostatizzano; le ipostasi ridiscendono al livello della mera aggettivazione.

Religione e rito

Questi elementi che caratterizzavano la religione e il culto dei popoli del Mediterraneo, sono poi confluiti a Mileto, culla della filosofia greca nel VI secolo, ove sono nati, numerosi, i grandi uomini, i più eminenti artefici della cultura greca: poeti come Omero, Mimnermo, Anacreonte; i pittori Apelle e Parrasio; i logografi: Cadmo, Dionigi, Ellanico; gli storici: Ecateo, Erodoto, Dionigi; i filosofi Talete, Anassimandro, Anassimene, Senofane, Eraclito, Pitagora, Anassagora. Tutti erano di origine ionica.

La fonte dalla quale attingeva il proprio nutrimento l’anima dei milesi era il culto di Poseidone, vera e propria causa organizzatrice (modus formativus) della Ionia, al cui nome va dato il significato di “Zeus dell’acqua dolce”, ovvero di “Zeus di ciò che si può bere”, secondo il principio della sostanziale unità e indivisibilità del divino.

Questo dio del mare ha pertanto una natura duplice: quella celeste, atmosferica, zeusiana, accanto a quella acquatica e marina. Aspetti non difficili da accostare e integrare, dal momento che l’acqua, sotto forma di pioggia, viene dal cielo, è un dono del cielo e si può pertanto intendere come il “cielo materializzato” che va a fecondare la Terra.

A portarla laggiù è il temporale, frutto del tuono che percuote. Gli antichi pensavano che il tuono colpisse, percuotesse: e che il colpo del tuono, sia per il suono, sia per l’azione, rivelasse una particolare somiglianza con il colpo dell’ascia e del maglio. Ecco il significato dell’ascia doppia, simbolo di Creta, attributo del dio dei fenomeni atmosferici, del Padre-Cielo, del Tonante, di Zeus.

Il tuono è strettamente legato all’acqua. Nell’ascia doppia, che indica il tuono, possiamo allora scorgere, attraverso un’associazione, per contiguità, il simbolo della pioggia che viene dal cielo – e quindi, semplicemente, il simbolo dell’acqua.

Dunque, nei luoghi in cui l’acqua non era un elemento di primaria importanza, Zeus, il dio temporalesco e atmosferico, non separava da sé la propria funzione acquatica: ad Atene, sotto lo Zeus di Fidia compariva persino l’iscrizione “ὕει” [hýei] (“fa piovere”). Laddove invece l’acqua era tutto, la natura acquorea dell’antico dio aero-acquatico affiorava in primo piano: sorgeva allora, in maniera esplicita, un dio acquatico, tendente alla concentrazione nel mare e nelle sorgenti d’acqua.

Poseidone, similmente agli altri dèi, viene rappresentato a volte come sostanza, strettamente legato all’acqua, a volte come ipostasi, non come personalità che, come si è visto, gli antichi non conoscevano, bensì come persona che vive nel mare ma non può essere identificata con esso, in quanto ci sono momenti nei quali egli è parte del mare ed altri in cui è invece il mare a essere sua parte.

Lo si comprende bene se si tiene conto del fatto che egli, come tutti gli altri dei, era parte di un’esperienza vissuta collettiva e profondamente sentita e condivisa, e costituiva a tutti gli effetti una realtà basata sulla specifica esperienza che ha luogo nel momento in cui questa realtà si manifesta alla coscienza.

Quando un antico abitante del Mediterraneo guardava il mare, per un verso quello che vedeva non era nient’altro che un’imponente massa d’acqua; per l’altro però c’erano delle circostanze particolari nelle quali sentiva una presenza divina, diversa dal mare e da tutto ciò che era contenuto in esso: momenti di teofania, di apparizione della divinità, in cui effettivamente avvertiva l’apparizione della divinità.

La questione della teofania non può non essere posta quando si parla di filosofia della religione, in quanto, al di fuori di essa, non si potrebbe neppure parlare di religione e della sua filosofia.

Si può pertanto dire che nel modo in cui viene posta e affrontata tale questione, sia contenuto il nucleo più profondo di questa filosofia, il cui compito specifico sta prima di tutto nel chiarire non come siano nate le idee relative agli dèi, ma in cosa consista la realtà di questi ultimi per coloro che credono in essi e li venerano, per cui un pensiero orientato in questa direzione si deve porre, come compito prioritario e fondamentale, quello di spiegare in che senso gli dèi sono reali.

Teologia dal mare

Da qui trae origine la questione attorno alla quale ruota il confronto sulla natura divina che si svilupperà, in particolare, come antitesi tra οὐσία [ousía] e ὑπόστασις [hypóstasis], che può presentarsi in diverse forme specifiche, innanzitutto come conflitto tra il finito e l’infinito, tra il personale e l’ontologico, assumendo la forma dell’incompatibilità tra l’infinità della divinità come principio incondizionato e l’affermazione della sua personalità, e quindi della sua finitudine, come principio spirituale.

L’idea del dio come sostanza è a fondamento della filosofia di orientamento realista, in particolare materialista, mentre quella del dio come ipostasi è invece alla base della filosofia di orientamento idealista, in particolare spiritualista. L’originario dualismo della filosofia è quindi genericamente legato a ragioni di natura teologica, in particolare all’impossibilità di inscrivere il vissuto religioso all’interno di confini razionalmente determinati.

La teologia non può pertanto esimersi dall’affrontare la teofania, l’apparizione di dio, l’esperienza religiosa, questione che può essere articolata nelle seguenti domande:

  • Cos’è o chi è l’uomo? Domanda metafisica.
  • Come avviene il processo di percezione? Domanda gnoseologica.
  • Come viene vissuta questa apparizione, vale a dire qual è il rapporto della teofania con l’esperienza personale? Domanda psicologica.
  • Qual è il valore di una teofania, ovvero come viene classificata in una scala dei valori? Domanda timologica o assiologica.

Ecco il punto di raccordo che mostra in che modo il pensiero mitologico e la sua teofania abbiano dato origine alla filosofia. La scuola di Mileto nel VI secolo a.C. ha avuto l’indiscutibile merito di tradurre in forma laica i concetti e le categorie che erano alla base della religione degli antichi popoli dell’intero bacino del Mediterraneo.

Spinti, come questi ultimi, dalla convinzione che ciò che accade nel cielo accade anche sulla terra e che non si possano per questo disgiungere i fenomeni che si verificano nell’uno e nell’altra, i suoi principali esponenti estesero il principio della pluralità delle manifestazioni del divino e della sua continua metamorfosi anche ai fenomeni dell’ambiente della loro vita quotidiana, ponendo le basi dell’idea che la sostanza di tutte le cose sia una sola, indipendentemente da come la si chiama: fuoco con Eraclito, aria, vapore, alone acqueo con Anassimene, acqua con Talete.

Per cogliere e unificare tutte queste diverse sfumature di una medesima realtà senza privilegiarne alcuna Anassimandro pensò bene di introdurre il concetto di ἄπειρον _[ápeiron], l’infinito e indefinito, assunto come origine e principio costituente dell’universo, eterno e in continuo movimento.

La filosofia, come dice Aristotele, inizia sempre dallo stupore, dalla meraviglia; dalla meraviglia per ciò che è reale, e non certo da castelli sospesi tra le nuvole, costruiti sull’inaudito. La filosofia – sottolinea Florenskij – non nasce dal disprezzo per la realtà.

Talete si trovò di fronte al divino dell’ordinaria coscienza religiosa e, anziché accodarsi a essa e seguirne i dettami e le consuetudini, reagì con stupore di fronte a “quel che è” e si chiese “cos’è?”, qual è il significato di ciò che si erge su tutto l’essere, che si eleva sul mondo terreno, di ciò che è senza inizio ma al quale non può essere attribuita alcuna assolutezza, del tutto estranea alla coscienza mitologica, costantemente protesa alla ricerca di sempre nuovi livelli nella profondità delle cose, di nuove ascensioni verso modi superiori, di un infinito corteo delle forme anche nella sfera del sovramondano proprio per la natura condizionata attribuita al contenuto del suo pensiero.

Ponendosi la domanda “che cos’è tutto questo, come può essere interpretato?” Talete presagisce il possibile: dal mondo dell’effettualità, del “qui” e “ora” si trasferisce in quello che oggi chiameremmo il dominio dei controfattuali.

Acqua

Prendendo sul serio il nesso indissolubile tra Cielo e Terra, tra divino e umano, assunto e stabilito dalla mitologia, cerca l’anello di congiunzione tra queste due dimensioni, l’elemento in grado di spiegare il passaggio dalla sfera della religione a quella della fisica e lo individua nell’acqua. Proprio perché essa, con Poseidone, costituisce una metamorfosi di Zeus, ossia è una forma altra del divino, o più precisamente, è essa stessa il divino sotto un particolare punto di vista e non può essere ridotta all’acqua nel senso usuale della parola.

Non si tratta semplicemente di acqua, ma di un’acqua divina, originaria. Ciò non significa affatto che sia allora un qualcosa di fittizio, di immaginario: si tratta proprio dell’acqua che si dà concretamente, nella quale tuttavia gli antichi vedevano qualcosa di completamente diverso rispetto a ciò che noi oggi vediamo in essa.

Mentre per noi l’acqua è semplicemente un liquido con certe proprietà fisiche e chimiche, gli antichi vedevano in essa numerose altre cose che noi non vediamo, dipendenti dalla loro concezione del mondo, che li spingeva a ritenere che in essa fossero compresenti il sensibile e il sovrasensibile, il fisico e il metafisico, il generale e l’individuale.

Il pensiero filosofico di Talete prende avvio proprio da qui, da questa compresenza di opposti, in virtù della quale egli rielabora l’idea di Poseidone, facendone il punto d’avvio della sua convinzione che “il divino è il principio di tutte le cose. Il divino non ha né inizio né fine”.

Pensando alla natura divina che i nostri antichi progenitori, ai quali dobbiamo i primi passi della nostra filosofia e della nostra cultura, attribuivano al Mediterraneo e alle sue acque, non possono che crescere ulteriormente lo sgomento e l’angoscia, manifestati con tanta forza da papa Francesco, di fronte alla trasformazione di questo mare in una tomba per migliaia di uomini, donne e bambini, nell’indifferenza di tanti, troppi di noi, che pure ci proclamiamo eredi di quella antica civiltà e ci vantiamo di esserlo.

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2 Commenti

  1. Tobia 19 giugno 2023
    • Gian Piero 21 giugno 2023

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