
La celebrazione iniziava tra incenso, stupore e preghiera. L’organo cantava con tutte le sue forze: faceva vibrare di emozione le antiche pareti della Basilica del VI secolo. Alla presenza di tre vescovi dell’Emilia-Romagna (Ravenna, Forlì e Piacenza), dall’alto dell’abside, solenne in pallio, sant’Apollinare, primo vescovo della città, sembrava presiedere la grande assemblea. Ieratico e intercedente con le due braccia alzate risplendeva tra tessere d’oro, in un mosaico di pecore e prati verde-smeraldo. Pastore immortale, invisibile, sempre presente alla sua Chiesa.
Uno stuolo di preti e di fedeli della diocesi di Ravenna faceva corona, mentre la preghiera si snodava tra sapore mistico e reale, spirituale e corporale.
Pace, spirito di servizio, cura degli uomini e delle cose: le parole dell’arcivescovo Lorenzo nell’omelia scendevano, benefiche come pioggia, sui tempi aridi e violenti di oggi, assetati di autenticità.
E sembrava che qui interminabili generazioni di fedeli, nell’incessante preghiera di secoli, prendessero parte misteriosamente a questa santa festa annuale. Era la solennità di sant’Apollinare, il 23 luglio scorso, celebrata nella sua basilica omonima in Classe.
Ravenna e le autorità civili e militari vi erano presenti. Quasi in memoriam di una città discreta e illustre, quattro volte capitale. Sì, ben quindici secoli fa, capitale dell’ultimo impero romano d’Occidente, poi del regno gotico, dell’impero bizantino e, infine…, capitale del mosaico. Un’eredità questa, impressa sulle pareti di ben otto monumenti paleocristiani e bizantini del V e VI secolo, dichiarati dall’UNESCO nel 1996 Patrimonio dell’Umanità.
Otto edifici, a somiglianza della casa araba, umili e semplici all’esterno, ma sontuosi e sorprendenti all’interno. Quasi una parabola simbolica dell’essere umano, che, in un vaso di argilla, sa conservare il tesoro dell’anima. E ciò si presenta come un invito sottile al pellegrino di oggi a visitare questa città a piccoli passi. Con discrezione, ma con decisione. “Fortiter in re, suaviter in modo” (con forza nella sostanza, dolcemente nei modi), come suggerivano dialetticamente gli antichi.
Emerge qui dappertutto il mosaico, arte del frammento, in cui la desterità della mano e della mente sa comporre, giustapporre, armonizzare e celebrare la materia e le sue infime parti. Opera artigianale particolare: lo sguardo con incanto vi impara ad apprezzare il colore, le vibrazioni, il calore, il dettaglio e la sintesi dell’insieme.
Al di là del mosaico romano e della sua frammentazione marmorea, a Ravenna, infatti, diverse équipes di artisti venuti da Costantinopoli sapevano aggiungere la pasta vitrea e la lamina d’oro a questa miriade di elementi che illumina pareti e sacri edifici.
Sì, la luce, “genius loci” dell’Oriente, la ritroviamo protagonista anche nelle sue celebrazioni liturgiche. Tutto risplende. Nella paziente arte musiva si ammira, così, la medesima preziosità meticolosa degli amanuensi medievali: con le loro miniature sapevano “illuminare” i testi, come giustamente definisce “enluminures” (da lumen) la letteratura francese.
In questo modo, una città di mare come Ravenna, anche nei rivestimenti murali sapeva coltivare gli scambi con il mondo bizantino, articolando un fecondo intreccio di mondi tra Oriente e Occidente.
Ma solcando la città, se vi fermate a un caffè, vi servirà sorridente un ragazzo di origine capoverdiana. Altri di origine africana ne troverete in un atelier. Un’intera casa in centro porta il curioso nome di Stella Maris, dove approdano marittimi del mondo intero nei loro momenti di libertà, tra il continuo movimento di navi al porto.
Ecco, in fondo, l’esempio e il destino di questa anticamente nobile città.
Essere mosaico. Saper comporre le differenze, unire le particolarità. Includere, non escludere. L’intreccio di uomini e di culture differenti, in verità, è l’arte oggi più urgente, creativa ed esigente. Di null’altro, infatti, ha bisogno il mondo. Per vivere.





