Sull’uso della forza

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polizia

È tornata – ma sarebbe meglio dire che non è mai tramontata – l’attualità della discussione sulla correttezza, la liceità e l’efficacia dei comportamenti delle Forze di Polizia impiegate nei servizi di ordine pubblico. Della stessa natura sono le valutazioni sui più recenti pestaggi di persone detenute nelle nostre carceri, ad opera di agenti della Polizia Penitenziaria.

Le donne e gli uomini delle Forze dell’ordine ricevono una formazione professionale che prevede anche l’uso della forza, ma un uso che sia controllato della stessa, per ottenere il massimo di efficacia dell’intervento, con il minimo danno: nella prevenzione e nella repressione dei comportamenti violenti non si agisce e non si dovrebbe mai agire «a caso».

La cura «senza costrizioni»

L’uso della forza non è la sola opzione praticabile nelle situazioni di tensione sociale e nel controllo dei comportamenti, quando questi diventano pericolosi: è possibile anche l’adozione di modalità non violente come dimostra l’esperienza di quei Servizi di salute mentale cresciuti dopo la chiusura dei manicomi, che hanno adottato le modalità del no-restraint, mettendo fine alla pratica delle contenzioni – legatura delle persone, chiusura delle stanze ecc. – assai diffusa nell’assistenza alle persone con disabilità e con patologie psichiatriche, ancor oggi. Nella scelta di tenere le porte aperte e non legare i pazienti in trattamento è di fondamentale importanza l’alleanza con l’utente e la ricerca del suo consenso.

Nella cura senza costrizioni sono coinvolti tutti gli operatori, medici e personale sanitario, nei Servizi di salute mentale e nei Pronto Soccorso. Anche la Polizia ha un ruolo importante nell’accompagnamento ai Servizi delle persone in fase di acuzie.

Ciò può avvenire solo con un intenso, costante lavoro, monitorato e discusso, di gruppo. Gli operatori infermieri e i medici che hanno imparato a fare a meno della legatura dei pazienti hanno dovuto superare resistenze, pregiudizi e trovare risposte a molteplici interrogativi, quali: Come si fa se un paziente in trattamento sanitario obbligatorio (TSO) tenta di scappare? Di chi è la colpa se succede qualcosa? E se il paziente è aggressivo e violento? E se è proprio il paziente stesso che vuole essere legato? Non finiremo per usare psicofarmaci in modo eccessivo? Aumenteranno gli infortuni in particolare degli infermieri?

Solo attraverso il confronto e la condivisione delle motivazioni all’interno del gruppo degli operatori si riesce a realizzare il cambiamento degli stili di assistenza: nessuno ha la bacchetta magica, né ci debbono essere eroi tra gli operatori. La possibilità, come mostrano tante positive esperienze, viene raggiunta attraverso una pratica pazientemente attuata, giorno per giorno.

Così, insieme ai pazienti, anche gli operatori cessano di essere «legati», perché la loro nuova condizione consente, anche a loro, di tenere le porte aperte, consentendo all’istituzione di non diventare chiusa, ma costantemente comunicante con le altre strutture sanitarie, con le forze dell’ordine e, in particolare, con gli agenti della Polizia locale; con i familiari, i volontari e le figure significative, come può essere il parroco o l’amministratore comunale, passando, cioè, attraverso tutti i legami di relazione che facilitano l’alleanza terapeutica.

Difetto di formazione

Il lavoro secondo modalità no-restraint utilizza tecniche di riduzione dell’aggressività, ma individua anche quegli assetti istituzionali – ambientali e organizzativi – che sono essi stessi causa di contro-agiti aggressivi da parte del paziente.

La citazione dal Documento Programmatico del Forum Salute Mentale (2003) esplicita in modo eloquente il senso di tali esperienze.

«La buona pratica è il risultato di una volontà collettiva di partire comunque dal rispetto e dalla libertà della persona che spesso proviene da una storia in cui questo rispetto e libertà sono venuti meno o non sono mai esistiti. La buona pratica cresce e si sviluppa attorno a questo nucleo centrale, da cui si dipana ogni altro intervento. La contenzione blocca questo sviluppo nell’atto stesso che parte dal massimo dell’umiliazione e della mortificazione della persona e ripropone la copertura della nostra incapacità ad affrontare diversamente la sofferenza e la violenza, con una risposta irresponsabile di violenza e di difesa di sé, di violenza da parte del più forte, di chi è in condizione di porre una distanza fra sé e l’altro: il ruolo, le regole, l’istituzione, il potere. Contro tutto questo si è lottato per anni e si è dimostrato possibile perseguire altre strade con il supporto di operatori/trici formati e motivati che reggano l’impatto senza ferire, senza umiliare, con la costruzione di un ambiente e di un clima non violento, libero nel suo complesso, che fa capire come altri passi siano possibili e della stessa natura. La contenzione blocca ogni passo successivo. Contamina e rafforza il sopravvivere di vecchie tradizioni nelle case di riposo e nei servizi per anziani, negli istituti per handicappati, nei reparti di geriatria, di medicina per facilitare l’immobilità, per preservare dal danno… alla fine per semplificare il lavoro di medici e infermieri».

Alla luce di queste considerazioni è doveroso affermare e ribadire quanto mai sia opportuno che al percorso formativo e, conseguentemente, alla operatività delle Forze dell’ordine appartengano le straordinarie risorse che le tecniche nonviolente offrono a tutti gli attori sociali oggi impegnati in situazione critiche, per la sicurezza comune e la difesa dei diritti di tutti.

Le Forze dell’ordine svolgono un compito delicato e difficile di contrasto dei poteri criminali. Sappiamo quanto le mafie nel nostro paese siano potenti e feroci. Garantire le condizioni della civile convivenza, far rispettare le leggi, tutelare la sicurezza e l’incolumità, la dignità e i diritti di tutte le persone – non solo dei cittadini italiani – nel nostro Paese: questa è la legalità in uno stato di diritto, e questo è scritto nella Costituzione della Repubblica Italiana!

Insegnare la nonviolenza

La nonviolenza è un insieme di riflessioni e di esperienze creative, sperimentali, aperte, senza dogmatismi, senza autoritarismi, perché sviluppa le responsabilità personali e fa riflettere nell’agire.

Come ricorda il Centro di ricerca per la pace e i diritti umani di Viterbo, la nonviolenza si insegna: non richiede necessariamente una «fede», ma fa conoscere teorie, metodologie, esperienze che hanno una lunga storia e una sistemazione di carattere scientifico, ormai notevole.

Da Mohandas Gandhi ad Aldo Capitini, ad Ernesto Balducci; da Martin Luther King a Danilo Dolci, da Hannah Arendt a Franco Basaglia, a Hans Jonas; da Alessandro Zanotelli a Ivan Illich: sono molteplici le figure con idee e concrete esperienze da portare, conoscere, condividere, applicare. La nonviolenza afferma l’opposizione alla violenza, quale impegno attivo e affermazione di responsabilità, contro la sopraffazione e l’ingiustizia.

È assurdo che, proprio coloro che sono chiamati ad intervenire in situazioni di massima crisi, non siano allenati all’adozione degli strumenti operativi e delle tecniche – strategie comunicative, modelli interpretativi, valori di riferimento – che la nonviolenza mette a disposizione ormai da anni.

Mohandas Gandhi nella sua Teoria e pratica della nonviolenza (Einaudi, Torino 1973, 1996) a p. 144 – da un articolo pubblicato su Harijan del 1° settembre 1940 – scriveva:

«Io ho ammesso che anche in uno stato nonviolento potrebbe essere necessaria una forza di polizia. Questo, lo confesso, è un sintomo dell’imperfezione del mio ahimsa. Non ho il coraggio di affermare che potremo fare a meno di una forza di polizia come lo affermo riguardo all’esercito. Naturalmente posso immaginare, e immagino uno stato nel quale la polizia non sarà necessaria, ma, se riusciremo a realizzarlo o meno soltanto il futuro potrà deciderlo. La polizia che io concepisco, tuttavia, sarà di tipo totalmente diverso da quella oggi esistente. Le sue file saranno composte da seguaci della nonviolenza. Questi saranno i servitori e non i padroni del popolo. Il popolo darà loro spontaneamente tutto il suo aiuto e, grazie alla reciproca collaborazione, essi saranno in grado di far fronte con facilità ai disordini».

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3 Commenti

  1. Gian Piero 2 marzo 2024
    • Anima errante 3 marzo 2024
  2. Giovanni Di Simone 29 febbraio 2024

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