Clandestino?

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migranti

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I principi fondamentali riguardanti la pari dignità dei cittadini e la tutela degli stranieri sono rinvenibili, oltre che negli articoli 2, 3 e 10 della Costituzione, anche nell’articolo 14 della Convezione Europea dei Diritti dell’uomo, il quale stabilisce che il godimento dei diritti e delle libertà ivi riconosciuti deve essere garantito senza alcuna distinzione fondata soprattutto sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o altre opinioni, fermo restando che l’ elenco di tale fattori di protezione ha carattere aperto e comprende anche, ad esempio, l’orientamento sessuale, l’identità di genere, la nazionalità o le condizioni sociali.

Il diritto alla non discriminazione, in quanto finalizzato a tutelare la dignità personale degli individui, si configura come un diritto soggettivo della persona, qualificabile come diritto assoluto, ha efficacia diretta orizzontale, può essere invocato anche nei rapporti tra privati e, specie quando si tratta degli individui più fragili come le persone migranti, non può soccombere al diritto alla libera manifestazione del pensiero, cui si accompagna quello di organizzarsi in partiti politici.

Attribuire l’epiteto di “clandestino” al cittadino straniero che fa ingresso nel territorio dello Stato italiano per chiedere asilo e protezione internazionale costituisce comportamento non solo discriminatorio ma anche molesto per ragioni di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile e degradante, umiliante o offensivo nei suoi confronti.

Nella materia della tutela contro le discriminazioni collettive, qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone discriminate, la legittimazione ad agire, ai sensi dell’articolo 44 del D.Lgs. 25 agosto 1998 n. 286, in capo ad un soggetto collettivo, iscritto in apposito elenco approvato con decreto del Ministro del lavoro e individuato sulla base delle finalità programmatiche e della continuità dell’azione, non rappresenta un’eccezione ma una regola funzionale all’esigenza di apprestare tutela, attraverso un rimedio di natura inibitoria cui segue lo svolgimento di azioni risarcitorie, ad una serie indeterminata di soggetti per contrastare il rischio di una lesione avente natura diffusiva e che perciò deve essere, per quanto possibile, prevenuta o circoscritta nella propria portata offensiva.

Sono quattro importanti principi di diritto affermati da una recente e significativa sentenza della terza sezione civile della Corte di Cassazione.[1]

La pronuncia, che conclude una complessa vicenda giudiziaria iniziata nell’aprile 2016, risulta essere di grande attualità a motivo del diffuso e censurabile vezzo di qualificare come “clandestina” la persona straniera che fa ingresso e si trattiene nel territorio dello Stato per esercitare un diritto previsto dalla legislazione nazionale e sovranazionale.

Qui di seguito, tralasciando le questioni di carattere procedurale, una sintesi della vicenda e degli elementi di diritto vivente sostanziale esplicitati dalla suprema Corte.

Il fatto

In data 1° aprile 2016 una cooperativa sociale concorda con la Prefettura di Varese l’utilizzo di una struttura messa a disposizione da una parrocchia di Saronno, per accogliere 32 richiedenti asilo, nell’ambito del piano di emergenza gestito dalla Prefettura.

In occasione di una manifestazione organizzata il 9 aprile 2016 dalla Lega Nord di Saronno, vengono affissi nel territorio comunale circa 70 cartelli recanti il simbolo del partito Lega Nord dal seguente contenuto: «Saronno non vuole i clandestini. Renzi e Alfano vogliono mandare a Saronno 32 clandestini: vitto, alloggio e vizi pagati da noi. Nel frattempo, ai saronnesi tagliano le pensioni e aumentano le tasse. Renzi e Alfano complici dell’invasione».

I cartelli rimangono affissi per circa un mese in molti luoghi di grande frequentazione, anche nei pressi di scuole e centri commerciali.

In seguito all’affissione dei predetti cartelli, il segretario cittadino della Lega Nord e il sindaco di Saronno rilasciano dichiarazioni relative all’opposizione all’accoglienza dei “clandestini”.

Due Associazioni (l’ASGI-Associazione degli Studi Giuridici sull’Immigrazione e la NAGA-Associazione volontaria di assistenza socio-sanitaria e per i diritti di cittadini stranieri rom e sinti), operanti nel campo della lotta alla discriminazione e alla tutela dei diritti degli stranieri, con ricorso proposto ai sensi del combinato disposto dell’articolo 44 del Decreto Legislativo 25 luglio 1998 n. 286 e dell’art. 5, comma 1 del Decreto Legislativo 9 luglio 2003 n. 215, convengono in giudizio, innanzi al Tribunale di Milano, in un primo tempo, la Sezione di Saronno della Lega Nord e, successivamente, anche la Lega Nord-Lega Lombarda e la Lega Nord per l’Indipendenza della Padania, lamentando la sussistenza di un comportamento discriminatorio e molesto nei confronti del gruppo di richiedenti asilo, determinato nel numero (32 persone), ma indeterminato nelle singole individualità.

ASGI e NAGA agiscono in giudizio contro la Lega (locale e nazionale) affermando che qualificare i richiedenti asilo come clandestini costituisce «molestia discriminatoria», cioè un comportamento idoneo a offendere la dignità della persona e a creare un clima umiliante, degradante e offensivo, aggiungendo che, nella circostanza, risultano superati i limiti del diritto di critica politica.

Nell’accogliere le ragioni delle due Associazioni, i giudici di primo e secondo grado accertano e dichiarano il carattere discriminatorio del comportamento tenuto dalla Lega Nord, condannandola a pagare, oltre alle spese di lite, un risarcimento del danno in favore delle stesse per un importo superiore a 20.000 euro.

Quale rimedio idoneo a dissuadere gli autori della condotta discriminatoria a reiterare, in futuro, comportamenti che violano le norme a tutela della pari dignità delle persone, l’autorità giudiziaria ordina altresì di pubblicare, a cura e spese della Lega Nord, il dispositivo dell’ordinanza su un giornale locale e nazionale e, per la durata di almeno un mese, sulla home page del sito della medesima Lega Nord.

La Lega Nord-Lega Lombarda e la Lega Nord per l’indipendenza della Padania propongono il ricorso in Cassazione. Il ricorso viene respinto dalla Corte, che conferma integralmente quanto deciso e motivato in modo ineccepibile dal Tribunale e dalla Corte d’Appello di Milano, riconosce il diritto delle Associazioni al risarcimento del danno e condanna le ricorrenti ad un ulteriore pagamento delle spese di giudizio per cassazione.

La premessa della sentenza della Corte di Cassazione

Di rilievo risulta essere la premessa esplicitata dalla Corte per una corretta lettura della normativa nazionale in materia di tutela del diritto alla non discriminazione.

I principi fondamentali riguardanti la pari dignità dei cittadini e la tutela degli stranieri, pur fondandosi sugli articoli 2, 3 e 10 della Costituzione italiana,[2] sono altresì rinvenibili nell’articolo 14 della Convezione Europea dei Diritti dell’uomo: l’elenco delle situazioni protette (divieto di discriminazione fondata sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o altre opinioni) ha carattere aperto. L’ha riconosciuto la prima sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha ricompreso nell’elenco l’orientamento sessuale e l’identità di genere, la nazionalità o le condizioni sociali.[3]

La sentenza ricorda poi l’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, il quale vieta «qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali».

L’articolo 10 della versione consolidata 2016 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea prevede che, nella definizione e attuazione delle sue politiche, «l’Unione mira a combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convenzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale».

I principi generali di diritto dell’Unione Europea, avendo efficacia diretta orizzontale, devono trovare applicazione diretta anche nei rapporti tra singoli individui.[4]

In forza di tale teoria, il giudice può decidere controversie non solo applicando la legge ordinaria riferibile al caso specifico, ma anche attingendo ai principi generali di diritto europeo. Infatti, come riconosciuto dalla Corte costituzionale, «esiste un rapporto di mutua implicazione e di feconda integrazione tra i divieti di discriminazione prescritti dal diritto dell’Unione e i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione nazionale»,[5] con la conseguenza che, in un quadro che vede interagire molteplici fonti, è necessario «assicurare una tutela sistemica, e non frazionata, dei diritti presidiati dalla Costituzione, anche in sinergia con la Carta di Nizza, e di valutare il bilanciamento attuato dal legislatore, in una prospettiva di massima espansione delle garanzie».[6]

La normativa nazionale in tema di diritto alla non discriminazione

Dopo aver richiamato le fonti normative nazionali sul diritto alla non discriminazione,[7] la sentenza della Cassazione elenca alcuni orientamenti giurisprudenziali che, in relazione all’applicazione di dette fonti, si sono nel tempo consolidati.

In via generale, la nozione di discriminazione si ricava dalle disposizioni contenute negli articoli 43 del D.Lgs. 286/1998 e 2 del D.Lgs. 215/2003.

La prima norma contiene, in attuazione dei precetti costituzionali, una sorta di clausola generale di non discriminazione e definisce discriminatorio qualunque comportamento che – direttamente o indirettamente – abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica.

Il successivo articolo 44 prevede la possibilità di «ricorrere all’autorità giudiziaria ordinaria per domandare la cessazione del comportamento pregiudizievole e la rimozione degli effetti della discriminazione».

L’articolo 2 del D.Lgs. 215/2003 definisce, poi, la nozione di discriminazione, stabilendo che, «per principio di parità di trattamento, si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell’origine etnica». Detta norma stabilisce anche che sono considerate come discriminazioni anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.

La Suprema Corte consolida un principio di diritto già affermato in passato: il diritto a non essere discriminati si configura, in considerazione del quadro normativo costituzionale, sovranazionale e interno di riferimento, come un diritto soggettivo assoluto da far valere davanti al giudice ordinario, a nulla rilevando, ad esempio, che il dedotto comportamento discriminatorio consista nell’emanazione di un atto amministrativo avente rilevanza per l’ordinamento statale.[8]

È priva di fondamento l’affermazione secondo cui, per aversi un comportamento discriminatorio, occorre che esso abbia come scopo quello di compromettere il godimento o l’esercizio di diritti fondamentali. Tale affermazione contrasta in modo evidente con la lettera della legge, la quale riconosce carattere di illiceità a questi comportamenti caratterizzati dal comune denominatore della creazione di un contesto in vario modo ostile, anche a prescindere dall’accertamento della lesione di un diritto fondamentale.

Altrettanto eccentrica e infondata è, secondo la Cassazione, la considerazione secondo cui la legittimazione attiva in capo alle associazioni portatrici dell’interesse ad agire per contrastare comportamenti discriminatori sarebbe limitato alla sola fase inibitoria, senza potersi estendere alla successiva fase risarcitoria.

Quanto ai confini entro i quali deve mantenersi la critica politica e al più generale e complesso problema del bilanciamento tra valori entrambi di rilevanza costituzionale, i giudici di legittimità non hanno dubbi nell’affermare che l’esercizio della libertà di espressione politica «deve essere necessariamente bilanciata con il rispetto e la tutela della dignità delle persone»[9] e che «il diritto alla libera manifestazione del pensiero, cui si accompagna quello di organizzarsi in partiti politici, non può essere ritenuto equivalente, o addirittura prevalente, sul fondamentale principio del rispetto della dignità degli individui».

Valenza negativa del termine «clandestino»

È interessante, infine, notare che la Suprema Corte esprime un giudizio anche sul fronte del lessico. Il termine “clandestino”, riferito a un soggetto che ha titolo a richiedere la protezione internazionale, ha una valenza denigratoria e viene utilizzato come emblema di negatività, a nulla rilevando che la maggioranza di tali richieste non trovi accoglimento.

La valutazione relativa alla portata discriminatoria dell’utilizzo del termine non va rapportata ad un mero dato statistico concernente l’esito dei procedimenti di asilo, bensì alla posizione dello straniero che esercita il diritto di sottoporre all’attenzione dell’autorità la propria situazione personale in rapporto alle condizioni legittimanti l’invocata protezione internazionale.

Il termine “clandestino” contraddistingue il comportamento delittuoso (punito con una contravvenzione) di chi fa ingresso o si trattiene nel territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni del testo unico sull’immigrazione. Tale epiteto, che fa chiaramente riferimento ad un soggetto abusivamente presente sul territorio nazionale, è idoneo a creare un clima intimidatorio.

È fermo convincimento della Corte di Cassazione che il termine “clandestino” abbia assunto concretamente, nell’utilizzo corrente, un contenuto spregiativo e una valenza fortemente negativa.

Ciò non significa che esso non possa venire utilizzato nella sua originaria accezione strettamente lessicale: il contesto della struttura sociale in cui esso si cala, però, esige, da parte di chi lo evochi, un’estrema attenzione.

Esso, specie se inserito in un contesto verbale come quello del manifesto in questione, può facilmente prestarsi ad abusi i quali, creando un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo, si risolvono appunto in un comportamento discriminatorio e molesto.


[1] Si tratta della sentenza n. 24686 decisa il 22 maggio 2023 e depositata il 16 agosto 2023.

[2] L’articolo 2 riconosce e garantisce anche agli stranieri i diritti fondamentali dell’uomo. L’articolo 3 sancisce il principio di pari dignità sociale e di eguaglianza davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. L’articolo 10 stabilisce che lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.

[3] Sentenza del 16 settembre 2021, X c. Polonia, n. 20741/10.

[4] Sentenza Mangold del 22 novembre 2005 della Grande Sezione della Corte di giustizia europea.

[5] Corte cost., ordinanza n. 182 del 30 luglio 2020, par. 3.2. del “considerato in diritto”.

[6] Corte cost., sentenza n. 54 del 4 marzo 2022, par. 10 del “considerato in diritto”.

[7] Principalmente gli articoli 43 e 44 del D.Lgs. 25 luglio 1998 n. 286, l’articolo 2 del D.Lgs. 9 luglio 2003 n. 215 e l’articolo 28 del D.Lgs. 1° settembre 2011 n. 150.

[8] Corte di Cassazione civile sez. un., ordinanze n. 3670 del 15 febbraio 2011, n. 7951 del 20 aprile 2016 e n. 3057 del 1° febbraio 2022. Corte di Cassazione, I Sezione civile, sent. n. 3842 del 15 febbraio 2021.

[9] La Corte europea dei diritti dell’uomo, chiamata a pronunciarsi su espressioni concrete di incitamento all’odio, ha affermato che «la tolleranza e il rispetto per l’uguale dignità di tutti gli esseri costituisce il fondamento di una società democratica e pluralista. In considerazione di ciò, può essere necessario come questione di principio in determinate società democratiche sanzionare o anche precludere ogni forma di espressione che diffonda, istighi, promuova o giustifichi il livore basato sull’intolleranza» (Corte EDU, prima Sezione, sentenza Gunduz c. Turchia, del 4 dicembre 2003).

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Un commento

  1. Gian Piero 14 settembre 2023

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