
Sofia Sossai è l’inviata di Appunti (il Substack di Stefano Feltri) nella generazione dei ventenni. Ha appena completato il suo primo anno di università e in questo articolo fa una riflessione sul tema che ha aperto questa estate 2025: il disagio verso la competizione e la valutazione delle performance, manifestato da alcuni studenti delle scuole superiori che hanno contestato o boicottato il proprio esame di maturità.
È vero che la maturità è finita da un pezzo, e non sorprende che, come tutte le distrazioni che i giornali offrono agli adulti per animare le loro conversazioni, anche la protesta-degli-studenti-ribelli sia finita nel dimenticatoio.
Narrata con lo stesso zelo con cui i media aggiornavano il bollettino dei contagi ai tempi del Covid, la protesta ha contato in realtà numeri esigui: appena quattro casi, ma sono bastati a scatenare il finimondo.
Per il ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara è stato fin troppo facile inneggiare alla bocciatura; il solito psicologo Paolo Crepet ha colto al volo l’occasione per riproporre la sua predica sui fallimenti della società di oggi; i giornali non aspettavano altro per dare un po’ di pepe polemico a questa estate.
La protesta
Tutto è partito quando tre studenti di Padova, Belluno e Firenze si sono rifiutati di sostenere l’esame orale per protesta contro un «sistema scolastico che non li rappresenta», contro la mancanza di «empatia» dei docenti, contro un sistema dei voti riduttivo (esiste un sistema di valutazione che non lo sia?), contro un esame che premia la «prestazione, anziché il percorso».
Il più creativo è stato Pietro, il quale, per contestare l’«esasperata competizione» ha scritto al ministro dell’Istruzione e del merito per farsi abbassare il voto da 83/100 a 60. Può sembrare una scelta assurda, ma Pietro una cosa l’ha capita: il voto della maturità non conta più nulla.
Le ragioni della protesta le condivide Amir, diplomatosi al liceo scientifico proprio nei giorni in cui è scoppiata la polemica:
«Il sistema scolastico italiano ha innegabili difetti: un’impronta eccessivamente nozionistica, la rigidità del sistema di votazione, l’arretratezza dei metodi didattici rispetto ad altri paesi europei e naturalmente la mancanza cronica di fondi: in generale credo che noi ragazzi vediamo la scuola come qualcosa di stagnante, obsoleto e un peso, piuttosto che un’opportunità di crescita. Per questo capisco perché alcuni studenti abbiano sentito il bisogno di protestare».
Se l’afflato è comune, lo sono meno i modi con cui è stato espresso:
«Una protesta richiede un’azione collettiva, magari anche una mobilitazione da parte di un gruppo di studenti. Questi atti invece erano isolati e mi sono sembrati poco strutturati. E, soprattutto, io non ho visto nessuno che prima o dopo la protesta abbia proposto soluzioni concrete ai problemi contro cui ha protestato».
Forse perché, aggiungo io, l’obiettivo non era davvero fare una crociata contro la scuola, né guidare una mobilitazione studentesca.
Questo avrebbe guastato (forse, e dico forse) quello che più di qualcuno ha intuito come il vero motivo della protesta: la volontà di uscire dall’anonimato, distinguersi rispetto alla massa e perché no, attirare su di sé un po’ di visibilità. Una questione di identità, insomma.
Dopo la maturità
Non mi azzardo a sostenere che la protesta non sia stata effettivamente condivisa da più di qualcuno tra gli studenti, soprattutto liceali. Ma sarebbe altrettanto fuorviante parlare di una protesta generazionale, come se quelle quattro voci potessero rappresentare una realtà così sfaccettata e mutevole.
I vent’anni sono complessi, le idee cambiano di continuo. Tra i miei coetanei che hanno concluso il primo anno di università, la tendenza è stata quella di relegare la protesta a qualche adolescente ancora immaturo. Emma è rimasta un po’ sbigottita nel sentire le ragioni di questi studenti.
Il primo anno di università le ha permesso di vedere le cose nella giusta prospettiva:
«Certo, anch’io dicevo che il voto di maturità non rappresenta sempre il percorso fatto negli anni, ma ora mi rendo conto che quella rincorsa al voto è comunque fine a sé stessa. Al liceo sentivo una certa competizione, ma era più una spinta che partiva da me che dai professori. Lo sento più come un problema generazionale: tendiamo sempre a confrontarci con gli altri per sentirci all’altezza, soddisfare le esigenze della società, e i docenti finiscono per diventare capri espiatori. È chiaro che i voti sono riduttivi, però è un meccanismo che ti prepara al dopo. Nella vita sarai sempre valutato, magari non più con dei numeri e non essere in grado di gestire questo aspetto della valutazione può essere un problema perché dopo la soffrirai di più. Nel mio percorso ho maturato la consapevolezza di poter distinguere me stessa dal voto. In fondo, la scuola è una palestra».
Una consapevolezza raggiunta anche da Anastasia, alla fine dei suoi cinque anni di liceo:
«Col tempo questa attenzione al voto va sempre più scemando, si capisce che è una valutazione della performance. Crescendo si sviluppano altri aspetti della propria personalità e la scuola smette di essere un pensiero fisso.
La valutazione rende inevitabile fare confronti, ma non credo sia possibile trovare un metodo alternativo che non generi competizione, ansia da prestazione… Rimuovere del tutto il voto non consente di fare quello scatto mentale importante, cioè passare da una fase in cui ti senti giudicato da quel voto a quella successiva in cui distingui un giudizio da un valore personale. Quando si capisce questo, si cresce. Se non ci fosse il voto non avremmo neanche modo di capire quando facciamo bene o facciamo male, è un feedback pur sempre utile».
Vogliamo tutto
Se usciamo dal contesto liceale, anche all’università, dove le aule si fanno enormi e le cattedre dei professori lontane, la realtà non è poi così idilliaca. Ora vi racconterò qualcosa che a molti sembrerà una sciocchezza, ma forse è più significativa di quanto si immagini.
All’inizio dell’anno accademico, ogni matricola viene inserita in un gruppo WhatsApp del proprio corso di studi, che ben presto si rivela essere un mercato di compravendita di appunti e riassunti di manuali universitari.
Ho fatto un rapido sondaggio tra i miei amici, coinvolgendo quattro università e sei facoltà diverse – Economia, Lettere Moderne, Beni Culturali, Relazioni Internazionali, Giurisprudenza e Psicologia – chiedendo quanti di quegli appunti fossero gratuiti. La risposta è stata netta: pochissimi, anzi, quasi nessuno.
«Vendo appunti di microeconomia a 70 euro. 30 e lode garantito».
Un’amica che studia in Francia mi ha detto che da loro una cosa simile sarebbe impensabile: «Gli appunti li abbiamo sistemati per il nostro studio, gli esami li abbiamo passati. Cosa perdi a condividerli? Mettere un prezzo al proprio lavoro significa rendere lo studio complicato ed elitario. È un modo per ostacolare gli altri e sentirsi superiori». Più bravi, più diligenti, più meritevoli. Ma agli occhi di chi?
Proprio l’altro giorno mi sono imbattuta in un TED Talk di Gayathri Vinod, una studentessa indiana che, al momento dell’uscita del video (2024), aveva 17 anni. Si chiedeva perché la Generazione Z fosse così competitiva, parlando di una «invisible unofficial competition» – una competizione invisibile e non dichiarata.
La risposta che si è data è questa: siamo la prima generazione cresciuta con l’idea di poter diventare qualunque cosa desideriamo. Ma in un mondo in cui tutti possono essere tutto, serve un enorme sforzo per diventare qualcuno.
Oggi la traiettoria verso il successo appare meno lineare rispetto al passato, per diversi motivi: lo studio non è più un privilegio e, di conseguenza, non è più una condizione né necessaria né sufficiente. Tutti studiano, spesso molto bene, quindi per distinguersi bisogna fare di più: attività extrascolastiche, esperienze, competenze. E questa corsa non si ferma con la scuola: continua nel mondo del lavoro, dove ogni candidatura si confronta con migliaia di persone con un background simile, se non migliore, del nostro.
Forse non bastano le analisi sociologiche di Crepet, forse c’è una sovraesposizione di tutto − a partire proprio dalla maturità.
Spulciando negli archivi delle testate italiane, si nota come solo negli ultimi anni si sia diffusa la tendenza a intasare le pagine di giornale con commenti e analisi sulla maturità: non sarà forse opera di adulti nostalgici? A volte basterebbe semplicemente lasciare tempo al tempo. Anche di crescere.
- Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 9 agosto 2025






Sono un docente e sono stato studente. Il voto per me non era un dramma. In venti anni tutto è cambiato. Un sei e mezzo produce in alcuni studenti un pianto isterico incredibile oggi. Forse gli studenti vivono un malessere di cui noi adulti dovremmo esserne più consapevoli!