Diario di guerra /31. Una via di uscita per Gaza

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Donald Trump torna a fare capolino in Medio Oriente e, quindi, sulle pagine del mio diario: ha fatto sapere che, nel 2020, quando Israele abbandonò, all’ultimo minuto, l’operazione di eliminazione del capo dei pasdaran, Qasem Soleimani, lui ci rimase male e, perciò, la portò a termine da solo, perché Soleimani aveva fatto morire tanti marines americani.

Le parole – oggi – di Trump sono chiaramente rivolte soprattutto a Biden che non ha colpito i pasdaran, né obiettivi iraniani, nella sua reazione all’uccisione dei marines da parte di milizie certamente addestrate dai pasdaran. Insomma, nell’incendio mediorientale Trump fa mostra di sentirsi sicuro: lui saprebbe come fare, ad allargare il conflitto!

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Intanto, chi non sa più come fare a sopravvivere è la popolazione di Gaza, quella a cui il mondo non ha, evidentemente, nulla da dire, posto che Rafah – l’ultima cittadina prima del confine con l’Egitto ove le è stato imposto di rifugiarsi – potrebbe essere bombardata.

Le speranze della svolta – per i civili di Gaza così come per gli ostaggi israeliani, che in tutti questi mesi di guerra non sono stati né trovati né tanto meno liberati – sono appese a negoziati che incontrano enormi difficoltà, ancora ben lontani dal raggiungere qualche buon obiettivo.

Gaza è ormai l’incendio principale al centro di tanti fuochi nella regione, a partire da quello, già intenso, della Cisgiordania. Un eventuale accordo sul “cessate il fuoco” verrebbe legato – in prospettiva-  alla costituzione dello Stato palestinese: attualmente un miraggio, se guardiamo agli anni e alle guerre passate da quando si sarebbe dovuto fare – pacificamente – nel 1948, accanto ad Israele!

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Eppure, questa è la sola via possibile di uscita. Diversi obiettano che dividere in due il fazzoletto di terra – tra Terra d’Israele e Palestina – sia, per ragioni storiche e ideali, impossibile. Ma, nel Mediterraneo, di Stati così ce ne sono tanti: Stati inventati dall’oggi al domani, Stati tracciati col righello sulla carta geografica. Dividere in due parti quella Terra è davvero impossibile? Per me no. Perciò non penso affatto, ad esempio, ad una Gerusalemme divisa in due, ma finalmente ad una città unita, con i suoi due versanti amministrativi, regolati da una legalità condivisa e rispettata, da una parte e dell’altra, creando poi una maggiore, comune e grande municipalità.

Ma, per riuscirci, occorre superare il problema più grave che è quello della colonizzazione dei Territori palestinesi, della quale – dalle nostre parti – si parla ben poco. Così ben poco abbiamo capito delle sanzioni imposte a quattro coloni violenti dagli Stati Uniti, misura che appena sfiora il rompicapo del frazionamento del territorio palestinese.

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Il mondo deve rassegnarsi, dunque? Sono di quelli che ritengono che questo pragmatismo non sia per nulla pragmatico. La strada maestra, a mio avviso, non passa infatti per le dottrine dei capi della Casa Bianca. Sostengo che nessuna potenza esterna sarà mai in grado di imporre le scelte necessarie alle parti, perché la pace non può essere mai un diktat imperiale: il modello della pax americana è ormai, nei fatti, superato; non funziona più, se mai ha funzionato. La pace che, sola, può funzionare, effettivamente, è tra i popoli della regione.

Certo: neppure la retorica irenista funziona. Non sono per quella. Solo il concreto do ut des cambia le cose. Penso alla integrazione politico culturale di Israele nello spazio mediorientale, con piena cittadinanza negli organismi regionali, quale l’attuale Lega Araba, col riconoscimento ai palestinesi di uno Stato vero, seguendo i confini del ‘67.

Per arrivare a ciò, soprattutto il sistema politico arabo dovrebbe muoversi, cambiare. Anche là le ideologie sono fallite – rovinosamente – lasciando sul campo il dispotismo militarista, illiberale, autoritario, cleptocratico. Liberarsi di quel sistema era l’impresa a cui avevano messo mano le primavere arabe, che i regimi arabi hanno soffocato con ferocia, con l’Occidente che ha apprezzato. Se i popoli avessero potuto avviare il processo di costruire delle democrazie arabe, venate di Islam, come da noi sono venate di cristianesimo, si sarebbe potuto cercare il grande negoziato con Israele.

Oggi, ai regimi arabi, di integrare un Israele pacificato con i palestinesi, sembra non interessare. Interessa, semmai, una NATO mediorientale, con gli USA e contro l’Iran. Se per ottenere ciò occorre firmare un trattato con Israele, sono disponibili a farlo. Ma senza una vera integrazione, perché mezzo mondo arabo – sotto il controllo dei filoiraniani – insorgerebbe. Tehran, infatti, rivendica lo status di protettrice di Yemen, Siria, Iraq, Libano.

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La crisi dell’Unwra è emblematica. Cerco di spiegarla in breve. Israele avrebbe scoperto che una dozzina di funzionari della Agenzia dell’ONU che si occupa dei profughi palestinesi – su un totale di circa 30.000 – avrebbero aiutato Hamas a realizzare il pogrom del 7 ottobre. I grandi donatori, a partire dagli USA, hanno perciò sospeso le loro contribuzioni all’Unwra in attesa di chiarimenti. Nel mentre si fa sempre più forte il pericolo che nessuno si occupi più degli esseri umani che, nella Striscia, soffrono la fame, il freddo, le malattie, le epidemie, la morte.

Se ne è accorto, naturalmente, soprattutto l’esercito israeliano, per forza: uno scenario del genere potrebbe compromettere il prosieguo della campagna militare. Ha infatti aperto un’indagine per appurare come la notizia delle accuse ai funzionari Unwra sia giunta agli americani, portando alla crisi finanziaria che grava sull’Unwra.

Anche questa disdetta – a volere – si può risolvere facilmente: basta una contribuzione straordinaria di sauditi, emiratini, qatarini, kuwaitiani o altri perromonarchi: eppure, nessuno sta muovendo un dito, né sembra pensarci.

Non dico che dovrebbero farlo gli iraniani, i siriani, gli iracheni, i libanesi, ossia quel fronte della “fermezza” che, a parole, difende i palestinesi senza averli mai difesi: questi Paesi, oggi, oggettivamente, non hanno più un dollaro nei propri forzieri pubblici, solo in quelli privati.

Mentre i petromonarchi – quelli sì – hanno utili enormi: proventi dal petrolio che renderebbero facile evitare il black out, non solo a Gaza ma in tutti i campi profughi,  già da fine febbraio.

Ma, al momento, nulla accade. Chissà se non si tratti di voluta pressione politica: posto che qualcuno dovrà pur occuparsi di Gaza, dopo che questa guerra sarà, in qualche modo, finita. E che proprio sui petromonarchi ricadono le indicazioni dei più.

  • Tutte le puntate del Diario di Riccardo Cristiano possono essere lette qui.
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