I volti, i nomi, la realtà

di:
miriam dagga

Mariam Dagga, 33, giornalista freelance uccisa dal bombardamento israeliano sul Nasser Hospital a Khan Younis il 25 agosto 2025 (AP Photo/Jehad Alshrafi)

Tutti sanno che papa Francesco amava ripetere che «la realtà è superiore all’ idea». Sono parole decisive e forse Gaza ce ne spiega il senso più di tanti altri possibili esempi.

Come è noto un’azione militare israeliana in due tempi consecutivi ha prima colpito un ospedale, e quindi chi vi era al momento: poco dopo lo stesso luogo è stato colpito di nuovo, uccidendo anche alcuni sopraggiunti per soccorrere o testimoniare l’accaduto, e tra questi cinque giornalisti.

I cinque giornalisti non sono diversi dalle altre vittime, ma meritano un’attenzione «ulteriore» non tanto per le regole (dovrebbero essere protetti come «stampa», ma anche i degenti lo dovrebbero essere), ma perché erano lì accorsi per raccontare la realtà, evitare cioè che dei fili della nostra storia umana, i nomi e i volti delle vittime civili, sparissero dal nostro racconto e quindi dalla nostra realtà. E così per la prima volta abbiamo letto i nomi di cinque cittadini della striscia di Gaza. Si tratta di Hussam al-Masri, collaboratore dell’agenzia Reuters, Mariam Dagga, freelance dell’Associated Press, Moaz Abu Taha, Mohammad Salama e Ahmed Abu Azizi, del quale si sa che non è sopravvissuto alle ferite.

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Conoscere e scrivere i nomi è fondamentale per umanizzare l’altro, non ridurlo a un numero. È un po’ quel che ha fatto il presidente della CEI, il cardinale Zuppi, leggendo i nomi dei bambini uccisi dal 7 ottobre in poi. Leggere i cinque nomi dei giornalisti uccisi a Gaza costruisce dunque un possibile modo per riappropriarci della realtà di Gaza e sarebbe importante se si procedesse: dove abitavano? Cosa sognavano? Come sono arrivati lì dove sono scomparsi per sempre? Avevano dei parenti in vita, genitori, figli?

In queste ore di Mariam Dagga è stata pubblicata la lettera al figlio. È molto importante per capire che madre fosse, che differenza ci fosse tra lei e un’altra madre che vive vicino a me, a Roma, che rapporto lei avesse con la vita, con la sua famiglia, con suo figlio.

Per dire se questo potrebbe aiutarci a formarci un’idea diversa di Gaza dobbiamo porci una domanda: che idea abbiamo di Gaza? Direi che fondamentalmente abbiamo l’idea di una distesa di rabbia, o di disperazione. Questa immagine ha un rapporto con la realtà, ma ci saranno anche imbroglioni e criminali a Gaza, come ovunque al mondo. Poi sappiamo di Hamas, ovviamente, e non è poco, purtroppo.

Ci sono però anche tante persone perbene, anche nemiche di Hamas, persone diverse tra di loro: qualcuno ancora ricorda che Gaza era famosa per i suoi frutteti nei primi decenni del secolo scorso, molto prima era nota come la porta d’accesso al Levante, luogo di santuari importanti, non solo musulmani, e di commerci, di scambi, di incontri.

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Ricordo un volto di Gaza che sorprese il mondo, il volto del dottor Haider Abdel Shafi, il Presidente della Delegazione palestinese ai negoziati di pace del 1991. Come lui non era solo un medico, ma lo è stato molto, Mariam Dagga non è solo una giornalista, uccisa secondo la versione ufficiale «per errore». È, è stata, una madre; e a giudicare dalla lettera-testamento scritta al figlio lo è stata molto, una madre. E Muhammad Salama? A che ora si era svegliato? Ha sempre lavorato nell’informazione? Dove era nato? Da chi?

Rispondere a queste domande aiuterebbe a porsene altre: Gaza è la terra dove loro vivevano, ma non sappiamo se da figli di famiglie lì originanti o profughe, lì giunte dopo qualche guerra; sono tantissime. Come nel loro caso, anche nel caso di quella terra i nomi sono indispensabili per procedere: per loro come esseri umani con storie diverse, con le loro personalità. Per Gaza per i tanti luoghi di cui non capiamo più neanche il senso.

Dobbiamo chiamarli Mariam Dagga o Mohammad Salama per capire che c’è un motivo per parlare di Rafah, estremo lembo meridionale di Gaza, o di Deir el Balah, o di Khan Younis. Perché hanno nomi questi luoghi? Cosa indicano? Quel Khan ci aiuta a immaginare non il Khan inteso come signore, ma come luogo di scambio, di commerci, forse di tappeti, dipende dall’idea che ognuno di noi si è fatto al riguardo dei Khan, o bazar, presenti in tanti racconti orientali.

Troppi interessi convergono nell’elidere la storia di Gaza, il suo passato, il suo presente e quindi il suo diritto a un futuro. Gaza di norma viene ricordata per Sansone, ma a me sembra curioso che sia scomparso dai nostri radar che fu un importante porto per i pellegrini cristiani diretti verso il Sinai. Gli splendidi mosaici bizantini ci parlano della prosperità di questa terra contesa, perché via di collegamento tra Egitto e antica Siria. Inoltre, mi sembra plausibile, come affermano alcuni vangeli apocrifi, che di qui passò la Sacra Famiglia, durante la fuga in Egitto. Da dove sarebbe passata altrimenti?

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Indubbiamente, anche altrove il senso dei luoghi è in discussione; ma il senso a Gaza è sparito. Il principale lavoro che serve per restituire a Gaza una sua dignità è recuperare la storia, la sua complessità.

Nel 1948, ai tempi del primo conflitto arabo-israeliano, aveva 60mila abitanti. Gaza dunque non è solo lontani passati, o agrumeti precedenti le guerre. Ha svolto un ruolo anche nel più recente inizio dell’intifada, una pagina di riappropriazione del proprio destino dalle mani dei regimi arabi, che forse spiega in piccola parte perché la vasta maggioranza di Gaza il 6 ottobre 2023, secondo un noto e indiscusso sondaggio, voltasse le spalle ad Hamas.

I politici e le opinioni pubbliche sono chiamati a scelte decisive, che tanti discutono con autorevolezza in queste ore. Ma sarebbe importante anche sapere che lo fanno per una terra plurale e ricca di storia oltre che di drammi, la sua antica realtà che non va rimossa dal nostro orizzonte. La realtà di Gaza è anche quel che fu.

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