Il Libano di Mohammad Sammak

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Mohammad Sammak.

Mohammad Sammak.

Mohammad Sammak, memoria vivente di quasi mezzo secolo di dialogo interreligioso, mi stava ormai salutando, si era fatta l’ora di andare per me.

Consigliere per gli affari religiosi di Rafiq Hariri nei suoi indimenticabili anni di ricostruzione di Beirut e del Libano, segretario generale dello Spiritual Islam Summit, tra i più stimati consiglieri  di Ahmed al-Tayyeb da quando guida l’università islamica di al-Azhar, tra gli ispiratori del documento sulla cittadinanza con cui al-Azhar pose termine al freddo con il Vaticano aprendo le porte alla storica visita di Francesco al Cairo nel 2017, unico leader sunnita a essere intervenuto a due sinodi della Chiesa cattolica, quello sul Libano nel 1997 e quello sul Medio Oriente nel  2010, parte del board  del Kaiciid, The King Abdullah bin Abdulaziz International Centre for Interreligious and Intercultural Dialogue, Mohammad Sammak ci tiene moltissimo alle foto che lo ritraggono con tutti i pontefici che ha conosciuto: Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Francesco.

Un nuovo modo di capire l’Islam

Uscendo mi sono soffermato a osservare la sua fotografia con Francesco e lui mi ha fatto notare quella che immortala il bacio di sua moglie a Francesco, “il bacio di una musulmana al papa”, mi ha detto sorridendo. Ma io sono tornato sulla sua foto con Francesco, su quello sguardo del papa argentino che si vede così sorridente, affettuoso con il suo ospite: “l’ho conosciuto a Buenos Aires, prima dell’elezione”.

Mettendomi a parte di questo particolare forse intendeva raccontarmi qualcosa del loro rapporto, ma io, come parlassi tra me e me, l’ho quasi interrotto per dire che con Francesco, il papa della fratellanza, qualcosa è cambiato, per tutti. Lui ha annuito con un profondo sospiro e guardando Francesco nella fotografia si è soffermato ripetendo la parola “fratellanza” e poi mi ha detto, scandendo le parole, con forza: “Grazie a Francesco noi abbiamo cominciato a scoprire un modo nuovo di capire l’Islam”.

L’ho guardato sorpreso per questa dichiarazione assertiva, inattesa, desiderando che mi dicesse di più al riguardo, e sono tornato sulla fratellanza, sull’umanesimo, sul suo essere il vero leader morale globale. A quel punto Mohammad Sammak mi ha detto che è tutto nella “fratellanza” e poi, con una trattenuta commozione che traspariva nella sua voce, ha ricordato che “nessun altro leader mondiale, compresi quelli musulmani, si è recato nei campi profughi dei Rohingya, in Bangladesh: solo lui…”.

Il Libano è un messaggio

Queste parole su Francesco hanno dato un senso diverso a tutta la nostra precedente conversazione, nel corso della quale, dopo anni che non lo vedevo non essendo più potuto andare a Beirut per tanti motivi, avevo cercato di ripartire con lui dalla famosa frase di Giovanni Paolo II – “il Libano è un messaggio” -, cioè la scelta di vivere insieme per l’acquisita consapevolezza da parte degli appartenenti a 18 comunità diverse.

Questo messaggio è la scelta di costruire la società del vivere insieme, che non si realizzerà se non – ritengo – costruendo legami personali, diretti.

Il filo che unisce il racconto politico, religioso e umano di Mohammad Sammak dai tempi di Giovanni Paolo II a questi ultimi impegni di Francesco, alla straordinaria visione che ha portato nel 2019 al Documento sulla Fratellanza firmato dal papa e da al Tayyeb ad Abu Dhabi, mi è apparso tutto qui.

E per riuscire a costruire questa società nuova occorre capire l’altro, non solo chiedergli di capirci. Capire l’altro e così esserne capiti… forse è anche per questo che ha sottolineato che la sconfitta di Hezbollah non va né pensata né presentata come la sconfitta degli sciiti.

Forse è la loro liberazione, mi sono detto io con parole mie, da un progetto egemonico che ne ha sfruttato le sofferenze per usarli ai propri fini ideologico-imperiali. Ma il mio punto non era questo, quanto capire se ci sia la speranza di una nuova ricostruzione, un’altra rinascita di quello che abbiamo chiamato “Levante” e che oggi sembra una landa desolata.

Su questo mi interessava ascoltarlo. E così la nostra conversazione passava da un equivoco della storia a un altro, da un’incomprensione a un’altra, fin quando Sammak mi ha sorpreso, con un racconto relativo a tanti decenni fa.

Pierre Gemayel

Chiunque conosca qualcosa del Libano e dei cristiani libanesi sa chi sia stato Pierre Gemayel, considerato il capo dei partiti di destra, il fondatore dei falangisti, il partito identitarista cristiano che durante la guerra civile ha combattuto contro i musulmani. Un leader, nella migliore delle definizioni che ricorrono in tanti libri di storia, “ambiguo”.

Bene, il racconto del musulmano Mohammad Sammak ha riguardato proprio Pierre Gemayel. Un giorno Sammak, prima dell’inizio della guerra civile libanese nel 1975, si trovava nella hall dell’Hotel Intercontinental, di recente apertura, dove prendeva un caffè con un suo conoscente. All’improvviso alcuni esponenti del partito di Gemayel lo avvicinarono dicendogli che avevano lì, in quei momenti, una delegazione di parlamentari canadesi che loro avevano immaginato francofoni e quindi non avevano organizzato un servizio di interpretariato.

Ma quella delegazione era totalmente anglofona e così questi signori chiedevano a Sammak, che sapevano parlare fluentemente l’inglese, se fosse disponibile a fare da interprete. Lui accettò, e tradusse. Così mi ha detto che in quell’incontro i canadesi dissero a Gemayel che i cristiani del Libano avrebbero dovuto fare come gli israeliani, costruire uno Stato tutto per loro. Se lo avessero fatto loro li avrebbero aiutati finanziariamente e politicamente.

Pierre Gemayel però rispose di non convenire con loro: per lui era Israele che avrebbe dovuto fare come i cristiani del Libano, impegnati a costruire uno stato con i loro connazionali musulmani; loro avrebbero dovuto fare come i cristiani del Libano, non il contrario.

Tempo dopo, i musulmani sunniti libanesi sostennero le ragioni dei palestinesi che arrivati in Libano ritenevano loro diritto essere armati per combattere gli israeliani. Per molti di noi, ha proseguito Sammak, era una scelta logica, naturale, sostenere chi subiva un torto, un’ingiustizia. Ma cosa avrà significato quella scelta agli occhi di tanti cristiani libanesi?

Quando il primo ministro Salim el Hoss, sunnita, che tentava di tranquillizzare Pierre Gemayel sulla immodificabilità del partenariato islamo-cristiano in Libano, si sentì rispondere dal suo interlocutore “chi mi garantisce su quello che dici?”  il dramma dell’equivoco si era consumato: “l’uomo che gli chiedeva garanzie era lo stesso uomo che aveva respinto le proposte canadesi”.

È un esempio che apre gli occhi sulla necessità di evitare altre incomprensioni, non ricorrendo alla violenza, ma alla politica, e alla comprensione dell’altro.

La Beirut dei profughi

Arrivando da lui, attraversando diversi quartieri di Beirut, ho visto tanti profughi accalcarsi nelle strade di questa prostrata capitale libanese, dove tutto costa cifre inaudite.

Guardando una bambina, sola, che chiedeva l’elemosina tra le macchine ferme nel traffico, mi sono chiesto se fosse siriana, cioè figlia dei tanti fuggiti dalla ferocia assassina di Assad e che questo Libano prostrato da una crisi economica senza precedenti, e aggravata dalle conseguenze della guerra appena conclusasi, spera all’unisono possano presto tornare in patria.

Ooppure era sciita, quelli che sono fuggiti dal sud del Libano distrutto? Quella bambina era una nemica? Solo perché in quanto sciita sarebbe stata complice del disegno miliziano di Teheran? O non avrebbe bisogno di un partito che senza pensare più alle armi pensasse ai suoi diritti?

Verso un Senato libanese

Così salendo a casa Sammak la prima cosa che mi è venuto naturale domandargli è se l’attuale governo, da molti apprezzato in Libano e fuori dal Libano, possa riuscire a far ripartire il paese dove chiunque avesse un conto in banca ha perso tutti i suoi risparmi e la più pesante banconota, le 100mila lire libanesi, è ridotta al valore di un semplice dollaro, che non basta neanche per comprare una bottiglietta d’acqua minerale, mentre pochi anni fa bastava per una cena di lusso.

Sammak mi ha risposto con un esempio, politico, che non origina in Libano, ma in Siria. Nella Siria di oggi, ridotta in miseria quanto o più del Libano, la piccola minoranza dei drusi merita attenzione: è presente in Siria, come in Libano e in Israele. E molti drusi siriani vedono i drusi in Israele vivere diversamente, meglio. Sono integrati, rispettati e svolgono anche il servizio militare. Così c’è chi tra i drusi ritiene che unirsi a Israele sarebbe preferibile.

Per la Siria, come per il Libano, questo è pericoloso, perché determina tensioni che potrebbero avere conseguenze anche per i confini, per l’unità nazionale. Ecco scontri, anche armati. Chi ha offerto una risposta politica ai drusi siriani è il leader druso libanese, Jumblatt, che ha detto: l’esempio libanese vi dimostra che esiste anche un altro modello, il nostro; i drusi in Libano sono integrati anche nel processo decisionale.

Bene, ora che il governo di Beirut si dice determinato ad attuare finalmente tutto quanto previsto dagli accordi di pace del 1990 e dar vita così anche al bicameralismo, istituendo il Senato della Repubblica, questo andrebbe affidato a una presidenza drusa.

In Libano le supreme magistrature repubblicane sono affidate ai maroniti, che hanno la presidenza della repubblica, ai sunniti, che hanno il primo ministro, agli sciiti, che hanno la presidenza della camera. Per Sammak sarebbe molto opportuno che i drusi vedano di essere davvero integrati nel processo decisionale ottenendo la presidenza del futuro Senato. Un messaggio anche alla Siria, su come dovrebbe nascere.

Ma questa seconda Camera avrebbe un enorme valore, in sé: segnerebbe la fine del confessionalismo assoluto, partitorio e spartitorio, visto che la Camera attualmente esistente viene eletta per quote confessionali, mentre questo nuovo Senato lo sarebbe con il sistema politico, quello con cui votiamo noi. È quanto previsto dagli accordi del 1990 ma mai attuato per scelta dei siriani, degli Assad, che colonizzavano il Libano.

Questa riforma, che sembra avvicinarsi davvero, sarebbe decisiva per costruire la società del vivere insieme, perché accanto alle garanzie per tutte le comunità, nessuna delle quali deve più temere che sia possibile quel che si temette ai tempi del colloquio tra Gemayel e al-Hoss, cioè l’esclusione, si introdurrebbero anche i diritti delle persone, libere di esprimersi nella loro soggettività e così di costruire legami interconfessionali.

Ma non è il solo cambiamento che si dovrebbe portare a compimento, mi ha fatto notare Sammak: gli accordi di pace prevedono anche un decentramento amministrativo robusto, che rappresenti la realtà interconfessionale presente in tutti i territori libanesi, i loro comuni bisogni. Questa per lui è l’altra grande riforma, urgente: e anche questa mi è apparsa una strada che costituirebbe un esempio regionale.

Libano, germe di un nuovo Levante

Ascoltando ho pensato che questa sia la prospettiva che potrebbe far ripartire questa parte di mondo: le riforme libanesi di cui mi ha parlato sono ciò che servirebbe anche a Siria e Iraq per cominciare un cammino nuovo, inclusivo.

Se il governo libanese nei prossimi mesi riuscisse a fare ciò di cui si comincia a parlare, a livello istituzionale, compirebbe un’impresa enorme, epocale, indicando una strada a Paesi che non possono avere un diverso futuro restando in urto tra di loro: il modo di camminare insieme all’interno di ciascuno di essi e tra di loro. Il caso dei drusi lo dimostra.

Se il Libano avviasse così a soluzione la “questione drusa” indicherebbe la strada che potrebbe rimettere in carreggiata anche la Siria; non con le armi, ma con la politica. Tutto si lega in questo mosaico, dove la Fratellanza, il magistero di Francesco, diventa una bussola vera, concreta, per uscire dagli equivoci della chiusura, del pregiudizio, dell’esclusione.

Nulla è risolto nel Libano d’oggi, ma il filo che Sammak indica soffermandosi sulla questione drusa lega le tante crisi e fa della soluzione dell’una anche la soluzione delle altre.

Tornando in albergo ho sentito che Beirut è la città di quella tensione polare di cui tanto ho letto in Evangelii gaudium: il mare, cioè l’incontro, e a pochissima distanza la montagna, cioè le origini, sono in costante tensione polare nella città, come il centro cittadino, con il suo stile irrimediabilmente promiscuo, e gli attigui quartieri confessionali, dove tutti tornano dopo però essere comunque, per un motivo o per l’altro, corsi lì, in centro.

Nel grigiore di una crisi che tutto prostra a partire dai ceti medi, quasi scomparsi dall’orizzonte urbano, Beirut appare come una prospettiva ancora viva se lo saprà essere davvero per tutti, dimostrandosi capace di capire ciascun “altro” che vive quello spazio con gli altri.

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