Israele-Palestina: domani è ieri

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«Nel 1969 andai all’Università di Oxford per un’intervista e fui subito ammesso. Tornai a Beirut, da Yasser Arafat e gli dissi: “non voglio andare a Oxford”. Ero un quasi-marxista, uno di sinistra, o come vogliamo dire. Gli dissi che volevo andare a combattere (nel sud del Libano) contro gli israeliani. Lui si inalberò. Mi disse: “Non fare l’idiota. Non essere stupido. Non abbiamo bisogno di combattenti. Abbiamo bisogno di gente che possa impegnarsi in colloqui, perché il risultato di questo conflitto non sarà determinato sul campo di battaglia, ma attraverso qualche tipo di negoziazione. Quindi, vai a Oxford, cerca israeliani e parla con loro”».

Strano modo per assistere al crollo di quello che per tutti loro era un tabù, parlare con il nemico. Comincia così la lunga intervista di Hussein Agha, libanese impegnato con l’OLP da molti decenni e per decenni uno dei principali negoziatori con Israele, autore di diversi volumi su quei tentativi (l’ultimo dei quali scritto con Robert Malley che durante l’amministrazione Obama è stato tra i principali mediatori americani nel processo di pace israeliano-palestinese, intitolato Domani è ieri: vita, morte e ricerca della pace in Israele/Palestina).

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È importante leggere la sua lunga intervista al giornale libanese L’Orient Le Jour in queste ore tremende, anche perché lui alla fine non si sottrae alla domanda sul possibile domani, dopo aver detto molto altro.

Agha racconta la sua storia di negoziatore all’inizio riluttante, che comincia cercando interlocutori tra gli ebrei antisionisti, poi tra i pacifisti, fino a diventare un interlocutore delle leadership israeliane, compreso Netanyahu, con il quale dice che un accordo sarebbe stato possibile; l’occasione assicura che c’è stata.

Poi, dopo il 7 ottobre, il premier israeliano è cambiato, aggiunge. Ricordando un’occasione in cui si fu a un passo dall’intesa sottolinea che il problema non fu sui termini, fu che Abu Mazen temette che gli americani lo volessero scalzare, mentre gli israeliani temettero che gli americani avessero compiuto passi a loro insaputa.

I dettagli storici interessanti nel racconto Hussein Agha sono tantissimi, ma quel che qui è importante citare del suo discorso sono alcuni convincimenti che ha maturato. Il primo è che per fare la pace non basta la volontà delle parti, serve anche il contesto: se non è quello giusto, se l’ambiente globale non è quello necessario, la volontà, l’intenzione, non basta.

Poi, parlando di sé, questo negoziatore all’inizio riluttante, convintosi nel corso del tempo che quella strada fosse giusta, afferma che a merito di Abu Mazen va riconosciuto che è stato il primo a capire che la violenza era un pessimo viatico per avanzare con in Israele. Questa non avrebbe fatto che unire il Paese, il popolo israeliano, in una posizione di difesa e fermezza.

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Proseguendo nella lettura emerge che lui, uno dei principali negoziatori della formula “due popoli per due Stati”, non è mai stato convinto che fosse la migliore, ma l’ha sposata perché ha seguito la scelta dell’Olp.

Dentro di sé manteneva l’idea che la soluzione, ovviamente tra mille difficoltà, fosse quella di uno stato binazionale, perché la pace non è tra territori ma tra popoli. Così ha portato avanti la scelta che però comprendeva ragionevole perché salvava la natura ebraica di Israele e dava ai palestinesi una patria. Ma pensando al domani ritiene che i problemi complessi non si risolvano con un tratto di penna, tirando una riga sul terreno e mettendo uno di qua e uno di là.

I problemi complessi richiedono fantasia, e in questo caso vede la necessità di usarla ancor più di ieri, perché vede confermato il nodo di fondo: questi due popoli hanno un rapporto intimo, molto forte, con tutta quella terra, dunque occorre lavorare d’ingegno per trovare il modo giusto d’agire: “se ho trovato una formula? No.”

A suo avviso Arafat riteneva possibile la pace con interlocutori come Rabin o Sharon, non con le colombe: per lui era necessario un leader che garantisse con la sua storia, la sua personalità, che la sicurezza del suo popolo sarebbe stata effettiva. Rabin per Arafat era un interlocutore affidabile,  se diceva sì era sì, se diceva no era no, non in entrambi i casi “forse”.

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Nel testo non risparmia critiche alla leadership palestinese per il recente passato, prima del 2023,  e per il futuro vede la necessità palestinese di cercare spazio in un negoziato arabo-israeliano. I palestinesi oggi hanno poco da  offrire, mentre gli arabi hanno a suo avviso diverse carte in mano, pur essendo chiaro che non c’è per loro altro ombrello che quello americano.

Ecco allora quello che ritiene il negoziato possibile per  domani. Un esempio: i patti d’Abramo, cioè la pace firmata con Israele da alcuni Paesi arabi tra i quali gli Emirati Arabi Uniti – sottoscritti durante il primo mandato di Trump su sua iniziativa – hanno consentito ad Abu Dhabi di evitare l’annessione israeliana della Cisgiordania. Così il domani lo vede nelle mani dei sauditi, la cui firma a quei trattati ancora non c’è.

I sauditi, fa notare, non sono più i leader di una parte del mondo arabo in conflitto con l’altra, come è stato per tanti decenni, ormai sono i leader di tutti, visto che mancano possibili rivali; l’Iraq è instabile e incerto, la Siria avrà bisogno di decenni per tornare protagonista, l’Egitto vive degli aiuti sauditi.

Dunque è Riad che può cambiare le cose e la scelta lungimirante di bin Salman è stata quella di aver riaperto i rapporti diplomatici con Teheran e migliorato quelli con Ankara. “I sauditi potrebbero usare questo loro nuovo status per cambiare la futile narrativa degli ultimi decenni”.

Difficile dire nel buio di oggi se possa aver ragione, certo è una voce che fa sperare che sia possibile in qualche modo voltare pagina; che davvero domani sia ieri?

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